Rumore d'ali

(De insania)

Parte XVIII

 

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Nota della webmaster: a causa di impegni in questo update mi è stato impossibile procedere alla revisione dei testi delle ff, che pubblico, quindi, così come mi sono stati inviati. Me ne scuso con gli autori e con i lettori.

 

“In Provenza… gli alleati sono arrivati in Provenza! Petain se la passa sempre peggio!”.Era un ferragosto torrido e la voce squillante e incurante di Louise aveva svegliato tutti dal torpore della calura.

 

Nel pomeriggio, bloccata a sudare nel mio letto, ero ripiombata fra i soliti interrogativi. Com’erano andate le cose a St.Michel? Erano finite le vessazione delle squadracce? Erano in salvo i nostri ebrei? I nostri amici erano stati coinvolti nella disfatta delle Repubblica del Vercors? Era l’unione di più Maquis ed erano stati massacrati dopo pochi giorni. Tremavo come una foglia. Quanti di loro conoscevo? Quest’ultima domanda mi aveva spezzata in due, con il mio sentirmi inutile.

Inutile… Non una notizia. Non una. Solo gli annunci di Radio Londra, troppo sintetici per dare risposte alle mie domande.

André era uscito di casa – dall’abbaino… - promettendomi che mi avrebbe portato qualcosa di bello e buono. Era tornato sul calar della sera con una bottiglia di liquore di semi di mele, regalo di Marron Glacée. All’inizio avevo finto di ignorare l’oggetto, anche se in realtà mi incuriosiva. Trovavo incredibile che, mentre io avrei optato per un po’ di cioccolato, lui fosse riuscito a portarsi a casa – nell’abbaino… - le mele fuori stagione e perfino sotto forma alcolica.

“Ne prendo una goccia” avevo affermato reggendo un bicchiere minuscolo in mezzo al solito vortice di lenzuola in cui ero costretta.

“Guarda che mi fai un favore!” aveva commentato lui, versandomi da bere, per niente smontato dalla mia perplessità.

La goccia era stata micidiale… oltre che buona… mi aveva stordita, anestetizzata e disinibita. E non mi ero più preoccupata di dimostrare disinteresse per il cimelio di André che aveva iniziato a calare pericolosamente di livello! A un certo punto lo aveva piazzato sull’armadio sostenendo: “Di gocce ne hai bevute un po’ tante!”.

“Guastafeste!”.

“Oscar! Ma non vedi che non le reggi?! Ti fa male. Fa’ la brava”.

Non so più quante volte m’aveva detto “Fa’ la brava”… ed iniziava a suonarmi male.

Ora era buio e l’afa si spegneva sotto il vento che cambiava. Una leggera tramontana sfiorava le tende. I miei pensieri conservano uno strascico moderatamente alcolico: tanto da non vertere su argomenti nefasti come guerra, morti e armi. André sembrava dormire beato ed io valutavo me stessa. È meno nefasto riflettere sulla propria inutilità?

Un tempo non sarei crollata così presto per due gocce di liquore. Me ne stavo ferma tutto il tempo a farmi sfibrare da tosse e febbre, anche se, per fortuna, le cose grazie alla penicillina erano migliorate. La penicillina di suo spossava, abbatteva. Si giorno sentivo la gente schiamazzare nello scendere giù in spiaggia, nell’andare verso il mare, mentre io l’acqua del mare la vedevo, come un ritaglio, solo dalla finestra. Sospirai. Anche un’ora di solitudine mi angosciava, ma non potevo dire nulla perché André, andando da Marron Glacée, riusciva ad avere un aiuto minimo per non pesare su Louise e Maurice. E poi… beh… non fa bene stare sempre con un malato… c’è il contagio… queste malattie si trasmettono col solo respiro… lo hanno scoperto da qualche tempo. Un tempo si credeva fosse ereditaria… Quel pericolo era un pensiero costate, una cosa da tenere sotto controllo. Mi ricordai che, appena arrivati in quella casa, André si era arrabbiato moltissimo quando aveva scoperto che avevo chiesto a Louise di farlo dormire altrove. “Fai sempre così! anche in passato… Prendi decisioni per il mio bene senza chiederti cosa io consideri il mio bene!” aveva detto risentito, scotendo il capo, con lo sguardo lucido. Mi ero sentita con le spalle al muro. “Quali decisioni ho preso in passato André?” gli avrei voluto chiedere. Poi ero stata zitta perché si era fatta sentire quella sensazione orrenda delle immagini che dalla mia mente si sostituivano alla realtà.

“Sono proprio un cataplasma! Un senapismo… un impiastro…” sentenziai nel pensiero. Mi strinsi nelle braccia. Mi sembravano sempre troppo ossute. Anche il torace. Ero ancora messa male constatai.  Il mio corpo non aveva più scadenze mensili e certo non era perché fossi incinta: semplicemente era troppo logorato per permettersi anche una cosa automatica e naturale come quella. Lo sfibramento mi aveva portato all’amenorrea.

“André… non ti perdi niente” pensai passandomi una mano sul seno, sospirando. Lì di roba ce n’era meno del solito. Un’altra questione di femminilità limitata. In passato non mi ero mai soffermata su argomenti come questi, ma ora era diverso.

“Che fai?” mi sorprese la sua voce. André mi stava fissando.

“Niente… pensavo che sono dimagrita” dissi, sintetizzando le mie elucubrazioni e omettendone i vari risvolti. Non ricordo se avessi ancora un po’ d’alcol nelle vene. Ero molto triste, ma molto tranquilla. Forse sì: ancora un po’ d’alcol c’era e non spostai la mano dal petto.

“Ah…” fece lui tornando supino. “Anch’io. Ma io l’ho fatto per bellezza!” fece lo stupido, passandosi la mano sul torace.

“Sciocco…” commentai dandogli una pacca sulla schiena mentre si voltava dall’altra parte ridacchiando. “Oscar…”.

Era vero anche lui era dimagrito e stanco. E l’occhio…

Quant’è nefasto riflettere sul sentirsi inutili? E sull’esserlo?

Quella era colpa mia. Non ero riuscita a difenderlo nella fuga dalla tenuta Beaumarché. E non ero riuscita a curarlo dopo. Era vero che aveva fatto di testa sua, ma la scelta che aveva fatto l’aveva fatta per salvare me.

“Stupido…” gli dissi nell’orecchio cingendolo dalla spalle. Riempire le braccia fu come riempire il vuoto. Sentire la pelle, il calore, il ritmo del respiro iniziò a calmare i sensi di colpa e a frenare le domande. E iniziò a diventare più pericoloso dell’alcol. Era bellissimo il silenzio delle parole. L’assenza di parole.

Lo sentii muoversi. Mi sistemai contro la sua schiena. Arrivava solo il rumore dell’acqua.

“Il mare disturbato dalla tramontana…” pensai, con le ciocche dei suoi capelli sul viso.

“Oscar…” disse circospetto dopo un po’

“Uhm…”.

“Togli quella mano da lì…”. La voce strana. Non risposi. Egoista. E non mi mossi.

“Toglila…altrimenti ti salto addosso e ti faccio qualcosa… e tu mi mandi a quel paese…” protestò, spezzettando la frase.

“Se ti dà fastidio spostala tu”. Risposi colle labbra nell’incavo caldo dell’orecchio. Quel maledetto liquore…

“Ma sei stronza…” rispose esasperato, con la voce stizzita e posò la mano sulla mia. Il respiro era agitato. Ne fui felice a rabbrividii. Il seno schiacciato di più contro la sua schiena.

La sua mano era sulla mia, ma non la spostò. La coprì e se la pressò contro. Allora la lasciai scivolare senza pudore e lui non la fermò, neanche un attimo. Le labbra sul collo, poi nell’orecchio. “Fa’ il bravo amore…” gli dissi, mentre gemeva e coi fianchi assecondava il movimento. Lo tenni stretto e tremava. La sua mano sulla mia, mentre resisteva fino a un scossa disperata. Un morso sul collo, un gemito e un fiotto caldo fra le dita. Respirò affannosamente e mi strinse la mano.

Il mio viso contro la pelle sudata. Mi veniva da piangere perché volevo lui, solo lui, e non mi spettavano che iniezioni di penicillina, fazzoletti sporchi di sangue e notizie funeste alla radio.

“Ma che ti è venuto in mente…” riuscì a dire con la mano che intrecciava le dita alle mie. “Che ti è venuto in mente…” disse con la voce lacerata dopo un tempo indefinito. Si stava mettendo a piangere… Le lacrime da quell’occhio: l’occhio che poteva solo piangere. “No… ti prego!” pensai, ma non riuscii a dirglielo perché non ero in condizioni migliori delle sue. Troppo stordita per capire, all’improvviso mi trovai senza biancheria e un ginocchio che si insinuava fra le gambe che non avevano la forza di opporsi.

“No smettila… smettila André!” gli urlai. Come potevo esser stata così stupida? “Tu non dovresti essere nemmeno in questa stanza!” protestai, sentendomi mezza nuda con la camicia del notte arrotolata sul seno, anche se il corpo non ne voleva sapere delle mie proteste.

“Sta’ fermo” gli urlai in faccia con tutta la forza. “Fermo!” continuai puntandogli i palmi delle mani sul petto. Tremavo. E tutto si bloccò. Lui se ne stava fermo senza dire niente. Pensai “Oh… no! E se Louise mi sente urlare…”.

“Che cambia?” chiese all’improvviso.

“Come che cambia?” ripetei spaesata.

“Perché mi devi tenere lontano… siamo già stati insieme… e tu non sapevi…”.

Non sapevo di essere malata. Poteva esserci già stato un contagio.

“Non dirlo nemmeno per scherzo! Non dirlo nemmeno per scherzo!” ripetei d’un fiato, sempre più forte. Tutto si bloccò di nuovo. Scorsi gli occhi nel buio. Ebbi un piccolo moto e cercai di chiudere le cosce.

Mi posò le testa in grembo e non disse nulla. Le mani sui fianchi. Cercava di riacquistare un respiro regolare. Ecco ora sì che stavo veramente uno schifo!

“Non ti devi preoccupare” mi disse.

Impossibile…

Mi tirai giù la camicia da notte arrotolata sul petto, per coprirmi almeno in seno. Quando sentii ancora le mani sui fianchi, mi sentii persa e, quando sentii le dita nell’interno delle gambe, mi irrigidii.

“Sta’ calma…” disse piano. “Voglio farti venire”.

 

ЖЖЖ

 

Il 19 di Agosto era iniziata l’insurrezione a Parigi. La sensazione di non essere dove dovevo si fece fortissima. Chiusi gli occhi e rividi vicoli e strade, edifici e monumenti; il cancello di Versailles e gli Champs Elisйe; i cancelli di Versailles e un immenso edificio squadrato e inquietante. Ero ai suoi piedi, c’era del fumo e sulla parte alta tante finestre che sembravano piccole bocche nere e urlanti. Riaprii gli occhi di scatto: stavo imboccando la solita strada che portava a immagini dolorose. La riconobbi: era la prima immagine che mi aveva assalita, tempo addietro, quando dovetti assistere all’omicidio del piccolo Pierre. La contenni con un brivido. Ricordavo quale fosse la sequenza di immagini successiva.

Pensai di nuovo a Parigi. A Rosalie… lo aveva avuto il bambino?

Tolsi il tampone di cotone che avevo tenuto fermo sul braccio: da che il dottor Lassonne mi aveva fatto l’iniezione ero rimasta immobile, con gli occhi chiusi.

André era appena rientrato ed armeggiava con acqua e catino.

“Stai meditando?” mi chiese, alle prese con un pezzo di sapone miniaturizzato.

“No… non ti ho sentito rientrare”.

“Come ti senti?”.

“Normale”.

“Scocciata, ansiosa, fuori posto, annoiata. Praticamente ingrata agli eventi”.

“Appunto…”. Un’analisi perfetta André. Con gli anni diventi sempre piщ sagace!… Corrugai la fronte. Ma quali anni?

Mentre lui era via, prima che arrivasse il dottor Lassonne, mi ero data a un rituale che era diventato piuttosto frequente, ma che aveva sempre esito negativo. Sfilavo da una pila di fogli e pezzi di giornale il vecchio libro con catenaccio e segnalibro blu. Lo contemplavo come se dovessi affrontare un nemico, studiare una strategia che mi permettesse di trovare un varco e colpire. Non c’era mai nulla da fare: non riuscivo ad aprirlo… anche perché a un certo punto a Marcel e Louise le mie richieste di fili di ferro e lime erano sembrate strane ed avevo lasciato perdere. Ormai mi limitavo a separare le pagine ed a sbirciare nel buio per vedere se coglievo qualche parola. Ma non coglievo mai nulla se non ghirigori di inchiostro ed alla fine vinceva sempre il libro. L’antipatia che provavo per quell’oggetto era direttamente proporzionale alla curiositа che mi spingeva a riesumarlo ogni volta che André spariva oltre la porta. Agivo in gran segreto dal momento che lui era convinto di averlo nascosto e vista l’espressione scettica che sfoderava ogni volta che vi avevo accennato.

Mi guardai intorno per controllare di averlo rimesso al suo posto. Per fortuna era impilato, ma sporgeva un po’ troppo.

“Com’é andata?” gli chiesi sbirciando il nastrino blu che faceva capolino.

“Al solito… mi fa spezzare la schiena e ogni tanto mi dice che sono un fannullone. Ogni tanto anche che sono incosciente… nulla di particolare. Tutto sommato bene!”.

 Quando si voltò di spalle mi misi a ridere.

“Che c’è?” mi chiese perplesso.

“No… niente… qualcuno ti ha palpato…”.

“Guarda che sei tu quella…”

“Hai le zampate del cane sul didietro” lo interruppi Era vero: sembravano dei fiorelloni chiari sul marrone dei pantaloni.

“Robespierre… accidenti a lui!” esclamò guardandosi nello specchio di traverso e spolverandosi con una mano. “Se é per questo credo che mi abbia anche sbavato!” disse controllando le dimensioni del sapone, vicino al catino. “Devo scendere a vedere se Louise me ne presta un altro… devo lavare ‘sti pantaloni, altrimenti mi toccherа andare in giro in mutande”.

Quando fu oltre la porta, ringraziai il cane Robespierre e ridacchiando tirai una pedata al libro che sprofondç sotto le scartoffie.

 

ЖЖЖ

 

Alla fine di settembre, al tramonto, il cielo era striato di rosso e la temperatura era calata.

Londra era stata bombardata. De Gaulle era al governo a Parigi. Petain era fuggito in Germania.

Io ero di fronte al mare. Stretta in una giacca e con indosso un paio di pantaloni troppo corti per le mie gambe, appartenuti a uno dei figli di Louise.

I figli di Louise se li era portati via la tisi. Tutti li avevano evitati come appestati – li aveva seppelliti anche l’indifferenza - finché un medico, che non era il buon Lassonne, non aveva detto che non si sarebbero salvati nemmeno con un’operazione. Avrebbero dovuto togliergli alcune costole ed anche pezzi di polmone, ma ormai non avrebbe avuto senso neanche quello. Mi si piegavano le gambe se ci pensavo; e se pensavo che indossavo i pantaloni di uno di quei ragazzi… Io che avevo sfiorato l’abisso e che speravo di essere in salvo. Io combattuta, che di fronte al mare, ero certa di aver dimenticato qualcosa… qualcosa da fare e che non avevo fatto… e che, pur rendendo grazie, mi impediva di capire cosa ci facessi, stretta in abiti non miei, su quella spiaggia.

Gli obiettivi mancati, gli ideali che erano rimasti lettera morta, le strade separate, i compagni di viaggio perduti un attimo dopo il saluto… Dove erano tutti? Perché non avevamo notizie, se non notizie ufficiali e spersonalizzate?

Il mare era leggermente agitato. Sciabordava sul bagnasciuga e contro un gruppo di scogli, mentre chiazze di un blu più scuro si raggrumavano all’orizzonte. Mi incantai a fissare un oggetto, senza prendermi la briga di capire. Ormai lo face spesso.

“Secondo te cos’é?” chiese d’un tratto André.

“Cosa?”. Mi riscossi. Osservando il suo profilo scrutare il mare.

“Non la stai guardando anche tu quella cosa che galleggia?”.

Riportai lo sguardo sul mare. Fra le ultime pennellate di luce c’era un oggetto che fluttuava.

“Mi sembra una bottiglia…” disse, indicandomi l’oggetto che, trascinato dalle onde, oltrepassava il gruppo di scogli. “Ma non vorrei sbagliarmi”.

Quel “non vorrei sbagliarmi” mi mise tristezza. “Non vedo bene” era il concetto.

“Forse sì…” risposi seguendo l’oggetto con lo sguardo, ferma con le braccia conserte.

“Seguiamola no?” fece lui, saltando sugli scogli e seguendo la corrente con le mani in tasca. Io continuai a camminare sulla lingua di sabbia, non molto certa di essere in quel posto, ma certa di non essere altrove, mentre una bottiglia galleggiante e André che si entusiasmava per niente sembravano volermi tirar giù dalle nuvole a tutti i costi.

Oltrepassato il gruppo di scogli, la bottiglia fluttuò di fronte al bagnasciuga. La luce la attraversò e quel che vidi mi diede un moto improvviso di curiosità.

“André!” gridai. “C’è una cosa dentro la bottiglia!”. Mi avvicinai all’acqua, ma non osai immergere i piedi. Indietreggiai sulle punte all’avanzare dell’acqua.

“Vado io” disse lui togliendosi le scarpe e tirandosi i pantaloni sui polpacci. Lo vidi avanzare verso la bottiglia fra gli schizzi e il riflesso del sole. Tornò indietro con l’oggetto che sembrava spuntato da un libro di avventure: una bottiglia con dentro un foglio.

“Ma è vera?” domandai stupidamente, tendendo la mano. Era una di quelle scene che nella realtà sono eventi e nei libri retorica pura, col loro svelarti dov’è un magnifico tesoro.

 La osservò alzandola verso la luce. “Sì” confermò e me la porse.

La presi e la analizzai. “Se i desideri si potessero avverare qui avrei la risposta a tutte le mie domande” pensai.

Tentai di stapparla ma non ci riuscii. La stappò lui e me la porse. Estrassi pescandolo con un dito il foglio, incredula. Prima di leggerlo mi sedetti sulla sabbia e lui fece la stessa cosa. Srotolai il foglio, con l’aria di chi si troverà di fronte qualcosa di paurosamente serio.

“Cosa c’è scritto?” chiese, di fronte ai miei lineamenti che si distendevano fino al riso.

“Guarda!” gli dissi ridendo.

Sul foglio una manina malferma aveva disegnato un faccione rotondo, occhioni dalla pupille a fessura, orecchie a punta e baffetti. Una figura che doveva essere orientativamente un micio.

“Ma è un gatto che ride!” fece André divertito.

La manina, più in basso aveva scritto con grafia infantile “Buona fortuna! Lucrèce ”.

André prese il foglio in mano e lo rimirò. “Pero! Generosa… mi ha anche dato un’idea!” commentò e continuammo a ridere.

La luna, giа percettibile in cielo, chiamava a raccolta l’acqua del mare che, inesorabile ora, ingoiava i piccoli scogli nell’alta marea. L’aria si fece più scura e il foglio con micio oscillava nella mano di André in un leggero venticello.

Mi avevano tirato giù dalle mie nuvole nere, pensai lasciano scorrere dei granelli di sabbia ancora tiepida fra le dita.

 

Un mattino, alle soglie di ottobre, mi svegliarono un piccolo peso su petto e uno strano rumore.

Pur pur!

Aprii gli occhi, scollando a fatica le palpebre e chiedendomi se ci fosse qualcosa di strano in quella camera o se ai miei sogni si fosse aggiunto un audio particolarmente nitido.

Pur pur!

Un piccolo micio bianco si affilava le unghie e faceva le fusa sulla mia coperta.

“Ciao!” feci tirando su la testa e sperando che l’allucinazione non svanisse.

Sentii André che se la rideva in un angolo.

“È vero?” chiesi io, con un piede fuori dal mondo dei sogni, sfiorando il pelo bianco. Micio si stese sulla schiena per farsi accarezzare la pancia e mi fissò con i suoi occhini rotondi e verdi.

“Certo che è vero” rispose, alzandosi dalla sedia mentre il micio si rotolava sulle coperte. “Anzi è vera. È una micia. Se ne andava in giro per il paese e non aveva molto da fare. Ho pensato che sarebbe stata bene con te”.

Sollevai la micia che continuava a ronfare come una caffettiera e guardai André ai piedi del letto, coi gomiti sulla spalliera.

“È vero! Grazie!” dissi.

“Ma ti pare” fece lui fingendosi cerimonioso e socchiudendo gli occhi.

“Ti chiamerò… Devo pensare a un bel nome. O lo hai giа scelto tu?”.

“No. A voi l’onore madamigella!”.

“Grazie…” sussurrai ancora. Non potevo avvicinarmi.

“Ti devo avvertire di una cosa però… i gatti bianchi in genere sono albini. E non vedono e non sentono molto bene…” aggiunse indicando la micia che faceva le fusa sotto il palmo della mia mano.

“Praticamente sei dei nostri!” esclamai, lasciandole un grattino sulla testa.

“L’hai notato?” commentò mentre cercava un foglio su cui scarabocchiare.

La micia era in estasi. Dovevo trovarle un bel nome.

“Esmeralda!” esclamai quando spalancò due irresistibili occhioni verdi. André si distolse un attimo dal foglio e sorrise.

Decisi di mettermi in piedi, invece di ammuffire nel letto, e vestirmi come meglio potevo in onore della piccola ospite. Mentre mi abbottonavo la camicia e lanciavo qualche occhiata alla piccola che esplorava la stanza mi chiesi chi fosse Lucrèce.

 

ЖЖЖ

 

Cara,

spero che sia proprio tu a leggere questa lettera. Che pensiero banale, penserai tu che sei giornalista e sai come collegare pensieri e parole. E' vero. Lo so. Ma non sono tempi in cui si può essere sicuri di qualcosa e non é così scontato che una lettera giunga nella mani della persona giusta. Mi rendo conto che è già un miracolo il fatto che io sia arrivata fin qui e che ora la stia scrivendo. Spero che tu stia bene. Ti ho pensato tanto. Vi abbiamo pensato tanto. Noi tre, i soliti, soprattutto. E ti confesso che, anche se la vostra presenza ci avrebbe aiutato a prendere decisioni che invece abbiamo rimandato, per un certo verso siamo stati felici per voi: perché non avete visto quello che abbiamo visto noi. Felici… felici é una parola che scrivo solo perché non me ne vengono in mente altre. Lo giuro. Sollievo forse è la parole migliore, non la più adatta. Ti ricordo comandante… mi spezzava il cuore guardarti mentre gli altri aiutavano il tuo uomo insanguinato a scendere da quel furgone e tu ti trascinavi accanto a loro. Ho pensato a quanto mi fa paura la tua malattia tante volte quante mi sono sentita in colpa per non aver potuto assistere te e lui. A volte ho il terrore e la presunzione di capire come si sente chi è abbandonato. Ma, comandante, così al limite come eravate, anche due persone come voi, abituate a piegarsi e non cedere, si sarebbero spezzate di schianto. Mentre scrivo prego con tutte le mie forze che la salvezza che speravamo di consegnarvi non sia stata un miraggio o un modo rapido per risolvere la questione. Spero che il tuo respiro sia tranquillo, che gli occhi di lui ti vedano, perchè, come dice mio marito, non hanno mai voluto vedere altro.

Noi tre ci siamo. Se sei lì a maledire la tua assenza dal campo come, conoscendoti, credo che farai, ti assicuro che i tuoi appunti, quello che ci hai insegnato e il tuo modo di fare ci hanno guidato. Non ti dirò quello che è successo nel frattempo. Solo questo e che alcuni si sono salvati, altri li abbiamo salvati. Altri no.

Vogliamo ritornare nella capitale e sperare che, per quanto possibile, gli strappi che ha prodotto questo tempo insano possano essere ricuciti. Anche dal poco che abbiamo fatto.

                                 

Con tutto l’affetto che possiamo

                        D.& gli altri

 

Una lettera di Diane. Era lei. Niente nomi per precauzione. Ma era lei: D.

Erano vivi! Erano salvi. Pensai stringendo la lettera nel pugno. Una sensazione bellissima: come se il cuore fosse più leggero. Potesse correre di più e ancora. Ma in quella gioia mi sentii tagliata a metа: una parte della speranza era morta per tutto quello che Diane aveva scritto di volermi tacere. 

 

ЖЖЖ

 

Marron Glacée mi scrutava sempre con occhi apprensivi che sembravano volermi fare mille domande. Alla fine si limitava a chiedermi cosa gradissi da bere o da mangiare e il loro luccichio continuava a rimanere un mistero. Mi versava del the o del cioccolato in una tazza e mi invitava a conversare.

Le giornate diventavano più brevi ed il tempo meno clemente. Mentre lei si chiedeva come avrebbe fatto quell’anno a fare il suo tradizionale liquore di semi di mele, dato che di semi non ne aveva tanti, osservavo le piante che traboccavano dalle aiuole, i vialetti bianchi macchiati d’erba e le sedie chiare di ferro battuto. André sfacchinava per il giardino con Robespierre alle calcagna.

“La soluzione ai tuoi problemi è là!” avrei voluto dirle. “Metti André all’opera e ti farà fuori tutte le mele di cui hai bisogno”.

“Dovrò chiedere ai vicini se invece di buttare i semi me li conservano… non vedo soluzione” mormorò lei abbassando gli occhi e sorbendo del the. Tenni per me il suggerimento. Dal fondo del giardino si sentiva la voce di André che tentava pazientemente di tenere Robespierre a una certa distanza, spiegandogli che non poteva giocare.

“Te ne manderemo anche noi” mi limitai a dirle sorridendole. Quella donna, con la sua finta severità, mi ispirava un immenso affetto.

“Sei una cara ragazza… lui a volte è un po’ scansafatiche, ma è bravo” commentò facendo luccicare gli occhi da sopra gli occhialini.

Tornai a guardare il giardino su cui s’abbassava il tramonto. Quando la sera calava diventavo sempre pensierosa. Ormai era una regola. Quella sera pensai che era magnifico che potessero esistere spazi di quiete pura come quello.

 

ЖЖЖ

 

Ormai faceva freddo. Il giorno dei morti il vento soffiava impietoso per le strade. Il mare gonfio e plumbeo nel rettangolo della mia finestra lanciava il suo lamento. Da nuvole d’inchiostro raggi dorati piombavano sul paesaggio. Stretta nella giacca guardavo dalla mia camera lo spettacolo della natura che si prepara alla tempesta: un panorama da giudizio universale alla mia finestra, mentre una tenda fluttuava sfiorandomi il viso. Un lampo e un tuono.

A pian terreno André e Maurice lottavano per fissare una persiana mezza scardinata dal vento.

“Tienila…”. “E chi la fissa!?… porca miseria!”. Le voci erano soffocate dagli elementi della natura. La persiana sbattè violentemente, seguita da un’imprecazione di Maurice.

La mia camera non era calda ma accogliente. Esmeralda svolgeva il suo giretto di ricognizione sotto armadio e comò, poi sotto il letto, fra le gambe delle sedie fino a strusciarsi sulle mie caviglie, passandoci insistentemente sopra il musetto.

Tutto andrebbe bene se quello che è là fuori dalla finestra, nel mondo, fosse semplicemente una burrasca.

Guardai la strada e notai che andava macchiandosi di piccole chiazze scure accompagnate da un picchettare crescente: iniziava a piovere ed io ero al sicuro dietro i vetri della mia finestra con la micia che, imperterrita, esternava la sua vitalitа. Se fosse stato così tutto il tempo! Ma non lo era stato: dal sollievo della sicurezza un altro lampo e un’altra imprecazione mi fecero passare alla sensazione di vuoto e impotenza con cui lottavo da mesi. Un altro colpo di persiana e una risata di André. Il rumore della pioggia cresceva. Esmeralda iniziò a giocare col nastrino azzurro del libro che penzolava indiscreto dalla solita pila di libri. Erano giorni che ci avevo rinunciato, ma mi avvicinai e lo estrassi dal dimenticatoio. Lo guardai tenendolo sui palmi delle mani. Guardai la pelle della rilegatura, le parti che il tempo aveva consunto e il disegno astratto che formavano. Un altro lampo le illuminò e i pensieri, la curiositа e la vecchia piccola ossessione per quell’oggetto mi riafferrarono le dita. Avrei ricominciato col rituale dei tentativi di apertura, ma mi accorsi che André mi guardava, sulla soglia della porta, coi capelli e la giacca bagnati e l’espressione di chi non riesce a dire parole che vorrebbe. Immaginai come mi vedesse: stretta in una giacca mai troppo calda, pantaloni non abbastanza lunghi, immobile di fronte alla finestra, con un libro chiuso sulle mani, rivolto al cielo come su un leggio. Sperduta e non sapevo perchè.

“Chiudi almeno la finestra. Fa freddo” disse rompendo il silenzio. Mi passò di fianco e accostò l’anta. Il rumore della pioggia si attutì e la tenda smise di sventolare.

Mi strinsi il libro al petto.

“Che succede?” mi chiese. Dovevo avere ancora un’espressione sperduta e lui aveva un atteggiamento strano, poco disinvolto, ma mi guardò negli occhi come aveva sempre fatto.

“Senti...” feci imbarazzata senza saper perchè. “Mi aiuteresti ad aprire questo?”.

Credo che se l’aspettasse come domanda. Prese in mano il libro. Lo guardò per un po’. Prese il  catenaccio fra due dita e lo osservò. Guardando le sue mani ebbi l’impressione che ogni gesto venisse compiuto con infinita attenzione, come se tentasse di reprimere qualcosa.

“Sì… certo…” disse incrociando il mio sguardo. “Solo… devo solo trovare il modo di rompere il catenaccio” aggiunse mostrandomelo. “Appena trovo il modo…”.

“Sì… non c’è fretta” dissi io, riprendendo il libro che mi porgeva. Ero stupita dall’atmosfera di quel breve e apparentemente banale dialogo. Avevamo una serie di atteggiamenti insensati. Esmeralda ci guardava stranamente immobile.

“Certo…” ripetè André. “Louise ha preparato una minestra. Ha detto che le fa piacere se mangiamo con loro”.

“Ah… sì… scendiamo allora” dissi e mi mossi come un automa con lui che mi seguiva e ripeteva assente “Scendiamo…”.

 

Quella notte rimasi sveglia e senza pensieri. Verso l’alba gli occhi si fecero pesanti e mi sentii scivolare verso il sonno. Non capii se fosse un sogno o qualcosa che accadeva nel dormiveglia, ma sentii le mani di André sfiorarmi il braccio, mentre ero distesa su un fianco e il suo respiro sul mio viso. Rimasi ferma immobile, stupita da quanto mi turbasse la cosa. Sperai che non insistesse e non prendesse iniziative, tornando su vecchi discorsi dolenti, anche se sapevo che non era nella sua indole. Ma mi sentii delusa e sola quando sentii il tocco della mano svanire e le sue labbra allontanarsi dal mio viso dopo un contatto impercettibile. Quando conclusi che era di certo un sogno mi addormentai.

 

Al mio risveglio le tende oscuravano ancora la visuale ma era giorno da un bel pezzo. Mi faceva male la testa. Mi massaggiai le tempie ed aspettai di riuscire ad aprire gli occhi senza che la visione di cose e oggetti fosse traumatica. Esmeralda dormiva sulla sedia ed io ero sola nel letto. Quando André andava via ne percepivo chiaramente l’assenza, anche ad occhi chiusi. Spinsi la mano dalla sua parte del letto per capire se la mia impressione era giusta o sbagliata. La mia mano urtò contro un oggetto posato sulla coperta perfettamente stesa. Aprii gli occhi e trovai il vecchio libro. Mi chiesi perchè lo avesse lasciato lì. Sollevandolo ebbi un tuffo al cuore. Le pagine del libro si aprirono come un ventaglio e mi scivolarono di fronte agli occhi: il catenaccio era sulla coperte ed il libro aperto. Non capii perchè mi percorse un brivido strano, un misto di paura e di eccitazione. Per un lungo attimo lo fissai e non riuscii a muovermi, le ginocchia molli e inchiodate l’una contro l’altra e la pelle del corpo increspata da fare quasi male. Gli occhioni luminosi di Esmeralda mi guardavano nella penombra. Recuperai un minimo di controllo: cosa ci poteva essere di così sconvolgente? Io alle maledizioni e alle favole non avevo mai creduto.

Mi alzai e quando scostai le tende la fredda luce autunnale entrò nella stanza.

Cosa raccontava quella storia di Cagliostro? Lo avremmo capito finalmente.

Tornai a sedere sul letto e presi in mano il libro.

“Come lo hai aperto?” mi chiesi, ricordando che mi aveva detto di aver bisogno di trovare il modo di rompere il catenaccio che giaceva integro sulla coperta.

Quel particolare mi fece venire il dubbio che la storia fosse totalmente diversa e che Cagliostro e i miraggi di ricchezza e sventura non fossero che i due rovesci di una medaglia inesistente; di un bisogno di costruire storie e motivazioni laddove non ve ne potevano essere.

Le pagine erano ambrate. Qua e lа c’era qualche macchia di muffa. Alcune erano incollate. Avevano l’odore delle cose antiche. Qualsiasi segreto avessero custodito mi avrebbero portata indietro nel passato come ogni stralcio di storia sopravvissuto alla spietatezza del tempo. Con le gambe sotto le coltri e la giacca posata sulle spalle iniziai a scorrere quelle pagine: erano tracciate da fitti segni d’inchiostro ormai brunastro. Decisi di fare le cose per bene ed iniziai a leggere dalla prima.

In una grafia misurata e tipica dell’epoca l’autore parlava di politica. Faceva riferimento a date ed eventi settecenteschi. Erano indicati nomi di nobili e funzionari. In effetti, visto il periodo, poteva essere Cagliostro. Le osservazioni erano argomentate a momenti con passione trascinante, tipo: “La povera gente insorgerà, lo sento chiaramente, solleverà il capo per prendere la sua parte, per prendere quel che gli appartiene!”; a momenti con tatto e razionalitа: “Sarebbe prudente che i sovrani aprissero gli occhi, perchè questo continuo negare la realtà per illudersi di fasti che ormai non vi sono più nuocerà a loro stessi quanto al popolo. Anzi forse a loro più che al popolo: il popolo è coeso e spinto dalla fame. E nulla si può contro la fame: non è un’osservazione, è un teorema”. I racconti di riunioni segrete e l’esposizione di idee politiche si collocavano in un periodo chiaramente antecedente al 1789. Antecedente la Rivoluzione. Ma l’autore non si sbilanciava oltre a resoconti ed osservazioni personali, spesso punteggiate da osservazioni ironiche: “Ha perso talmente tanto il senso della realtа che un giorno sarà capace di dire al popolo di mangiare le brioche se non ha pane” Frase questa chiaramente riferita alla regina Maria Antonietta. Andava avanti così per una ventina di pagine che dovevano essere state scritte in pochi giorni, se non tutto d’un fiato. Ad un certo punto lessi una cosa che mi diede i brividi. La rilessi più volte per esserne certa.

“Ho una triste sensazione: lei sospetta di me. Oscar è fredda e indagatrice, ma figurarsi se mi dice quello che sta pensando! Credo che sospetti che le mie uscite notturne, quelle che mi portano sempre alla chiesa, abbiano a che fare con la storia del ladro. Ladro che io non mi sento di biasimare e questo per lei è stato l’ennesimo tassello che completa il quadro della mia colpevolezza. Ahimè … che ne sarа di noi se, nonostante gli anni passati assieme, non riusciamo a parlarci? Dovrò dirle come stanno le cose”.

L’autore, di cui non conoscevo il nome, parlava di una fantomatica Oscar. Non era un Oscar qualsiasi: era una donna con un nome da uomo. Iniziai ad essere inquieta ed entrai in uno strano stato di agitazione. Tentai di fare dei collegamenti: che fosse la donna del ritratto che avevo comprato a Parigi e del cui nome mi ero appropriata per scrivere e sentirmi forte di una firma maschile. C’era scritto proprio Oscar. Un’altra idea si agitò fra i miei pensieri, ma la repressi e le impedii di prender forma perchè illogica. Metà di quella pagina era bianca, come se chi scriveva avesse deciso di sospendere.

Notai subito che nella pagina successiva la grafia si faceva nervosa meno ordinata. Appena iniziai a leggere, mi colpirono la differenza di tono e l’impostazione del discorso: se le pagine precedenti erano ragionate e messe nero bianco in modo sistematico, queste erano un flusso di parole, il fiume in piena di una persona che aveva un bisogno disperato di sfogarsi. Sapevo che sarei stata male per quello che avrei letto.

“Sono tornato in camera che non respiravo più ed ho cercato la pistola. Ci ho messo del tempo a caricarla perchè avevo le mani che mi tremavano, il ferro mi sfuggiva di mano ed ero così sconvolto che non ricordavo la sequenza dei gesti, eppure ho sempre creduto di poterlo fare ad occhi chiusi. Sono riuscito a mettere il dito sul grilletto, ma mi mancava l’aria ed ho continuato a guardarla immobile nella mia mano. Poi ho pensato che non era giusto, non avrebbe cancellato nulla di quello che le ho fatto. Non sceglierò io di vivere o morire, deve essere lei a decidere se ammazzarmi perchè, se lo farà, la capirò e, in parte, dopo le parole che mi ha rivolto, sono giа un morto che cammina.

Avevo deciso di non dirglielo che la amo e che tutto quello che faccio dall’alzarmi la mattina al lavorare al vivere è per lei, solo per lei e di me, se sono ridotto così a questa età, non me ne frega niente. Di non dirglielo perchè le complicazioni sono troppe e io sono solo un servo e non posso chiedere e sperare niente, anche se in questa storia ho una parte di cui tutti fanno finta di non accorgersi. Avevo deciso che avrebbe parlato solo quello che facevo: se avessi fatto tutto per lei, anche senza dirle niente, avrebbe capito che la amavo. E la amo. La amo e la amo.

Invece no, povero deficiente di un André, ai signori è tutto dovuto e non si accorgono di nulla. Non ha capito che le ho dato un occhio ma mi sarei strappato il cuore, perchè, se l’avesse capito, non avrebbe tentato di liquidarmi come una cosa vecchia, usata troppo lungo e che è venuta a noia. Perchè questo ho capito quando mi ha detto che vivrà come un uomo, che posso fare quel che voglio perchè di me non avrа più bisogno. Mi ha freddato ed ho capito che tutto è stato inutile. Tutta la mia vita. E che non riesco a capire cosa ho sbagliato. E quando le ho parlato e invece di ascoltarmi, come segno d’attenzione, mi ha preso a schiaffi, ho perso il senno. Le ho fatto male perchè capisse chi è l’uomo, le ho infilato la lingua in gola e l’ho costretta a non muoversi e a sentire il sapore della persona di cui si vuole liberare, mentre sentivo che tremava non avevo pietа. E non ho capito più nulla. Mi sono svegliato all’improvviso e per miracolo, quando mi sono reso conto che la stavo spogliando e che piangeva, lei che trattiene sempre le lacrime a costo di bruciarsi gli occhi. Ha la pelle bianca e tesa, mi ha abbagliato la sua luce. E' così bella: la vita sottile e i seni da bambina. Come si fa a sporcare e a rimproverare qualcosa a tutta questa perfezione. E' bellissima. E' come gettare una rosa bianca nel fango. Morirò di crepacuore al solo pensiero che la pelle d’oca e i brividi che la scuotevano sono stati colpa mia. Ho distolto lo sguardo perchè non ne sono degno, perchè morivo dalla voglia di farle carezze che le avrebbero fatto schifo, e sono tornato in me. E gliel’ho detto che la amo, anche se quello le stavo per fare dice il contrario… e che sono una bestia! E allora deciderà lei che fare di me. Anche se stamattina ha detto che non ce l’ha con me e che andrà lontano per un po’. Deciderà lei che fare di me. Perchè lo so che mi odia. E fa bene.

E io sto male”.

 

“Anch’io sto male!” pensai piegandomi in due sul letto. Conati di vomito e sudore sulla fronte. Quella lettura era peggio di una frustata in pieno volto, avevo il cuore che faticava e una mano mi stringeva lo stomaco. “André… André! Dove diavolo sei andato!?” volevo urlare, ma non lo feci per non allarmare Louise. “Questo libro mi ucciderà!” pensai mentre tremavo eppure riafferravo per la quarta quel diario, perchè nulla, mi avrebbe impedito di capire di cosa si trattava, qual era la storia, anche se giа lo sapevo e ne fui certa quando il malessere mi invase gli occhi di immagini.

 

Il mare era scuro e tirava un vento gelido e umido. Il mantello mi si incollava addosso e si riempiva di un odore di sale ed alghe nauseante. Nauseante. Nauseante tutto! pensai trascinandomi a fatica sulla sabbia umida. La cosa più nauseante è la mia immagine riflessa nello specchio mi gridò dentro la coscienza, mentre mi aggiravo malferma sulla gambe. Una strana doppia coscienza.

Un cane randagio rifiutò il mio invito ad avvicinarsi, come se potesse leggere che razza di persona ero e, mentre il vento sollevava la sabbia si diresse verso un relitto. Rimasi sola a guardare il mare agitato e le lacrime iniziarono a scendere da sole. Tentavo di fare il vuoto, ma mi tornava in bocca un sapore che non era il mio. Il vento mi spargeva le lacrime sulla pelle ed erano ghiacciate e salate, andavano in bocca e si mischiavano coi capelli, i capelli intrappolati e spezzati fra le dite che tentavano di uccidere le lacrime, ero il groviglio di me stessa, un groviglio di sbagli. Mi voltai per tornare indietro. Gli stivali affondavano nella rena, le ginocchia si flettevano. Come ho potuto essere così insensibile? Come? Mi chiesi con una mano sul viso e i capelli che mi coprivano il la visuale, mentre il vento freddo mi soffiava come una condanna sulla nuca. Come?

André… André perdonami! Perdonami se non ti amo! Perdonami! dissi sottovoce, sulla spiaggia.

“No… non è vero! Tu lo ami!” dissi io piegata sul letto e mi vidi, sulla spiaggia, portare le mani alle orecchie confusa e spaventata.

 

pubblicazione sul sito Little Corner del giugno 2004

Continua...

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