Rumore d'ali

(De insania)

Parte XX

+ Epistula Insana

 

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Musica di trombe, come virgole lanciate nell’aria, e di pianoforte che sferragliante e indiavolato arrivava dalla porta del locale alla fine della gradinata, leggermente sottoposto al livello della strada. Esitai un attimo. Non era un dispiacere. Tutt’altro… Tutt’altro! Ma quella musica mi aveva ricordato per un istante la sfortunata festa di Girodel con annesso pseudo-corteggiamento di Fersen. Il tempo dei miei disastri amorosi.

Era una sera stranamente luminosa questa. O erano i miei occhi che, ormai abituati alla notte semplice e selvaggia, si stupivano e si beavano nella luce di un lampione.

“… ora il vecchio lampione s’illumina ancora davanti alla caserma sul finire del giorno,

ma ahimé tutto mi sembra strano.”

Il mio cuore ricordò Lili Marlène e accelerò.

Era tutto strano? mi chiesi. Ora era tutto strano? Eravamo finiti come Lili Marlène e il suo soldato?

Nell’aura del lampione il vento trascinava brandelli di carta e mozziconi di sigarette. La temperatura era mite. Tonfi leggeri di porte socchiuse. Cigolii lievi di catene di biciclette.

“Scendiamo?”. La voce di André mi distolse.

Annuii. “Certo”.

Sistemò il catenaccio della bicicletta e si rimise in piedi aggiustando la ciocca ribelle sul volto. Non ero stanca di sentirmi in colpa per quell’occhio, ma a volte la colpa era superata dalla tenerezza. E a volte si mischiavano, si intrecciavano come i fili di una corda e me ne stavo zitta ad aspettare che arrivasse un pensiero nuovo e futile a sciogliere quel groviglio.

I suonatori continuavano a non avere alcuna pietà per i loro strumenti, ma di voglia di vivere sì, che ne avevano!

Mi chiesi se avessero già suonato la storia di Lili Marléne; se avrei avuto il coraggio di chiedere che la suonassero per noi.

André mi prese la mano e mi guidò prudente verso la scala. Con l’altra mano gli cinsi il braccio per guidarlo meglio lungo gli scalini.

La porta si aprì e la musica e la luce esplosero ancora più sfacciate. Quando entrammo mi accompagnò col braccio attorno alla vita e un mezzo sorriso.

“No…” mi dissi. Non eravamo finiti come Lili Marlène e il suo soldato innamorato.

L'unico nesso fra Lili e noi era la luce del lampione che in questo tempo rubato al tempo s'era sostituito alle nostre antiche lucciole.

 

Era d’aprile quella sera che andammo a cercare Alain e Bernard giù al locale. Me lo ricordo. Eravamo a Parigi da tre giorni. Non ci eravamo arrivati col maggiolino, né in bicicletta, a dispetto delle minacce di André. Avevamo viaggiato un po’ in treno, un po’ a piedi: io, lui e la gatta. Avevamo dormito e mangiato poco. Ma non era una novità quella, negli ultimi anni….

Vicino a quello che era stato il confine della Repubblica di Vichy con la Francia occupata mi chiesi, arrancando per una salita ripida e brulla come un'ascensione ai cieli, che fine avesse fatto la nostra vecchia MG. Era in quella zona che eravamo stati costretti a venderla, per andare avanti. Un'auto pericolosa, leggera, che correva raso terra con un eccitante suono d'incoscienza: la nicchia in cui avevamo parlato e discusso tante volte. La nostra complice sotto il cielo parigino.

Il vecchio cielo che ricordavo perennemente ingombro di nubi e che ora, sulle nostre teste, taceva. Niente rumore d’ali nemiche.

Di fronte alla porta di casa mi ero sentita spiazzata: avevo immaginato il vecchio ritratto appeso alla parete oltre la porta. Come se lo vedessi. Stavo per entrare in una casa che non avevo mai sentito come mia. Rientrare, sotto lo sguardo di quel ritratto immenso, costoso e fuori luogo per una casa del genere, che avevo amato, che mi aveva ispirata e inquietata al tempo stesso.

Avevo staccato gli occhi dal legno della porta e incontrato quelli di André che attendeva al mio fianco.

“Ho dimenticato la chiave…”avevo confessato.

“Ahhh”. Aveva sospirato, chinando il capo. “Devo scassinare la porta di casa tua” aveva mormorato alla fine, frugandosi nelle tasche.

 

Una volta dentro avevo aperto la gabbietta da cui Esmeralda era uscita, molto contrariata. Si era stiracchiata e guardata intorno pigramente, lanciando un miao lamentoso. Ero rimasta ferma nell’ingresso, nel buio, nell’odore di polvere e di chiuso.

André aveva aperto la finestra in salotto ed era tornato con una sedia che aveva usato per bloccare il pomello della serratura scassinata. Dall’ingresso si intravedeva la cornice del quadro. Ma non avevo avuto voglia di vederlo. Era come stare di fronte alla coscienza. Non le volevo sfuggire, ma non avevo voglia di pensarci, perché molte cose erano cambiate e non era giusto sottoporle a un giudizio che aveva radici in un passato diverso.

Mi ero diretta in camera da letto. Quella sì… era l’unica stanza che avrebbe potuto essere mia. C’era ancora, fra il letto aggiustato alla meglio e il comodino con una pila di libri franata, fra la finestra e lo specchio opachi, fra il soffitto a crociera e l’armadio statuario, l’eco dei miei vecchi pensieri. Sbagliati, arrabbiati, agguerriti, sconsolati, esaltati, lucidi… Tutto e il contrario di tutto. C’era l’eco delle mie indecisioni, delle mie risoluzioni, le architetture a volte solide a volte friabili dei miei piani. C’erano le mie parole d’amore per André: quelle mute e quelle sussurrate.

Gli ultimi tre giorni in quella casa li avevamo trascorsi in quel letto. Avevo pensato che in quell’istante ne avrei voluti trascorrere altrettanti. A dormire però! E lo aveva pensato anche lui, perché senza dire nulla e senza ritegno, stanchi come due stracci strizzati e sbatacchiati, con ancora addosso i soprabiti, ci stravaccammo sul povero materasso. Avevamo continuato a camminare e parlare per inerzia nelle ultime ore.

“Morbido… materasso...” fu il mio stolto commento che tradotto in lingua umana e con una sintassi significava "Avevo dimenticato quanto fosse morbido il mio materasso". Il tutto mentre già agognavo ad avere un piede nel regno dei sogni. “Buona notte” disse André, ma dalla finestra entrava ancora il sole.

Esmeralda ci aveva osservati dal davanzale, approvando la scelta e facendo un elegante giro su se stessa per acciambellarsi nella miglior tradizione felina.

 

Avevamo rivisto Alain e Diane. Erano arrivati qualche giorno prima. Diane aveva pianto e io avevo finto di non piangere. Non credo mi fosse venuto tanto bene, ma sia André sia Alain erano abbastanza esperti nell’arte di fingere di non notare quello che mi dava fastidio e mi imbarazzava.

Casa loro sembrava invecchiata: densa di polvere e fredda di non vissuto attendeva di essere riportata alla vita. Mi era sempre piaciuta: piccola, calda, viva per quel disordine che non è nient’altro che un ordine sconosciuto. Sarebbe tornata come prima dissi a Diane che si affannava a srotolare dal balcone un tappeto polveroso.

“Hanno rubato i cucchiai e le altre posate” mi confidò lei. “Non erano nemmeno preziosi… ma cosa vuoi farci?”.

Alain e André se ne stavano sul balcone in silenzio. Sembravano concentrati sull’orizzonte.

“Il balcone delle confessioni” pensai e, istintivamente, ricordando il discorso che avevo udito un anno e mezzo prima sul balcone, visualizzai le piastrine che André si ostinava a portare al collo. Visualizzai una strategia plausibile per costringerlo a rinunciarvi. Da attuare magari quando ci saremo scocciati di ronfare e stiracchiarci per tutto il tempo che eravamo in casa.

Parlammo di eventi orrendi. Ma non ne parlerò. Il Vercors… No. Non ne parlerò.

“Il pupo degli Chatelet è nato a ottobre lo sapete?” esordì Alain per sciogliere il nodo alla gola che ci aveva legato il silenzio. “Rosalie tutta sola lo ha chiamato…” iniziò a spifferare, sospendendo l’annuncio per creare la suspance.

“Lo ha chiamato?”.

“Lo ha chiamato Apollinaire”.

Momento di elaborazione della notizia.

“Ma di secondo nome fa Bernard. Dice che avevano deciso i nomi appena era rimasta incinta”.

Apollinaire… era meglio se lo chiamavano vomito!”. André mi diede una gomitata, ma stava ridendo anche lui. Mi pentii subito di quel commento: la piccola Rosalie con un bambino…

“Bernard sta facendo le pubblicazioni per il matrimonio… credo che ora stia molto meglio”.

 

Il locale era fumoso. Ci spostammo incerti nella penombra e nel caos musicale fino a quando una mano che si agitava al di sopra della folla non ci segnalò la presenza di Alain e Bernard seduti a un tavolo. Mentre ci dirigevamo verso di loro, scansando avventori danzanti e camerieri indaffarati, notai alcuni volti conosciuti. I colleghi del giornale mi salutavano con un cenno del capo e un sorriso imbarazzato. Alcuni mi avevano contrastata, altri mi avevano accettata ma nei limiti del formale. Ce n'erano alcuni di tutte e due le fazioni. Molti di loro mi avevano trattata con freddezza in passato: ero un essere troppo ambiguo per loro, non un uomo, ma allo stesso tempo non palesemente una donna. Ed ebbi come la sensazione che la presenza di André li inquietasse, o perché confermava o perché smontava le teorie sulla mia sessualità, che in passato erano state loro tanto a cuore.

Bernard, che non avevamo ancora salutato, si alzò in piedi ed abbracciò prima André e poi me. Alain ci fece un cenno col capo e rimase beatamente seduto a sorseggiare non so quale intruglio con la cannuccia. André gli diede una pacca sulla spalla e gli si sedette accanto. Io mi appoggiai coi gomiti al tavolo, mentre Bernard riprendeva il suo posto evitando una collisione con un cameriere.

“Come va ragazzi?” chiese e gli lessi negli occhi la voglia di parlarci di Rosalie e del bambino.

“Loro come stanno?” chiesi. Era la prima cosa  di cui volevo sapere.

“Bene! Stanno bene!” rispose illuminandosi. “Ieri però il bambino aveva dei brutti dolori di pancia, ma ora sta bene!”.

“Sono contenta. Passeremo appena possibile a salutarvi tutti... anche domani…Voglio dare un abbraccio a Rosalie…”. Mi interruppi, perché i miei sporadici sentimenti materni stavano venendo a galla. André mi guardò con aria di sfida, come per dire “Non resisti un attimo senza fare la dura ma ti fai scoprire”. Alain, sempre molto critico verso il mio ruolo di balia di Rosalie, mi lanciò un’occhiata in tralice, mentre continuava a sorbire l’intruglio alcolico.

“Amore cosa beviamo? Ordina tu” esordii per tirarmi fuori d’impiccio e, coi gomiti sul tavolo e le mani sulle guance, lanciai un’occhiata panoramica alla sala.

“Cos’è quello?” fece Bernard.allungandosi sul tavolo e sbarrando gli occhi.

“Ma guarda!” fece Alain fingendosi ipocritamente stupito.

Con le mani sulle guance avevo, senza accorgermene, messo bene in mostra, sotto il raggio di un faretto, la fede.

“Una fede” risposi candida, guardandomi la mano. “Mai vista una?”.

“E guarda… scommetto che ce l’ha uguale pure il Grandier!” fece Alain piazzando la mano destra di André sotto il faretto.

“Ma siete bastardi! Vi siete sposati e non ci avete invitato!” commentò Bernard con gli occhi fuori dalla orbite per la delusione.

Glissando sui problemi organizzativi, piuttosto intuibili, nel caso di dover fare inviti a un gruppo di partigiani dispersi nel Vercors in periodo immediatamente postbellico, mentre vivevamo in un abbaino in un posto abbastanza sconosciuto della costa meridionale francese, André si limitò a dire: “Mah… è stata un idea che ci è venuta così e non c’era tempo per gli inviti… nulla di premeditato… non ci siamo certo stati a pensare un secolo…”.

Io mi misi a ridere.

“Un secolo no… quasi due!” commentò Alain, staccandosi finalmente dalla cannuccia.

“Che stronzi…” continuò a mormorare Bernard, nonostante se la ridesse con la faccia da finto offeso.

“Ordina…” feci alzando con un dito il mento ad André, per interrompere l’ilarità del momento, ma ero allegra anch’io.

“Due  cognac!” gridò al volo, alzando un braccio, a un cameriere con vassoio, che interruppe un istante la marcia e fece cenno col capo di aver capito.

Dopo qualche sorso di cognac, mi sentii più rilassata. Mi ero abituata al caos jazz o presunto tale. Mandato giù il sorso mi fermavo ad assaporare le gocce che mi erano rimaste sulle labbra. André parlava con le dita ferme sul bordo del bicchiere appoggiato sul tavolo. Mi distrassi. Volai via col pensiero di quanto fosse bello avere accanto le persone che volevo avere accanto.

“Grandier… come sta il comandante?” chiese sornione Alain. “Li abbiamo rimessi a posto i polmoni?”.

Ritornai vigile.

“Certamente… ha due gran bei polmoni ora”. Commento accompagnato da bacio sulla tempia.

Quei due si misero a ridere. Chissà che avevano capito… André anche. Mi sentii le guance rosse e gli diedi una botta sul ginocchio, fingendomi arrabbiata. Ero contenta.

 

Una mattina, svegliandomi, mi ero trovata a fare i conti con tre pensieri.

Il quadro.

Il candeliere.

Il diario.

Ero ancora molto stanca, ma non avrei ripreso sonno ed avevo cominciato a rotolarmi nel letto. André dormiva beato, supino e con un braccio buttato indietro sul cuscino: non lo toccavano quei pensieri. Non eravamo ancora andati a vedere in che condizioni fosse la sua mansarda, forse lo avremmo fatto quel giorno.

Mi ero appiattita sul materasso con lo sguardo al soffitto e avevo chiuso gli occhi: il sonno avrebbe portato via il pensiero che mi stava fiorendo in mente? Il quarto pensiero: il quarto oggetto. La camicia… La camicia strappata…

Mi ero alzata in punta di piedi ed ero andata a cercare nell’armadio. L’anta, girando sui cardini, faceva rumore, ma l’avevo aperta piano per evitare di svegliare André. Quando si aprì ebbi come in un déjà-vu di fronte agli occhi l’immagine di un armadio in cui pendevano uniformi gallonate di colori diversi, mostrine e gradi. Ma era stato solo un flash, nel mio armadio c’erano i miei soliti vestiti: il soprabito lungo color terra, un gessato marrone, camicie bianche, un altro completo maschile rosso come il sangue che non avevo messo molte volte perché il rosso di quei tempi era alquanto scandaloso, la gonna verde con cui avevo trafugato i pezzi della macchina della tipografica nella sede del giornale, i resti degli abiti sdruciti del Maquis e della costa meridionale. Avevo sfiorato per un istante i pantaloni che erano stati del figlio di Louise, quelli troppo corti per coprirmi le caviglie. Mi ero intristita per un attimo ed avevo scosso il capo con sorriso amaro.

Quella camicia era sparita. Era ricomparsa il tempo di essere ritrovata. L’avrei voluta riavere, ma sapevo che non sarebbe successo.

Posso sempre chiedere ad André di strapparmene un’altra...

Quando mi alzai, mi girò il capo, mi brontolò lo stomaco: chiari sintomi famelici e in cucina c’erano le solite gallette... Certe cose non cambiano! Avrei ricominciato a lavorare al giornale e qualche franco per comprare del pane lo avremmo avuto.

Non ero stata abbastanza sveglia da chiudere con circospezione l’anta dell’armadio che cigolò senza ritegno. André però si stava già stiracchiando nel letto.

“Che vuoi fare?” mi chiese.

“Non lo so…” avevo detto e poi c’era stato un silenzio che non avrebbe dovuto esserci. Io con la mano sulla maniglia dell’armadio e lui steso nel letto, poggiato sui gomiti.

“Hai mai pensato… E se quella casa… quel palazzo esistesse ancora?”. Ecco che strada mi avevano fatto prendere col pensiero quegli oggetti.

“Palazzo Jarjayes?A che servirebbe rivederlo?”.

“A niente…”.

“Non lo so… volendo… Versailles esiste sicuramente”.

“Non so se mi va di rivederla” dissi, mentre l’ennesimo pensiero si faceva largo. “C’è una cosa che non ti ho detto… quando ero sola a Parigi e tu eri via con Alain e Bernard… ho visto Maria Antonietta…”.

Il quinto oggetto: i ventagli illustrati che Rosalie mi aveva chiesto di recapitarle.

André apri le labbra per lo stupore, ma non ne uscì un suono.

“Era sola…” avevo detto, rivedendo la stanza zeppa di polvere, drappi e di anticaglie. Il tavoli con le boccette di laudano – era il laudano, la pazzia o solitudine… ad avere quell’odore? - che sua maestà beveva dietro suggerimento di Jolande de Polignac. C’era la Polignac, ma era sola comunque.

“Non si sono ritrovati”.

 

“Vedi… sarà il caso che ci diamo da fare per rientrare nel giro. Non è un caso se ci siamo dati appuntamento qui stasera”.

“Lo so Bernard. E sono d’accordo” confermai, prendendo un altro sorso di cognac. “Come vanno le cose al giornale? Ne sai nulla?”. Feci ruotare il liquido nel bicchiere.

“So che è un gran casino. È sparita molta gente. Le ultime uscite erano ridotte all’osso e c’è bisogno di qualcuno che diriga la baracca. Di Girodel non se ne sa più nulla. Se continua così l’editore li manderà a spasso tutti quanti… ci manderà a spasso. Io ho chiesto comunque di essere pubblicato, non mi importa il compenso, prima poi lo recupererò”.

“Ho capito” e chinai il capo per prendere un altro sorso con maggiore concentrazione. Come se servisse.

“Non c’è bisogno di qualcuno che comandi, perché là dentro ormai vogliono comandare tutti ed è uno dei motivi per cui sono cazzi amari” disse Alain, allontanando il bicchiere con la cannuccia ormai vuoto. “C’è bisogno di qualcuno che li sappia guidare” e mi puntò gli occhi addosso.

Riflettei sul sapore del cognac sulle labbra, temporeggiando per la risposta, col bicchiere in mano. L'orchestra faceva una pausa e si riorganizzava fra battute salaci e accordi. Alain e Bernard avevano gli occhi particolarmente spalancati.

“Lei si offre volontaria!” esclamò André sollevandomi il braccio tipo vincitrice di incontro di boxe.

“Lo sapevamo…” commentarono sollevati i due, come se avessi parlato io.

“Va bene. Mi offro volontaria” risposi flemmatica, facendo eco ad André.

 

Mi ricordo che in uno di quei pomeriggi, uno particolarmente luminoso e freddo, messo da parte il violino per la tristezza di non avere più le dita agili come un tempo, André mi aveva trascinato fuori e convinto a fare una passeggiata per le strade della città. Sfrecciavano vecchie moto, così rumorose che sembrava avessero inghiottito un alveare. Nei pressi della stazione signore col capellino coi fiorellini e signori col cappello appena poggiato sulle tempie per la fretta correvano confabulando e trascinandosi dietro vecchie valigie. Le persone camminavano di fretta lungo i marciapiedi. Nel parco qualcuno azzardava una scampagnata e si specchiava in un laghetto fra le papere che si pulivano le piume e che beccavano il pane; i bambini giocavano a far correre cerchi di legno e aquiloni, una palla rattoppata rotolava sull’erba inseguita da cagnolino col pelo arruffato; due ragazzi si baciavano contro un muro e una donna fece voltare scandalizzata la figlia dall’altra parte; le sommità degli alberi ondeggiavano pigre.

Tutto così normale. Così perfetto. Sembrava che non fosse accaduto mai nulla.

André, ingannato dal sole, non aveva indossato una giacca abbastanza pesante e si stringeva ogni tanto nelle spalle. Io, come sempre ormai, ero stata infagottata a dovere.

Fuori dal parco, nel boulevard, ci trovammo di nuovo fra la folla e passeggiammo accanto a gallerie d’arte e café.

Camminavo sopraffatta, con la mente a chi, nelle nostre avventure, era stato sopraffatto dagli eventi. Pensavo anche a noi. Ora non c’erano immagini che tornavano o sogni. Lo facevo volontariamente.

“Stai ancora pensando a quella storia?” mi interruppe André.

“Cosa?” chiesi sollevando lo sguardo dal lastricato, mentre a passi lenti ci muovevamo nella folla.

“Non stai pensando al violino, vero?” constatò.

“Non è niente”.

“Vuoi che andiamo a Versailles?”.

“Sinceramente non mi va”.

“Cosa vuoi fare?”

“Continuiamo a passeggiare” gli sorrisi, scuotendogli leggermente la mano.

Continuammo a camminare in silenzio finché, all’improvviso, non mi cinse con un braccio le spalle e si chinò per baciarmi, in mezzo alla folla che scomparve, cancellata da quel gesto.

 

Quel pomeriggio ci avviammo verso casa sua. Non avevamo ancora controllato in che stato fosse la mansarda ed era quello il momento di farlo, dato che eravamo di strada.

“Lo sai, vero, che devo rompere un’altra serratura?” mi chiese, mentre riprendevamo a camminare.

“E’ la vita…” risposi presa da altro, che però non era che lui.

 

“Questi suonatori non sono gran cosa, ma non si stancano mai…” commentò Bernard col mento sui palmi delle mani e i gomiti puntati sul tavolo.

“Come chi ha gli occhi?”. Tentavo di immaginare il figlio suo e Rosalie.

“Ancora non è chiaro, ma sembra che siano come i miei”.

“Povero infante” commento laconico e sarcastico Alain, ma lui non lo sentì, preso dalla musica, o forse lo ignorò.

“Il pianista è invasato” commentò André chinandosi verso il mio orecchio. In effetti il pianista ci stava dando dentro col ritmo, come se fosse una questione di vita o di morte. Il papillon fluttuava, pericolosamente sganciato, sulla spalla sinistra e tutta l’orchestra si affannava a stargli dietro. La lotta era impari! Un disastro per le orecchie, una meraviglia per gli occhi.

“Guarda il tipo con la tromba… stanno per esplodergli gli occhi fuori dal cranio”.

“Già!” confermai, focalizzato il povero musicista, e iniziammo a sghignazzare.

"Balliamo? Io e te non abbiamo mai ballato assieme".

Come rifiutare? Trovarmi su quella pista mi diede una strana eccitazione e l'impressione d'essere un po' sotto esame. La musica impazzava. Era "In the mood" di Glenn Miller: fatta per ballare.

"Oscar!" si  lamentò André, mentre inaspettatamente ci irrigidivamo tutti e due nello stesso movimento.

"Ecco perché non abbiamo mai ballato insieme!" convenni chinando il capo.

"Se permetti ora guido io!...." commentò trascinandomi nella mischia, rassegnata e leggera sulle gambe come non avrei creduto. "Poi... stanotte fai quel che vuoi...".

 

Quando riaprii le persiane la vetrata fu libera di riempirsi delle immagini degli alberi del parco, del cielo terso, luminoso e freddo. La luce si prese il legno degli stipiti, del pavimento e dei mobili. La polvere non sembrò che una patina leggera e morbida sugli oggetti. Cavalletto, tele, barattoli, pennelli apparvero nel solito angolo, senza la solita familiarità: come in una piccola, nuova dimensione.

André prese da un tavolino una vecchia bottiglia con quattro dita di liquido color ambra e iniziò a cercare dei bicchieri. Mentre lui trafficava, mi avvicinai all'angolo in cui erano posate le tele. Il cavalletto era vuoto e silenzioso con le sue assi di legno e con le gocce di colore cadute per sbaglio.

"Non ricordo dove cavolo ho messo i bicchieri...".

Gli stavo per rispondere che, come al solito, probabilmente, li avevamo mollati in qualche posto della casa diverso da quello in cui dovevano stare, però prima di parlare, istintivamente, sollevai una delle tele, leggermente scostata dalle altre e protetta da uno strato di carta. La liberai dalla carta e rimasi a fissarla. Trattenni il fiato. Ebbi anche paura che il quadro mi cadesse di mano.

Il colore era leggero e morbido. Niente pennellale, solo velature luminose. Solo un viso. Tratti trasparenti e freddi, densi e caldi, si alternavano nella luce dello sguardo; gli occhi socchiusi in un sorriso, fra ciocche chiarissime e ciocche dorate. Le labbra rosa, sottili, ma morbide come non avrei immaginato, sorridevano decise.

"Allora?" mi chiese, appoggiandomi il viso sulla spalla. Mi voltai e naso e fronte incontrarono naso e fronte di André. Sorrisi soltanto e continuai a guardare un po' lui, un po' il quadro.

Il ritorno nella mansarda di André per me è un'immagine. Forse perché la sequenza di parole ed eventi è stata scollegata dalle emozioni. E forse perché è un disegno realmente. Conservato gelosamente. Sono io. Troppo nuda e troppo innamorata, vista attraverso gli occhi di un uomo troppo nudo e troppo innamorato. Il mio André.

Il colore era leggero e morbido. Niente pennellale, solo velature luminose. Solo un viso. Tratti trasparenti e freddi, densi e caldi, si alternavano nella luce dello sguardo; gli occhi socchiusi in un sorriso, fra ciocche chiarissime e ciocche dorate. Le labbra rosa, sottili, ma morbide come non avrei immaginato, sorridevano decise.

"Allora?" mi chiese, appoggiandomi il viso sulla spalla. Mi voltai e naso e fronte incontrarono naso e fronte di André. Sorrisi soltanto e continuai a guardare un po' lui, un po' il quadro.

Il ritorno nella mansarda di André per me è un'immagine. Forse perché la sequenza di parole ed eventi è stata scollegata dalle emozioni. E forse perché è un disegno realmente. Conservato gelosamente. Sono io. Troppo nuda e troppo innamorata, vista attraverso gli occhi di un uomo troppo nudo e troppo innamorato. Il mio André.

 

"Ma non avevi detto che ci avevi messo anche un cavallo?".

"Era l'idea iniziale... ma poi non ce l'ho messo".

"Ma me l'hai detto quando già avevi finito".

"Per disorientarti".

"Ma bene...".

"Scherzo... ho abbandonato la retorica e ho dipinto l'unica cosa che mi interessasse. Ci avevo pensato anche... ehm... diciamo molto tempo fa".

"Grazie...".

"......".

"Che pensi?".

"Cattivi pensieri... Bevi un po' di questo brandy, i bicchieri non li ho trovati".

"E' evaporato... sa di zucchero".

"E' evaporato per un anno... è un po' nauseante".

"Ma quando è che ho un'espressione come questa del quadro?".

".....".

"Cattivi pensieri?".

"Eh già...".

".....".

"Ce l'hai ora...".

 

 

C'è stato un giorno strano per cucire strappi e chiarire idee. Me ne stavo a meditare con l'acqua che si raffreddava intorno a braccia e ginocchia. La radio dall'appartamento di fronte andava ad intermittenza. La Du Barry ne avrebbe dovuta comprare una nuova. Il cielo era bianco e le nuvole gonfie erano candide, immobili come quelle idee che si bloccano sullo sterno fino a non farti respirare. Non c'era luce, ma non c'era buio. Un perfetto pomeriggio da signor nessuno. Mi passai le mani sulle ginocchia per allentare il pensiero: "Tu cos'hai fatto in tutta questa distruzione?". Nulla. Ho vissuto nella foresta. Ho cercato... ho cercato in qualche modo di fare qualcosa, di salvare qualcuno, di seguire una strada.

"Tu perché porti ancora queste?" chiesi, afferrando la catenella con le piastrine, ad André che si era chinato al mio fianco. Rimase fermo e mi guardò senza una risposta.

"Era una promessa".

"Per la Francia? E adesso? La promessa è mantenuta? Tu senti di aver fatto tutto quel che dovevi quando senti alla radio degli orrori che sono accaduti durante questi anni, mentre noi credevamo che non potesse accadere di peggio di quello che vedevamo? La storia ci ha schiacciati! Ci è rotolata addosso e ci ha schiacciati".

"Cos'hai?". Perché me lo chiedesse con quell'espressione dovevo aver parlato in modo sconvolto.

"Io dovevo fare di più! Non agire nell'ombra, non farmi catturare, non farti sfregiare, non ammalarmi come un essere debole!". L'acqua della vasca sciabordò e colò per terra al mio movimento brusco. André rimase impassibile, mentre stringevo la catenella. Lentamente mi sciolse le dita con espressione severa. Un po' mi fece paura.

"Credi che una pallottola in petto sia migliore di questo elenco di cose che giudichi insuccessi?".

Mi stringeva il polso e io cominciai ad avere freddo e a sentire i brividi dove la superficie dell'acqua toccava la pelle. Aveva il viso triste e serio. E io avevo capito. Sì, avevo capito. La sua cicatrice sul petto e il brillare dei fucili sotto il sole di luglio, ai piedi della Bastiglia non mi lasciavano parole con cui replicare. "E' un vizio" pensai. "E' un vizio questo perseverare, di tempo in tempo, nell'essere egoista, nel fare male a me e a lui". Mi lasciò il polso all'improvviso e si alzò. Mi sentii male per quel gesto e continuai a sentirmi male quando sentii i passi alle mie spalle. Riunii le ginocchia in acqua e controllai il tremore del labbro inferiore. Me lo morsi e sentii una goccia bollente giù per la guancia.

"La storia, oltre le battaglie e le gesta dei libri, oltre ai galloni e alle bastiglie, non è forse fatta della rabbia, della gioia, della speranza e della delusione di chi le si muove dentro?"

Respiro.

"Non credi?" mi chiese di nuovo abbracciandomi dalle spalle, con la voce sulla guancia. Annuii, sollevata. Un sorriso mi fece chiudere gli occhi che per le lacrime non vedevano più. Fermi e in silenzio.

"Questa non è che un oggetto in fondo". Mi mostrava la catenella e le piastrine accoccolate nel palmo della mano."La conservo perché, dalla caduta dell'aereo in poi, mi fa pensare a te".

 

... della rabbia, della gioia, della speranza e della delusione di chi le si muove dentro... pensai mesi dopo, d'estate, mentre il sole era alto e dalla mia finestra si vedeva solo una distesa verde d'erba, poi il mare, poi un cielo immenso dopo la costa. Mi riscossi. Riafferrai il filo dei pensieri e continuai a battere sui tasti della mia macchina da scrivere. Ma con un occhio seguivo i passi di André sulla spiaggia.

Un impronta dopo l'altra s'imprimeva sulla rena e mi venne in mente che a un osservatore che fosse stato al mio posto sarebbe apparso innaturale che accanto a quelle orme non vi fossero le mie, a salire, nel corso d'un tempo nuovo in cui la lotta vince sulla guerra e Venere su Marte, verso quel punto fra cielo e mare, in un istante e uno spazio imprecisato, in cui il blu tocca il blu.

Così come avevo decretato, tanto tempo prima, quello che avevo creduto il mio ultimo, disperato e inutile desiderio, decisi che in quel pomeriggio che avevamo avuto la fortuna di vivere la cosa più sincera da fare fosse una lunga cavalcata in riva al mare.

 

 

 

Post Insaniam - Ora

 

Il telefono suona e nessuno si degna di rispondere. Il filo dei miei pensieri è irrimediabilmente interrotto. Gli squilli chiamano ancora mentre mi decido a scendere giù e dalle finestre lungo la gradinata passano stralci del giardino immerso in una sera d’estate. Smette di squillare lungo gli ultimi gradini. È sempre così… Spingo l’anta della porta e mi accolgono gli accordi del violino.

“È scordato come… non so neanche dirti quanto è scordato ‘sto violino… non lo puoi ridurre così!”. Ascolto il monito senza batter ciglio e osservo il capo biondo che con un gesto di rimprovero lascia dondolare le ciocche davanti agli occhi.

“Perché non rispondi mai al telefono?” chiedo, ingenua, per la milionesima volta.

Claude posa il violino e mette da parte la sua aria da genietto disturbato.

“Ehm… pensavo rispondessi tu…” confessa, posa il violino e si gratta la testa.

Guardo il telefono rassegnata. Chissà chi era! Poi guardo lui che sprofonda nel divano e si adagia sulle gambe la chitarra. Strimpella incurante e mi sorride colpevole. Lasciamo perdere… “Richiameranno” penso e continuo a seguire, mentre mi muovo per la stanza, il suo esercizio musicale. Aria rilassata e concentrazione stasera per il piccolo principe degli incazzati.

A questo punto del viaggio, dopo tutto quello che ho rivangato, penso a quanto mi sembri straordinario il risultato dell’aver trovato tuo padre estremamente irresistibile in certe sere; al fatto che mi sembri così incredibile che su un viso così simile a quello di André ci siano i miei colori così chiari.

Forse sei arrivato quella sera che pioveva e cuocevamo castagne davanti al camino. Io avevo ricordi tristi: una corsa sotto la pioggia e qualcuno che mi copriva con un mantello. Lui invece si era ustionato una mano con una castagna bollente. E quella volta toccava a me soccorrerlo.

Quando Claude è nato e mi hanno detto che era un maschio mi sono sentita strana. Disorientata. Era assurdo che fossi proprio io, l’ultimo errore da correggere, a riuscire dove mia madre aveva fallito. E la cosa importante era che ora non aveva più importanza. Fortunatamente non aveva più nessuna importanza che fosse maschio o femmina. Importava che si chiamasse Claude. Il piccolo Claude del maquis. Come un piccolo pegno da pagare per non essere riusciti ad aiutare un compagno: un ricordo da tatuarsi addosso per non dimenticare.

“Ah! Ho dimenticato…” si interrompe Claude. E penso che gli strumenti musicali e l’aria tormentata sono la sua passione. Se i tratti del viso sono simili a quelli di André, il carattere è tutto il contrario: Claude è sempre istintivo, a volte si ferma a riflettere all’infinito solo dopo aver agito. È come se avesse in pectore una missione ancora incompresa da realizzare. E fino a quando non lo capirà continuerà a cercare, pizzicando le corde di una chitarra, tendendo le corde di un violino, tormentando un qualsiasi strumento che gli consenta, nell’arco di tempo fra la prima e l’ultima nota, di arrivare sulla sua luna e tornare indietro. André è certo che è per questo suo fascino e per la sua inconsapevolezza che il telefono di casa nostra squilla sempre, inascoltato.

“Ho dimenticato di dirti che ieri ha chiamato Lucrèce. Vedi che la sua telefonata l'ho presa?!”.

“Cos’ha detto?” chiedo incrociando le braccia sul petto.

“Che arriva domani."

"André lo sa?”.

“Sì, lo sa “ continua senza interrompere l’arpeggio.

“Va a prenderla lui? Dov’è ora?”

“Boh… ha detto che usciva. Che aveva da fare. E poi, no. Non la prende lui, va a prenderla Apollinaire… la sta marcando stretta” confessa e strizza l’occhio.

Sospiro. “Va bene” commento e allungo i miei passi rilassati in veranda.

Lucrèce?… Chi è Lucrèce? Mi ero chiesta anni fa, ancora convalescente sulla riva del mare, con in mano il disegno del volto di un gatto, un buona fortuna e una firma.

Poi il tempo, gli eventi, la sottoscritta e l’uomo dagli occhi verdi hanno deciso che Lucrèce ha i capelli corvini e gli occhi da gatta, che disorientano chi la guarda. Ci ho messo un po’ perfino io a capire che è perché uno è verde e l’altro blu. Alta, esile e chiara la tradisce una voce grave e femminile: un caterpillar guantato di velluto dice André. Ha sempre una valigia pronta e un viaggio inevitabile in programma. Ora torna dal Giappone. Porterà con sé qualsiasi cosa. Sono preparata.

“Ho imparato a fare l’ikebana”. “Sto imparando anche a fare la cerimonia del tè”. "Ci ho messo due ore per indossare un kimono". Dall’altro capo del telefono negli ultimi mesi mi sono arrivate notizie come queste, mentre, sicuramente, architettava qualche nuova malefatta coi suoi occhi da gatta.

“Sto pensando di fare la geisha” ha detto durante l’ultima telefonata.

“Ma spero che tu stia scherzando!!!” ho esclamato, pressoché fuori di me.

“Tranquilla! Stavo scherzando! Era solo per vedere come reagivi e poi dovresti chiarirti che la geisha non è una zoccola”.

“Uhm…”. Sarà che con cortigiane e affini non ci ho mai legato più di tanto...

“Veramente nell’ultimo periodo mi sto dando molto alla lettura”.

“Che leggi? Mishima?”.

“No, c’è in giro una roba interessante. Quando torno te la faccio leggere. Ti potrebbe piacere. La storia è ambientata in Francia nel Settecento; la protagonista è una  bella donna che viene cresciuta come un uomo e diventa comandante dell’esercito. La cosa interessante e che, pur essendo nobile, abbraccia gli ideali illuministi e rivoluzionari grazie all’uomo che le è accanto da sempre. La cosa più interessante ancora è che questo tizio è per lei amico, confidente, compagno d’armi, di bevute, antagonista… praticamente l’amore, ma prima di accorgersene spreca la sua vita dietro un damerino…”.

“Sì… sì…” taglio corto. “Ho capito Lucrèce… i giapponesi si inventano di tutto…”. E il mio indice scivola mesto su una scalfittura del legno del mobile. Mi sento un po' additata...

“Non storcere il naso prima di averlo letto… Guarda che lo devi leggere!”.

“Guarda che…”.

“Dai! Allora quando arrivo te lo porto!".

"Veramente...".

"I protagonisti si chiamano come te e pa’… è una coincidenza incredibile! non trovi? solo che qui li pronunciano Oscaru e Andore”.

Guarda la vita com’è strana e cosa mi tocca…. Lucrèce non molla: mi sono allevato un serpentello dagli occhi di gatto in seno.

“Fra l’altro, lei è pure una bella biondona come te”.

“E scommetto che lui ha pure problemi con l’oculista….” dico allo stremo.

“Come fai a saperlo?”

Silenzio… Al mondo succede proprio di tutto…

 

Ormai l’ultimo spicchio di sole è scomparso dietro l’orizzonte. La sera è completa e seria sul mio giardino. I grilli cantano e la chitarra di Claude tace. Miracolo.

Penso di corsa, senza soffermarmi, a tutta l’acqua che è passata sotto i ponti della Senna, nel secolo dei Lumi, sotto il regno di Hitler e ora, negli evanescenti anni Settanta. Sempre uguale e diversa. Diversa eppure uguale.

Aspetto che André rientri. Alzo lo sguardo perché all’improvviso mi sento spiata dalle stelle. Nel cielo c’è ancora un alito di luce e i lampioni punteggiano la strada. La storia è passata in corsa, per quanto sia stata assolutamente lunga e impietosa. A volte. Altre stranamente clemente.

Rivedo un ultimo tassello. E me la trovo davanti come la medusa che non devi guardare. All’improvviso.

Era vestita di nero e aveva le labbra scure. Non me l’aspettavo.

"Lucrèce... vieni via da lì! Claude..." esclamai quando la riconobbi tra la folla. Jeanne bianca spettrale e sola.

Mi avvicinai e li tirai indietro. Aveva il solito sguardo tagliente, filtrato da uno strano velo. D'istinto pensai "tristezza". In seguito, dopo che si allontanò senza dire nulla, mi dissi che non era possibile. Claude e Lucrèce, troppo piccoli, continuavano a farmi domande cui non risposi. Solo André, che era poco distante, con un cenno del capo mi fece segno d'aver capito.

 

La luna inizia ad essere più evidente. Io divento sempre più impaziente. Non l'ho visto uscire. Non so dov'è andato. Mi sembra sia passato troppo tempo.

Guardo di nuovo la luna a forma di sorriso fermo nel blu notte. Penso che mi derida perché sono troppo ansiosa e mi tormento coi denti l'unghia del pollice.

 

La luce elettrica è sempre più padrona di strade e marciapiedi. Ho chiamato da Alain, ma a casa non c'è nessuno. Lascio la rubrica sul tavolo e torno in giardino. Metà del mondo è cancellata dalla notte.

 

Un bicchiere di cognac. Così ti ho aspettato altre volte. Lascio ruotare sovrappensiero il liquido scuro nel calice di vetro e chiudo gli occhi per un attimo. Suona la pendola.

 

Una frenata e un colpo di claxon. Mi sveglio dai pensieri più disastrosi e le luci elettriche sono inaspettatamente forti per i miei occhi.

"Allora?" squilla una voce.

"Allora cosa? Ma dov'eri finito tutto 'sto tempo?". Sono un po' risentita, sotto il porticato col mio bicchiere di cognac in mano. "Come diavolo fai a guidare di notte? lo sai che per te è pericoloso?". Lo rimprovero.

"Storie... " fa scendendo dalla macchina e socchiudendo la portiera. "Distogli la tua ira da me e osserva bene..." mi dice con un gesto del braccio.

"Aspetta..." faccio disorientata, scendendo dalla gradinata col bicchiere in mano.

"Grazie" commenta lui prendendomi il bicchiere e bevendone un sorso.

"Dove l'hai trovata?" chiedo.

"Un tizio la vendeva per poco".

La Mg con la capotte abbassata è lucida e invitante sotto la luce della notte, mista di lampadine e stelle.

"Non sarà certo la nostra..." aggiunge. "Ma siccome la nomini da anni pensavo che ti facesse piacere".

Resto in silenzio per un po', poi lo abbraccio ridendo. Il cognac si versa sul viale. Ride anche André. Facciamo un giro sulla ghiaia, che schizza via e colpisce i gradini e le ruote della Mg.

"State facendo un casino!" commenta, laconica, dalla mansarda la voce di Claude.

"Andiamo... facciamo un giro!" esclamo, prendendolo per un braccio.

"Ok..." acconsente.

"Guido io?" chiedo, mentre mi tende le chiavi.

"Certamente".

Il colpo di chiave fa ruggire il vecchio motore. Una schitarrata elettrica ci saluta dalla mansarda. Claude è in vena di Herr Bach che stenterebbe a riconoscere in quelle note una sua creatura. Ci guardiamo ancora. Uno strano e ammaliante "Preludio" ruggisce fra le corde della chitarra elettrica domata da uno dei pestiferi eredi.

Le ruote sgommano inaspettatamente sulla ghiaia con una nostra stupita risata. E siamo ancora in viaggio.

 

 

Epistula Insana

 

Ci ho messo quasi due anni a scrivere questa storia nata un po' per follia. O fondamentalmente per follia! come recita De Insania che appare come sottotitolo ma che, riga dopo riga, ho sentito sempre con più forza come il nome vero di questa storia.

Inizialmente era l'oggetto della mail con cui proponevo la trama a Laura, così giusto per fare qualcosa e sfidare la decenza, senza aspettarmi grande entusiasmo.

E invece no, porca miseria! Lei ha creduto subito in questa storia e mi ha dato l'input per scriverla davvero.

Correva l'anno 2002... credo che fosse ottobre: in televisione trasmettevano per la prima volta "Salvate il soldato Ryan" (che a dispetto di tutto non ho visto) e moriva l'autore della mitica Lili Marlene. All'epoca mi interessavo della "misteriosa" Repubblica di Vichy e facevo i miei link mentali con la Rivoluzione francese.

Alla fine della strada che, nonostante i due anni che ho impiegato, era già ben chiara nella mia testa e nella mia mano scribacchina, non voglio tediare le pazienti lettrici e, mi auguro, i pazienti lettori con interpretazioni escatologiche e dietrologiche, ma mi accaparro un ulteriore spazio in Little Corner per fare i miei ringraziamenti, perché, giuro!, come a volte non vedevo l'ora di scrivere certi pezzi, non vedo l'ora di profondermi in inchini! ^_^

 

Il mio grazie va a Laura per l'appoggio morale e per aver seguito senza dubbi i miei voli pindarici; per tutti i disegni (una storia senza disegni a miei occhi molto infanti vola poco: sono una di quelle che guardano prima le figure, confesso senza pudore e sottoscrivo!); per avermi dato pareri e suggerimenti sui miei; per avermi aiutata a fare ricerche storiche: sugli ebrei, sui fatti dell'epoca e sulla tisi; per avermi suggerito immagini, idee e sensazioni.

 

Un altro grazie ad Oak per "Senza le bende" e per i suoi per i suoi commenti dall'humor irrefrenabile.

 

Un grazie al grande (forse non per dimensioni ma a per forza di coesione) gruppo di Little Corner.

 

Un grazie a chi mi ha scritto per dirmi qualsiasi suo pensiero (le mie lettrici storiche!) e a chi mi ha seguita da lontano e non lo ha fatto.

 

Un grazie anche a chi mi ha offesa perché ha scatenato energie incontenibili.

 

Grazie a tutti! ^_^

 

Questa storia a dedicata a Maddalena, vissuta insegnando numeri e scrivendo poesie,

che vent'anni fa mi disse di scrivere senza essere presa sul serio e che ora non c'è più.

 

Questa storia è dedicata a Laura che mi consente di farlo e che c'è sempre.

 

 

pubblicazione sul sito Little Corner del settembre 2004

Fine

Mail to sydreana@supereva.it

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