Rumore d'ali

(De insania)

Parte II

 

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Dal balcone sotto il cielo bianco guardavo quello che succedeva per la strada e i tetti di fronte a me.

Era una mattina di domenica ed ero stanca di mangiare gallette rafferme da sola. Non avevo niente da dire, niente da scrivere, niente da rispondere.

I mici sui tetti si pulivano accuratamente.

Una donna spolverava le persiane ascoltando il fonografo a tutto volume. “L’amour, l’amour…” cantava una voce da soprano.

La gente quando non ha nulla da fare pensa all’amore. Sciorinai poco convinta questo mio vecchio pensiero.

La donna ad un certo punto prese un secchio e buttò dell’acqua sporca di sotto. Non la potevo soffrire, lo faceva sempre!

L’anziana signora del palazzo di fronte prendeva a mestolate il nipotino che rubava il pranzo; li vedevo e li sentivo, e mi venne da ridere. Che bello, una sensazione che scioglieva tutti i muscoli del corpo, quasi non mi sembrava vero che infuriasse una guerra.

Sentii una voce di donna urlare, dei pianti, un uomo lanciò una lettera strappata dalla finestra ed i pezzi del foglio caddero giù come foglie morte.

Chiusa quella finestra il pianto sembrò più lontano, ma la guerra più vicina, e fu come se all’improvviso l’aria fosse satura del solito schifo: l’insania!

 

Uscii perché le pareti mi stavano soffocando. Era quasi mezzogiorno e non ce la facevo più.

Iniziai a scendere di corsa le scale, ma rallentai dopo pochi gradini.

C’era Jeanne piegata, appoggiata con una mano alla ringhiera. Non sapevo se passare dritta o fermarmi, vedendola così. Non era la prima volta, tornava spesso ubriaca o fuori di testa.

Alzò la testa verso di me e mi accorsi che sotto la lunga ciocca nera che le copriva una parte del viso aveva un ematoma. Vidi un rivolo di sangue secco al lato della bocca. Non ebbi il tempo di fare né dire nulla, che mi gridò contro.

“STRONZA, CHE GUARDI?”

“Niente… posso darti una mano?”

“No, non la voglio… ce la faccio da sola… non lo sai che ce la faccio da sola?”

“Lo immagino ma…”

“Ma… ma… quelle come te sanno solo dire ma! Sei come mia sorella!”

Si rialzò e ricominciò a salire. Mi accorsi che non aveva le calze, ma una linea nera disegnata con la matita per occhi lungo il polpaccio: era un trucco che usavano molte donne ormai. Era difficile riuscire a comprare un paio di calze. In fondo non avevo nulla da dirle e non parlai.

“Bisogna mangiare, bisogna mangiare… e fate tanto le aristocratiche!”

Senza risponderle ricominciai a scendere. Il fatto che non le rispondessi dovette infastidirla e prima che finissi la rampa mi urlò dietro: “ HAI SENTITO?!”

Mi faceva troppa pena, non le avrei mai risposto, nonostante continuasse a provocarmi.

“STAI SENTENDO?!” continuavo a sentire mentre scendevo.

 

 

Mi diressi nelle vie centrali, avevo bisogno di vedere gente. Negli ultimi anni la motorizzazione civile era quasi scomparsa: la benzina era quasi introvabile. A passeggio c’era un po’ più gente del solito e molte biciclette. Qualche anno fa si potevano incontrare persone con la stella di David gialla cucita sul vestito; ricordai che allora mi ero indignata. Ora non se ne vedevano più e pensai che il piccolo Pierre forse era stato l’ultimo.

La luce era bianca e fredda, il sole non si vedeva. L’aria era immobile e venata di noia, di una noia asfissiante. Davanti ad un caffè c’era un gruppetto di persone. Mentre passavo il gruppetto si diradò, delle coppie si allontanarono e si diressero dall’altra parte della strada. Allora vidi una cosa che mi infastidì. Ancora una volta. Girodel discorreva amabilmente con degli uomini in divisa: la luce bianca fra i suoi riccioli e sulle pupille diafane e vuote del suo interlocutore. Un terzo uomo mi dava le spalle, ma non mi importava vedere chi era. Era l’uomo coi baffi da topo di fogna che due giorni prima aveva sparato al piccolo Pierre. Avevo rallentato il passo, Victor mi vide e sbiancò, non lo salutai e tirai dritta, sicura che non avrebbe dormito per un po’. Non ho mai creduto fosse cattivo, ma che, pur conoscendo la differenza fra onestà e tradimento, non fosse in grado di compiere una sola azione che lo allontanasse dal piacere effimero di stare dalla parte del più forte. Quel giorno non avevo la forza di indignarmi. Sarebbe stato meglio mettersi a letto e sognare, sognare un mondo perfetto; ma da quel venerdì avevo perso il sonno.

Da quel venerdì…

Dagli occhi e dalla bocca di André…

 

 

Credevo che mi bruciasse la bocca. E capii che volevo bruciare.

“André…”

Inspiegabilmente avevo pronunciato quel nome, quando aveva allontanato le sue labbra dalle mie. Era un pezzo di memoria tornato a galla, ma da dove? Da quando?

“Sì” mi disse e mi strinse. Poi mi sussurrò in un orecchio: “Ti devo chiedere una cosa. Ma non mi rispondere subito, lo so che mi diresti di no, pensaci un poco… per favore”.

Mi ero irrigidita ed avevo distolto lo sguardo. Perché aveva fatto una cosa del genere se ci non ci eravamo scambiate che poche parole?

Una voce maligna nella mia testa mi aveva sussurrato “Che cosa gli hai lasciato fare?”

Se ne era accorto e si era staccato da me, ed avevo provato dolore.

La voce continuava a dire “Guarda che ti sta facendo!” e non gli avevo detto una parola.

“Scusami… scusami, lo so che non dovevo…”

“Cosa mi vuoi chiedere?” gli risposi, resistendo alla voce e fingendo di ignorare quello che aveva fatto.

“Sì… è vero… voglio chiederti se mi permetti di ritrarti”.

Rimasi un po’ stupita e sussurrai un “Cosa?”

“Sì, vorrei che tu lasciassi che sia io a farti un ritratto”.

Non sapevo che rispondergli, non avevo mai avuto voglia di farmi ritrarre, e guardai il quadro sulla parete del salotto, poi ancora senza parole guardai lui.

“Ma perché?”

“Perché è necessario”.

Fu una risposta incomprensibile, che mi fece sbarrare gli occhi. Appoggiai la guancia sinistra sull’anta della porta e mi passò per la mente una spiegazione “Chissà chi gli ricordo perché si comporti così”.

Provai a fissarlo, con molta fatica, perché avevo l’impressione che solo guardandomi negli occhi potesse leggere tutto quello che stavo pensando.

“È perché ti ricordo qualcuno?” riuscii a chiedergli con una voce così tranquilla che non mi sembrò la mia.

Mi guardò divertito ed abbassando dolcemente le palpebre mi disse sorridendo “No… non è perché mi ricordi qualcuno”.

Ci rimasi un po’ male e distolsi di nuovo lo sguardo. Sentii che mi passava una mano sul braccio.

“Allora?”

“Non saprei…”

“Pensaci un po’, non mi devi rispondere subito… Non ti infastidirò”.

Prese un foglio e una penna dalla tasca e poggiatosi sull’anta della porta scrisse qualcosa. Prese la mia mano, vi posò dentro il foglio e la richiuse. Tenendola fra le sue mi chiese “Va bene?”

Io alzai un po’ lo sguardo ed annuii, lui mi lasciò la mano e lo vidi allontanarsi giù per le scale.

 

 

Mi fermai ai bordi della Senna, perché non sapevo più dove andare e non mi rendevo conto di quale strada avessi fatto nel camminare con la testa fra le nuvole per trovarmi là.

Mi mentivo da sola: sapevo bene dove volevo andare, ma tentavo di impedirmelo. Presi dalla borsa il foglietto piegato in quattro, lessi l’indirizzo e continuai a fissarlo, come avevo fatto tante volte in quei due giorni, come se fissarlo mi facesse stare bene. Ma c’erano solo lettere sinuose, una dietro l’altra, come serpentelli che si intrecciavano, piegandosi leggermente a destra. Non c’erano gli occhi, le mani, la bocca che stavo cercando, c’era solo il suo nome ed il nome di una via.

Potrei andare fin là per vedere dove abita, non è lontano da qui, così… per curiosità… poi posso decidere. Non so se ce la faccio a vederlo… non sono obbligata a vederlo… Se mi vede cosa può pensare? Ma perché mi dovrebbe vedere? Magari è uscito. Magari è chiuso in casa. Non starà certo dietro la porta ad aspettare me. Ma gli artisti sono pervertiti! Jeanne dice che la costringono tutte le volte a spogliarsi… e le mettono le mani addosso… Va be’… Jeanne! In fondo alcuni dipingono solo Madonne… ma in fondo lui l’altro giorno… Intanto mi avvio… per strada posso sempre cambiare idea.

57 Rue Auguste Rodin.

Lungo la strada mi sembrava che le finestre, le porte, i balconi mi spiassero.

Però che strano, non ridevano di me, come pensavo.

 

 

Il numero 57 era un palazzo di tre piani con la facciata bordeaux e le persiane scure, quasi tutte chiuse. In fondo alla strada in un parco degli abeti pungevano il cielo bianco ed impercettibile con una cattiveria da punta di un diamante. Cielo bianco e silenzio assordante, aria gelida: il mondo forse stava per scomparire pensai.

Non era veramente nulla di particolare quella casa; nulla che valesse tutta la strada fatta a piedi.

Beh… ed ora che c’è? Hai fatto la tua escursione da dodicenne e non sei contenta.

Sentii delle voci, delle risa sguaiate e delle persone uscirono da una casa vicina. Quel rumore mi allarmò: spezzava quell’equilibrio perfetto che credevo mi tenesse nascosta, al sicuro nel mondo che si cancellava. Ora era chiaro che ero andata lì per nulla e dovevo allontanarmi il più presto possibile. Feci alcuni passi, ma un rumore di cardini poco oliati e lo sbattere di un’anta contro un muro mi attraversarono in un brivido la schiena. E la voce che sentii mi fece capire che non potevo andarmene.

“Oscar…”

 

 

La mansarda ampia aveva una grande finestra che si affacciava sugli abeti crudeli del parco. Nell’aria un odore d’acqua ragia e negli angoli tele ammucchiate. Una parete era coperta da un grande scaffale traboccante di fogli e cartelle. Pochi mobili, un letto, una vecchia stufa ed un tavolo da cui alzò gli occhi un ragazzino che stava seduto a disegnare con una sanguigna.

Ero rimasta sulla soglia, André mi posò una mano sulla schiena per incoraggiarmi ad entrare. Il ragazzino si immerse di nuovo nel disegno.

“Come va Gilbert?”

“Guarda” gli rispose il ragazzino porgendogli il disegno con le mani sporche di rosso. André gli aprì una mano e gli disse ridendo “Hai di nuovo sfumato con le dita…”

“Hm… sì ma poco!” rispose il ragazzino che pensava di farla franca.

“Dai, lo sai che non voglio, si macchia tutto il disegno” gli disse dolcemente, non sembrava neanche un rimprovero.

Poi mi rivolse lo sguardo e mi disse mettendogli una mano sulla testa “Lui è il mio allievo Gilbert”.

“Ciao” feci io che avevo paura di non riuscire ad articolare più i suoni.

“E lei è Oscar e passerà qualche pomeriggio con noi”.

“Ciao… Oscar” rispose Gilbert, un po’ perplesso dal mio nome.

André si chinò su una delle sedie vicino al tavolo, la liberò da alcuni fogli pieni di disegni.

“Scusa, sono un disordinato “ mi disse portando la sedia al centro della stanza, di fronte alla finestra, “Siediti qui”.

Ero molto a disagio, mi sentivo molto stupida e, pur volendo dissimulare quelle sensazioni, l’unica cosa che riuscivo a fare era restarmene con la bocca cucita.

André andò verso il cavalletto davanti alla finestra e raccolse dall’angolo vicino una tela, la controllò nella luce bianca che filtrava dai vetri.

“Ho preparato la tela ieri” mi disse sorridendo; la qual cosa mi provocò un flusso di sangue verso le guance, e la triste consapevolezza che quel rossore non sarebbe passato inosservato: mi aveva fatta sedere in piena luce! Ma che cosa gli aveva fatto dare per scontato che avrei accettato? E poi io non ero andata fin là per il ritratto. Lui si era precipitato di sotto appena mi aveva vista dalla finestra!

Ero seduta in punta di sedia.

Posò la tela sul cavalletto ed iniziò a tramestare con i colori.

Era necessario dissimulare, dissimulare il disagio enorme che provavo! Non mi venne in mente nulla di migliore che fargli una domanda, con la voce più disinvolta possibile.

“Hm… che colori usi? Acquerelli?”

“No, colori ad olio.”

Una domanda scema in fondo: non c’era l’ombra di un contenitore per l’acqua e l’aria era intrisa d’odore d’acqua ragia. In quella situazione il mio spirito d’osservazione era arrivato a livelli molto bassi. Pregai che non rasentasse i livelli di Girodel. Ma il peggio doveva ancora venire…

“Ah… e come mai?”

“Perché si dice che la pittura ad olio sia sensuale per eccellenza” rispose alzando lo sguardo dalla tela. In quell’istante Gilbert appallottolò un foglio, e, con quel rumore di carta spiegazzata, ebbi l’impressione che morisse l’ultima possibilità di apparire disinvolta.

Non deglutii perché avevo paura di soffocarmi, supposi che le guance mi fossero diventate bluastre ed ebbi l’impressione che la sedia fosse troppo dura per starci seduta sopra.

“Scusa un attimo…” disse allontanandosi dal cavalletto. Si avvicinò trascinando una poltrona.

Lo guardai senza capire che volesse.

“Lascia la sedia e siediti qui”

Mi alzai e mi sedetti rigida sulla poltrona.

“Ma perché?”

Mi posò le mani sulle spalle e mi spinse in modo che mi adagiassi sullo schienale. Con voce bassa mi disse piano.

“Ehi… rilassati… è solo un quadro non è un’esecuzione!”

Quelle parole invece di peggiorare il mio stato d’animo, come avrei creduto, mi calmarono. Erano parole calde e carezzevoli che sapevano di familiare. Si allontanò e guardando verso Gilbert disse ridendo “Gilbert! Quelle dita!”

“Scusa…” rispose il piccolo dal fondo della mansarda.

Mi affiorò alle labbra un sorriso e mi sentii un po’ felice, perché capii che non avevo disimparato l’allegria. E lo capirono anche gli occhi di André che saettarono al di sopra del cavalletto.

“Senti un po’… ma tu non sarai uno di quelli che dipingono le donne a cubi?”

“No, preferisco le donne a forma di donna, sta’ tranquilla!”

Credo che forse potrebbe anche spuntare il sole sugli abeti del parco…

 

L’ombra si era addensata negli angoli e stesa come una patina sulle superfici piane. I cielo oltre i vetri stava diventando lentamente plumbeo. Gilbert se ne era andato da un po’ con sotto il braccio la cartellina per le matite e un rumore di fogli appallottolati. André si era allontanato dal cavalletto, aveva chiuso le persiane lottando contro le folate di vento gelido che erano scivolate sul pavimento fino ai miei piedi, ed aveva acceso una candela. Il chiarore della fiamma aveva illuminato lo strano portacandele: un uomo e una donna nudi, di metallo, erano una di spalle all’altro, ma si tenevano per mano mentre la luce tremava sulle loro teste.

Non potranno mai guardarsi negli occhi!

Allungai le gambe come un gatto, per stiracchiare tutti i muscoli mentre li osservavo.

“Ti sei stancata a stare ferma tutto questo tempo?”

“Non sono abituata”.

Posò il portacandele su un mobile vicino e vidi che il metallo era coperto da una vernice dorata che aveva iniziato a sgretolarsi.

“È bravo Gilbert?”

“È molto bravo, ma è troppo impaziente.”

“Quindi dai lezioni per lavoro?”

“Davo lezioni per lavoro. I genitori di Gilbert non avrebbero potuto più permettersele. Ormai possiamo permetterci tutti molto poco, ma io non posso permettermi di lasciare indietro uno come Gilbert”.

Lo fissai un attimo attraverso il velo di luce della fiamma e pensai che qualche parola speciale e antica si sarebbe dovuta agganciare a quell’immagine. Parole che scivolavano come le gocce di pioggia sui vetri, fuori dalle finestre: le vedevo un attimo senza poterle afferrare e si scioglievano in corsa.

“Fai il ritrattista allora?”

Mi sorrise un po’ e mi rispose con la voce un po’ più bassa “Sì, ogni tanto c’è ancora qualcuno che me ne commissiona, ma questo è per te. Lo vedrai quando sarà finito e sarà tuo”.

Non mi sembrava che fosse una cosa che avesse molto senso: io non avevo sentito nessun bisogno di un ritratto. La trovai una situazione imbarazzante, abbassai la testa e mi avvolsi una ciocca di capelli attorno all’indice. Appena mi resi conto di quel gesto mi lasciai scivolare la stessa mano in tasca.

André cambiò discorso.

“Da quanto conosci Alain?”

“Un paio d’anni. E tu?”

“Un po’ di più”.

“Alain ha detto che non fai solo il pittore”.

Probabilmente la domanda era stata alquanto indiscreta, ma André non sembrò pensarlo.

“Credo si riferisca a una vecchia storia, che riguarda anche lui”. Tacque un po’, poi riprese: “Fino al 1940 sono stato nell’esercito…”

Riamasi di stucco a quelle parole. Non mi sembrò suonassero nuove o impossibili, erano solo orrende! Erano orrende perché cominciai a chiedermi dov’ero io nel ’40.

E se tu eri nell’esercito nel quaranta, quando arrivò la Wehrmacht, ed io non c’ero… non ero lì… tu eri solo… Eri solo! Perché eri lì da solo!?

Strani pensieri senza senso, senza nesso, che ingoiai in silenzio per dimenticare il terrore che mi avevano fatto provare.

“Hai combattuto quando sono arrivati?” mentre glielo chiedevo dovevo avere uno sguardo disperato, perché avevo la sensazione di essere fuori di me.

“Già… ero nell’esercito già da molto per la verità, e fin dall’anno prima si sapeva che prima o poi ci avrebbero attaccato. Fu solo il cattivo tempo a ritardare tutto e né noi né gli alleati sapemmo sfruttare la possibilità che ci veniva concessa. Cominciò tutto il 10 maggio… Io ero in aviazione, facevo il pilota. Avevamo chiuso gli occhi, si credeva che non avrebbero potuto passare dalle Ardenne, ma lo fecero… lo fecero e non se n’era preoccupato nessuno. Erano sette divisioni blindate e non le aveva ostacolate nessuno… quando fu chiaro… ci gettarono nella mischia e ci fecero a pezzi”.

“Mio Dio…” era una tortura ascoltare, ma dovevo sapere tutto quello che era successo. Le notizie allora si erano succedute in modo poco chiaro: all’inizio si sapeva che li stavamo contenendo, ma all’improvviso erano state prese Amiens e Arras ed era cambiato tutto…npoi il vincitore ci aveva imposto la sua versione.

“Cosa successe?” lo incalzai. Si era accorto del mio turbamento e temei che vedendo quella reazione non continuasse il racconto. Stette in silenzio per un po’, poi, sforzandosi, riprese:

“In cielo la superiorità della Luftwaffe era schiacciante: non avevamo i bombardieri e i pochi aerei li avevamo dispersi fra le diverse armate. Loro erano una muraglia volante. Il mio aereo cadde il giorno che presero Arras… era il 19 maggio… Arras… ci agganciò un Messerschmitt 109… vidi il marconista ucciso da uno Shrapnel… bucarono la carlinga… si erano rotti i pannelli, entravano folate di vento ghiacciato, e non mi sentivo più le mani… mentre perdevamo quota e tentavo come potevo di evitare che ci schiantassimo, il pezzo incendiato di un altro aereo abbattuto ci tranciò un’ala e andò in fiamme la torretta orientale… poi il buio. Ci schiantammo… morirono anche il navigatore e il mitragliere… mi sono salvato solo io… mi tirò fuori Alain prima che saltasse tutto in aria. Ci eravamo schiantati sul suo raccolto… ero rimasto solo io…”

Con il gomito posato sul bracciolo mi ero coperta con una mano la fronte e parte degli occhi, perché sentivo che mi sarei messa a piangere e non volevo che mi vedesse.

“Gli devo tutto, mi ha tenuto nascosto. Sono stato fortunato, se non fosse andata così quel giorno sarei morto da qualche altra parte, con un Shrapnel conficcato da qualche parte… o bruciato… e se non fossi morto sarei loro prigioniero negli Oflags o negli Stalags o lavorerei come uno schiavo nei Kommandos. Ma per quello che successe quel giorno… e per quello che successo tutti i giorni… da quel giorno… arriverà il momento in cui sarà fatta giustizia”.

Mi ritornò in mente la scena che mi tormentava da due giorni: il ragazzino per terra in un lago di sangue. Il senso di impotenza che mi diceva che battersi era inutile… era sempre stato inutile… le rivolte… le rivoluzioni erano inutili: perché chiunque le faccia, in realtà non le fa per rovesciare i regimi, ma per crearli… e i morti rimanevano stesi a terra nel sangue… lontani uno dall’altra…

Ma questo forse era un altro discorso, e davanti agli occhi vedevo passare gente che correva, fumo, polvere, il sole che accecava splendendo sul metallo… Echi di urla e detonazioni. Mi succedeva di nuovo e dovevo smettere di seguire quei pensieri prima di sentire il solito dolore vicino al cuore.

Alzai lo sguardo verso André e mi passò tutto, il sangue vicino al cuore si rifece liquido e caldo e non successe nulla di doloroso. Non dovevo pensarci.

“Ci stanno spremendo vivi ed hanno trasformato la storia in un eterno sudicio presente: stampa, libri, cinema radio censurati. Le biblioteche vengono epurate, si susseguono senza fine i cicli delle loro ignobili conferenze... Ci vogliono togliere le parole per non farci più pesare, come se fosse possibile strapparci le radici…”

“Non sono più forti, sono solo più vili. Sono più deboli: non sanno cosa ci anima” mi rispose.

Rimasi un attimo soprappensiero, il suo racconto continuava a risuonare nelle mie orecchie.

“Perché mi hai raccontato queste cose? Non è prudente…”

“Perché non dovrei raccontarle proprio a te, invece?” mi rispose con uno sguardo da briccone “Sei l’unica con cui ha veramente un senso parlarne”.

Non c’era una risposta. Per me. O forse, come facevo allora, mi affannavo per non vederla.

“Cioè… voglio dire… segreto per segreto: tu sai che dovrei starmene nascosto nei boschi ed invece sono qui sotto il loro naso… ed io so quello che tu gli hai gridato contro l’altro giorno” aggiunse ricomponendosi.

“E sei voluto tornare a Parigi… Perché? Qui può essere pericoloso per te”.

“Ho chiesto ad Alain di accompagnarmi… perché sapevo bene di avere molte cose ancora da fare qui. O qui o in nessun altro posto. L’ho capito mentre credevo che sarei morto lontano da qui”.

Quelle parole furono pronunciate in modo strano, sembravano un aggancio ai miei pensieri sconnessi in quella stanza che era fuori dal mondo, in bilico nel tempo. Mi era rimasto solo un filo di voce e decisi di non dire nulla: un’altra domanda avrebbe aperto nuovi percorsi, ma quella sera non ero in grado di affrontarli.

Non era tempo.

Si sentirono le foglie degli alberi stormire, come se i minuti avessero ripreso a scorrere dopo la fine di quel racconto, e la fiamma sulla candela ebbe un brivido. Doveva essersi fatto veramente tardi, dovevo tornare a casa prima che fosse buio pesto: ladri e soldati erano pericolosi allo stesso modo.

“André, io ora dovrei andare…”

“Va bene, ti accompagno” mi rispose alzandosi e porgendomi la mano.

“Non c’è bisogno”.

“Invece sì, è tardi e devi fare molta strada”.

“Ma veramente…”

“Dai scendiamo”.

 

 

Faceva molto freddo e forse presto avrebbe nevicato. Un vento deciso trascinava in mulinelli le cartacce e la polvere pizzicava gli occhi. Iniziammo a camminare in fretta coprendoci la bocca col bavero. Dopo un centinaio di metri André si fermò ed infilò una vecchia chiave nella toppa di un grande portone scuro. La serratura scattò rumorosamente e la porticina disegnata nella grande anta si aprì.

“Coraggio, entra”, mi disse.

Non vedevo cosa ci fosse lì dentro, era buio ed il vento mi aveva portato tutti i capelli sul viso.

“No ti fidi?” mi disse.

Entrai e quando accese un fiammifero apparve la sagoma di un’automobile. Sembrava una vecchia MG con il mantice abbassato. Mi voltai stupita verso di lui.

“Beh… speriamo che si metta in moto…” mi disse dirigendosi in un angolo.

“Ma come fai… riesci a trovare la benzina?”

“Ecco qua!” e si avvicinò con una lattina.

“Come…”

“Conosci Bernard, vero?” chiese mentre riempiva il serbatoio.

“Bernard? Quello che lavora con me al giornale?”

“Sì, diciamo che Bernard ogni tanto prende un po’ di benzina in prestito a quelli con la svastica” rispose ridacchiando. Rimasi senza parole. André conosceva quel Bernard… e quel Bernard fregava la benzina: era troppo divertente! Mi diressi verso la portiera della macchina ridacchiando.

“Così imparano!” sentenziai divertita.

Cercai di aprire la portiera, ma non ci riuscivo: era bloccata.

“Ah… quella portiera è rotta: sta su legata con un filo di ferro, per entrare o fai il giro o scavalchi”.

Neanche aveva finito di dirlo che già con un salto mi ero accomodata sul sedile.

“Perfetto!” commentò e si sedette accanto a me.

 

Avevamo tirato su il mantice e la vecchia MG sferragliava per le strade vuote. Era bello scivolare con quel rumore di caffettiera irriverente nella solitudine di una grande città piegata: era come un bagliore di luce che filtra da una fessura.

Quando fermò la MG vicino a casa mia gli chiesi di spostarla.

“Va bene”.

“È meglio perché ho una vicina maleducata che butta giù acqua sporca a tutte le ore”.

“I problemi della convivenza!” esclamò mentre faceva manovra.

Quando spense il motore si sentì il borbottio di una radio:

“… s’illumina all’improvviso il vecchio lampione e risplende.

Ed è in quell’angolo che la sera ci si attendeva pieni di speranza, tutti e due…”

“Grazie del passaggio” gli dissi.

“Figurati, dovere”.

Toccai la maniglia, mi ero dimenticata che non si apriva.

“Ah scusami” disse lui scendendo dalla macchina “mi ero dimenticato, col mantice alzato da lì non puoi scavalcare. Vieni, passa di qua” mi disse tendendo la mano. Era la prima volta che mi facevo aiutare.

Quando uscii dalla macchina nel freddo della serata il volume della radio aumentò. Cantava a volume altissimo, nonostante qualche fruscio e le interferenze di fondo. Nella luce del lampione, mentre mi teneva ancora la mano, stemmo in silenzio ad ascoltare, per capire che canzone fosse.

“… e nella notte buia i nostri corpi allacciati non facevano che un’ombra,

quando ti abbracciavo…”

“È Lili Marlene” disse André.

Io annuii, qualcuno aveva alzato ancora di più il volume.

“È per caso la tua vicina maleducata?” mi chiese sorridendo.

“Sì dev’essere lei” risposi ridendo nel sentire quanto stava diventando sfacciata quella donna “solo lei ha la radio qui”.

“… il tempo passa in fretta quando si è in due!

Ahimé ci si lascia, ecco il coprifuoco…

Ti ricordi le nostre preoccupazioni quando dovevamo lasciarci?

Dimmi, Lili Marlene?”

Rimanemmo fermi così ad ascoltare, le interferenze di fondo erano scomparse, si sentiva perfettamente.

“… ora il vecchio lampione s’illumina ancora davanti alla caserma sul finire del giorno,

ma ahimé tutto mi sembra strano.

Sono molto cambiato?

Dimmelo, Lili Marlene…”

“È pensare che è una canzone tedesca”.

“Che strano è vero… la cantano tutti… cantiamo tutti la stessa canzone, cambia solo la lingua” riflettei.

“Lili… Lili Marlene”.

La canzone finì e la radio venne spenta.

“Non credo che sia mai successo… amici e nemici cantano tutti la stessa canzone: è come un inno… un inno non ufficiale di questa guerra ” aggiunsi. Adesso c’era solo silenzio.

“Già… Io credo che sia perché questa canzone parla di qualcosa che tutti quanti conosciamo… perché in fondo siamo tutti uguali…”

Intuii quello che stava per dirmi.

“La paura… parla della paura…” (1) poi sospese un attimo la frase ed abbassò lo sguardo sulla mia mano nella sua “la paura… di perdere qualcuno che…”

“Sì. Sarà questo…” tagliai io temendo quello che avrebbe potuto aggiungere. C’era la luce di quel lampione, come in Lili Marlene… Mi venne in mente il portacandele con gli amanti uno di spalle all’altro e le mani unite.

“Già” mi rispose “si è fatto tardi vero?”

“È perché sarà meglio che tu vada… prima del coprifuoco…” mi ero resa conto di aver detto qualcosa di molto sbagliato al momento giusto, lui non mi rispondeva.

“Ci vediamo domani” riuscii ad aggiungere.

“Va bene, ti aspetto… Buonanotte” mi disse lasciandomi la mano.

“Buonanotte”.

Ed entrai nel palazzo.

 

Non mi resi conto di come all’improvviso mi trovassi in camera mia, con il letto disfatto dalla mattina e gli scuri semichiusi.

Iniziai a strapparmi i vestiti di dosso e li lanciai sulla sedia, con in corpo qualcosa che era rabbia… gioia… o cosa altro era?

Faceva tanto freddo.

 

 

“Ahahh… non ci posso credere…”

“Che idiota! Che idiota! Che stupido idiota!… Ihihih!”

“Ahi… ahi… sto per morire dal ridere…”

“E piantala dai…”

“No… no… piantala prima tu!”

“No… non posso… non ci riesco… ahahah! Sto per piangere…”

“Non ti rotolare sul divano… se gli rompi le molle quello ti fa causa…”

“E guarda che hai fatto tu! Uhuhu!”

“Si può sapere che succede qua dentro?” chiesi mentre rimanevo ferma sulla soglia dell’ufficio di Girodel a guardare Bernard che si rotolava sul divano ed Alain che cercava di riagguantare le rose cadute dal portafiori che, divelto dalla scrivania, stava allagando il prezioso tappeto pakistano. Mentre arrivavo in redazione da lontano avevo visto Girodel uscire ed ero salita su felice di non dover vedere il suo muso; arrivata al primo piano, avevo avuto l’impressione che in quella stanza stessero facendo la tortura del solletico a qualcuno per tutto quello sghignazzare.

“Sapessi!” disse Bernard rialzandosi ed asciugandosi le lacrime. Alain ricominciò a ridere.

“Beh allora fate ridere anche me”.

“Tu ti incazzi… dici che è stronzo… ma quello là è tutto deficiente!” esclamò Bernard mentre, non so perché, me lo immaginavo vestito di nero che trafugava benzina, tanto che dovette scapparmi un sorrisino.

“Che fai? Ti fa già ridere il pensiero?” mi chiese lui tutto candido.

“No… forza… che storia è!?” dissi con la mia più credibile espressione di serietà.

“Ci ha raccontato che ieri ha fatto conquiste…”

“Davvero? E chi ha conquistato?”

“Dice che era andato a bere qualcosa ed ha visto una sventola pazzesca… le si è avvicinato e le ha fatto: tesoro non è che ti sei fatta male…”

“Che dici Alain…” dissi stupita da quello che sentivo. Non me lo immaginavo Victor in azione.

“Zitta e senti… quella gli fa: in che senso… e lui le fa: quando sei caduta dal paradiso non è che ti sei fatta male” concluse Alain scimmiottando la voce di Victor.

“E lei che gli ha risposto?”

“Che non aveva mai visto un uomo con i capelli così soffici… ihihiih!”

Iniziai a crepare dalle risate. Era un racconto di una demenza assoluta.

“E crede che qualcuno possa bersi una balla del genere?”

“Ah guarda… io non me la bevo, ma trovo fantastico conoscere un uomo così esilarante! Di questi tempi ridere non è poco!”

Bernard si illuminò e sollevando l’indice verso l’alto come un Platone oratore soggiunse: “E ve lo siete dimenticato quando voleva spostare l’ufficio al piano di sopra perché gli dava fastidio che gli uccelli sporcassero il davanzale…”

“… e gli dovemmo spiegare che non risolveva nulla per il fatto che gli uccelli volano e fanno  la cacca anche al piano di sopra ahahah!” finì Alain soffocando in una risata.

Ormai era un delirio.

“Ahi ahi” fece Alain ricomponendosi “comunque prima di uscire ha lasciato un biglietto con il tuo incarico di questa settimana”.

Presi il biglietto che mi porgeva e lo aprii. Bernard iniziò a protestare mentre rovistava su uno scaffale: “Ehi però… è pure un po’ stronzo… ha fatto sparire le chiavi dello scaffale…”

“E a che ti servono le chiavi del suo scaffale, pettegolo?”

“Questo scaffale è mio, dentro ci sono cose mie, l’ho spostato qui solo perché nel mio ufficio è successo il pandemonio quando sono scoppiate le tubature dell’acqua!” rispose risentito. I nostri uffici veramente, tranne quello di Girodel, cadevano a pezzi.

“Che vuoi farci… ci avrà nascosto i bigodini!” concluse Alain e continuarono a ridere come pazzi.

Alzai le sopracciglia e detti uno sguardo al biglietto:

“Per Oscar: articolo sull’ultimo taglio di capelli di Greta Garbo”.

Stranamente non mi arrabbiai. Poggiai il foglio sul tavolo e con un’aria, per quanto potessi, solenne ne feci un aeroplanino e lo lanciai fuori dalla finestra. Mentre lo guardavo volare via sentii Alain che commentava: “Ah, il fascino dell’aviatore… eguaglia quasi quello del pittore!”

Mi venne in mente una parola che faceva rima con pittore e aviatore… ma non dissi nulla e continuai a guardare l’aeroplanino, che andava più lontano di quanto avessi immaginato.

 

Una colomba volava in cielo per consolare dalla morte allora…

Un aeroplanino di carta vola in cielo per preparare alla vita ora.

 

 

 

(1) In parte le parole di André riprendono la spiegazione che l’autore Norbert Schultze diede del successo della canzone. I brani riportati sono ovviamente quelli della versione francese. La versione italiana… è da sorvolare.

 

Continua...

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