Rumore d'ali
(De insania)
Parte XVI
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Nessuno apriva la porta da più di un giorno. Ad occhio e croce poteva essere un giorno, ma in realtà non avevo più idea del corso del tempo. Potevano essere più giorni o poche ore. Ero immersa in un mare fatto di minuti, secondi e ore senza più forma.
Mi sentivo stanca, immobilizzata dal freddo, dal dolore al capo, sfinita dalla tosse. Non sentivo più la fame, solo la sete: una melma che mi imbrattava la bocca.
Ma avevo una cosa che mi era mancata negli ultimi giorni: la lucidità. Era come se, lontana dai contatti con quelle persone, avessi recuperato almeno in parte la capacità di ragionare. Il buio a cui mi ero abituata aveva qualcosa di vivido. Pensieri e congetture mi conducevano a pensare che in quel posto stava succedendo qualcosa di imprevisto che interrompeva la cerca di Jeanne. Tanto meglio. Anche se quel qualcosa o una scelta precisa avevano deciso di farmi morire per inedia e disidratazione.
Ma se erano loro… – idea che mi era balenata per disperazione - perché non mi tiravano fuori?
“Perché nessuno ti troverà qui, sotto terra. Perché nessuno immagina quello che c’è qui; nessuno immagina che, come se ci fosse una calamita, tutte le storie convergono in questo luogo”. Questa era sempre la medesima formula della risposta. Non scantonavo. Non resiste a lungo la speranza, al buio.
“E quindi…” mi dissi. “E quindi… non ho mai creduto alle storie che finiscono bene. E nella mia vita sono stata anche felice, alla fine. Più di quanto non sospettassi. È il momento di scegliere. Non so perché… mi vengono queste parole: punterò alla parte alta della fortezza…anche se non hanno senso, vogliono dire che non me ne starò qui con le mani in mano. Che la morte della speranza non ha scalfito la mia volontà.
Presto o tardi, qui entrerà qualcuno. Ed io non aspetterò. Non starò ferma. Decido da me.”
E avevo deciso.
“Chiunque tu sia, ti aspetto. Comunque finisca, faremo i conti”.
ЖЖЖ
“Per di qua” disse il soldato con accento teutonico. La voce era flebile. Suonava strana: come se fosse filtrata attraverso l’ovatta. Guardandogli le palpebre pesanti che si schiudevano come crepe sui globi degli occhi, André si sentì un po’ colpevole. Quel ragazzo se lo stava mangiando il sonno.
Venne aperta una porta a due ante e il dottore, cerimoniosamente, si chinò per chiedere “È permesso signora?”.
Lo sguardo di André cadde ancora una volta sul viso del soldato. Oltre agli occhi socchiusi aveva due vistose caccole appese ai lacrimali. “Entrare?” chiese automaticamente, sempre più addormentato che perplesso. Ad André scappava da ridere e il senso di colpevolezza iniziò a sfumare. “Sarà che il sonno ti sta mangiando… ma è il minore dei mali, te l’assicuro” pensò. Si ricompose per dargli una risposta, ma il suono delle voce che invitò il medico a entrare lo distrasse.
“Entrate dottore. Sto da cani… non saranno gli ormoni, qui dormiamo tutti… e gli ormoni ce li ho solo io. Entrate… sarà una fottuta peste bubbonica…”.
Quella voce di donna la conosceva…
“Peste bubbonica!” esclamo il medico, divertito. “Cara signora no… sarà una coincidenza… non è nulla… ora controlliamo” rispose melenso, dondolando la testa.
La conosceva… la donna dai capelli scuri che si piegava sul ventre gonfio. Per un attimo realizzò che non ci capiva più nulla. E che è un guaio quando l’unica certezza e questa!
Lei lo poteva riconoscere? Non se ne ricordava. Fece un passo indietro. Meglio evitare di farsi vedere.
“Massì…” pensò davanti allo sguardo da sonnambulo del soldato. “Speriamo che Morfeo mi dia una mano… giochiamoci tutta la posta”.
“Io sono un medico. Il dottor… Grondiet…” disse concentrandosi altrove rispetto alle caccole del ragazzo, e maledicendo la fantasia che non lo soccorreva in fatto di cognomi. “Devo visitare la prigioniera. Il dottor Laval non può… quindi lui e la signora hanno chiamato me che so… diciamo… come trattare il caso”.
Il ragazzo esitò un po’. Poi con un’espressione che comunicava chiaramente “Pure ‘st’altra rottura di palle… non mi lasciano dormire…” si avviò meccanicamente per il corridoio. “Seguire” scandì in maniera impercettibile, perseverando con l’infinito, e André lo seguì. Disse anche qualcosa in tedesco. André suppose si trattasse di maledizioni e aveva ragione.
Dopo alcune rampe di scale verso il basso, il ragazzo estrasse lentamente dalla tasca un mazzo di chiavi e si concentrò per sceglierne una. Operazione che prometteva di essere piuttosto lunga.
“Ora vedi di farti una bella russata!” disse André, interrompendo la cerca della chiave con colpo del calcio della pistola sul cranio del ragazzo. “Peccato… abbiamo finito tutto il cloroformio” pensò, rimettendo la pistola nella fondina sotto la giacca.
Scelse una chiave dal mazzo, ma non era quella giusta. Non lo era neanche la seconda. La serratura rimaneva vuota e impenetrabile. Se ti tremano le mani, ti trovi sempre fra le dita quello che non cerchi. Senza contare che è un’impresa visualizzare la serratura stessa. Trovò quella giusta e, quando scivolò nella serratura, sentì il respiro forzare la mano.
Lei sapeva che qualcuno stava per entrare, lo sapeva. Felice sì, lo era. Ma non tranquillo. Aveva paura di quello che avrebbe trovato. Di quel che potevano averle fatto e di quel che avrebbe fatto. Perché, con lei, era sempre come entrare nella fossa del leone. Allo scatto della serratura sarebbe sfumata ogni domanda.
Fu il frusciare dell’aria. Non vedeva nulla in quel buio, ma al fruscio sospetto si parò il viso. Una botta tremenda sulle braccia. “Hai le tibie taglienti…” c’era da dirle, ma tanto non ci fu il tempo per prender fiato e farlo. La sentì respirare pesantemente e ripartire all’attacco con un grido, un grido scarico… Voleva prenderlo a pugni, ma i pugni furono facili da fermare. Tutta scena: braccia senza forza. Le chiuse la bocca con una mano. “Calma… sta’ calma” le disse. “Sta’ calma…” disse più piano, vicino all’orecchio, mentre intravedeva gli occhi che lo scrutavano nella penombra. “Calma…” disse ancora sottovoce togliendole la mano dalla bocca. Si sentì passare un braccio dietro il collo e il viso contro il suo. “Calma…” ripeté automaticamente, anche per se stesso, ed ebbe la sensazione che riprendesse le forze in silenzio. Le infilò una mano fra i capelli e la tenne ferma quando la scosse una tosse assurda. Lei fece finta di nulla. “Andiamocene” gli disse aggrappata alla sua camicia, con la voce di sempre.
ЖЖЖ
Fuori dalla cella il calore era soffocante per me, abituata al gelo e all’umido.
Il mio André mi raccontò del sonnifero. Non capii molto, ma intuii. Più che le spiegazioni, mi premeva rimettere tutti i conti in pari con una certa persona, per il bene di un sacco di altra gente.
Sul tragitto, qualcosa ci deviò. Tutti dovevano essere via a dormire, stesi o in piedi. Ma c’era un tipo fin troppo vigile che nel corridoio principale tentava di svegliare un altro soldato. Parlava in modo concitato. Non capivamo cosa dicesse, ma di sicuro non dovevamo incrociarlo.
Ci infilammo in una delle stanze laterali. Fu una fortuna che fosse vuota, ma a quanto pare il resto della combriccola preferiva, come i veri signori esigono, non soggiornare al pian terreno. Era un salottino dall’arredamento retorico e dorato: damasco e stucchi intrisi di polvere.
“Dannazione! O è uno di quelli che non bevono acqua… o viene da fuori… e qui sono cavoli…” esclamò André chiudendosi la porta alle spalle.
“Secondo me questi qua di acqua ne devono ben poca… Cosa vuoi dire? Chi verrebbe da fuori?” chiesi, cogliendo che poteva esserci sotto qualcosa.
“Voglio dire che i militari tedeschi stanno facendo rotta verso questo posto, dato che hanno scoperto l’esistenza di questo branco di disertori… Non gli va che usino le loro belle giubbe marroncino marcio per fare porcherie non ancora ratificate dal führer…”.
“E credi che siano arrivati… che quello fosse uno di loro?” dissi, consapevole di dover concatenare le idee per farmi un quadro della situazione.
“Non so… o magari è un esterno, un loro amico… Alain e gli altri sono qui intorno per dare l’allarme… ma bisogna essere prudenti”.
“In ogni caso non mi dispiace per questi… pessimi ospiti… Dobbiamo sbrigarci prima che sia tardi anche per noi” dissi, precipitandomi verso la finestra. Non era il caso uscire da lì: era troppo vicino alla rimessa. Troppo in vista. André mi raggiunse e quando mi prese la mano trasalii.
“È meglio che ti allontani da quella finestra…”. Com’era bello quel viso che mi fissava.
“È vero… scusa…”. Distolsi lo sguardo mentre il cuore faceva un salto. Mi scorsi di sfuggita in uno specchio e mi vergognai di me stessa: non ero presentabile. Non mi riconobbi quasi. La pelle mi sembrò né bianca né grigia, i capelli dei fili incollati e gli occhi forse nemmeno si vedevano, o non li vidi io perché distolsi lo sguardo. Nervosamente portai una ciocca dietro l’orecchio e chiusi sul petto la camicetta. Stavo così male dentro che non avevo pensato di poter stare male fuori. E la mano di André che intrappolava la mia mi sembrò un miracolo. Con un po’ di cattiveria verso me stessa mi sembrò una concessione. Ebbi paura che lo stesse intuendo e parlai prima che lui parlasse: “Claude è morto… lo sai?”. Glielo avrei dovuto dire e lo dissi all’improvviso. Rivelai il mio tremendo fallimento.
“Sì… lo so. Se me ne fossi occupato io…”. L’occhiata che gli lanciai lo distolse dal proseguire.
“Non ti reggevi in piedi” puntualizzai. Non doveva dirmi una frase del genere!.
“Non voglio dire che avrei risolto tutto… ma tu non avresti subito questo… Io…” disse e si interruppe. Rimanemmo in silenzio. Ridimensionavo la rabbia dovuta alla mia stupidità. Claude me lo sarei portato dietro tutta vita. Ed anche André. Convinti entrambi che gli fosse toccato quel che toccava a uno di noi due o a tutti e due.
“Me l’hai portata una pistola?” chiesi accostandomi a una delle porte interne che nelle case antiche collegano le stanze fra loro. Senza dire una parola la estrasse da sotto la giacca e me la porse senza dire nulla. Perfetto, pensai, controllandola e vedendo che era carica.
“Vuoi bere?” mi chiese, porgendomi una fiaschetta. Tesi la mano, titubante, più meccanicamente che perché lo volessi, e sempre senza guardare. Lo lasciavo ricadere nel circolo vizioso del non sapere come trattarmi. “Guarda che è acqua… ho pensato che avessi sete” mi disse.
“Grazie…” dissi, sollevando appena lo sguardo e prendendo da bere. Mi accorsi che stavo morendo di sete: bevvi tutto e sentii l’acqua scivolarmi sulle guance, sul collo, nella camicia. La sprecai nella fretta e mi asciugai il viso con le mani. “Grazie…” dissi, concedendomi il piacere di guardarlo. “Grazie” dissi ancora e poi non capii come mi trovavo a torturagli le labbra con un bacio violento da sembrare un morso, col suo viso stretto nelle mani. Le sue mani che stringevano le mie curve. Mancava l’aria. Niente aria fra un respiro strozzato e il suono delle labbra.
Lo credo ancora, André, che tu sia un valido motivo per cui non respirare.
“Dobbiamo uscire…” dissi un attimo dopo aver ripreso il controllo, con la fronte contro la camicia. “E fermare quella bastarda di Jeanne”. Allungai la mano verso la maniglia.
“Ma quando arriveranno quelli dell’esercito sarà finita” disse André.
“Se gli racconta la storia che ha raccontato a me non finirà nulla… sarà capace di portarli dalla sua parte, furba com’è!”. La storia del libro era lunga, ma gliel’avrei dovuta raccontare. Anche se ero sicura, non so per quale motivo, che André non sarebbe stato contento di intuire che quel libro lo volevo io.
Schiusi la porta. Spiai. Vuota anche la stanza successiva. Uguale all’altra: mobili e polvere simili. Via libera.
Dopo l’ennesimo salottino vuoto non era successo nulla. Nessuno sembrava essersi accorto che non ero più nel sotterraneo ed al mio posto c’era il giovane tedesco addormentato. Ci dovemmo fermare, però, dietro la porta successiva: voci.
“È lei!” dissi sottovoce ad André.
“Col dottor Laval…” precisò.
“Quell’animale!”. In realtà pensai un elenco di parole peggiori.
“Non gli stai simpatica nemmeno tu…” disse André con una smorfia. “Ma lo abbiamo convinto a darci una mano”. Evidentemente era al corrente dell’incontro ravvicinato che avevo evitato, a mio modo, di avere con quell’uomo e la cosa lo divertiva molto.
“Se l’è cercata” era quanto potevo rispondere senza dilungarmi in appellativi eleganti.
“Ehi!” disse, prendendomi allarmato la mano. “Non è successo… null’altro vero?”.
“No… non preoccuparti… nulla” lo tranquillizzai, accarezzandogli una guancia. Non gli dissi che avevo avuto paura ed avevo vissuto nell’incubo che quella cosa succedesse. Uno dei tanti incubi, come la tosse che cercavo di controllare.
Schiudemmo la porta e dallo spiraglio si scorse parte dello studio in cui soggiornava Jeanne, al piano terra perché, evidentemente, col pancione non riusciva a fare le scale.
“Allora cosa dite che è? Ci vuole tanto?” disse ad un certo punto la voce di Jeanne con tono strano e quando mi voltai a guardarla non potei fare a meno di dire: “André… ora vomito!”.
Una scena raccapricciante. Dietro un separé, Jeanne mezza nuda, il seno pesante sulla pancia, infilava la lingua nell’orecchio del povero medico che, rosso e confuso, ma gongolante, cercava di non emettere suoni. Dall’altra parte del separé, qualcuno discuteva in tedesco: intuivo le corna di Nicolas.
“Hai capito… così sono chiare un po’ di cose” commentò André.
Si vedeva anche la scrivania. Il libro era là sopra. Eternamente sigillato.
“Quel libro… te lo ricordi?” chiesi ad André che non si scompose. “Quello sciocco di Victor le ha raccontato che è la mappa di un tesoro di famiglia. Stanno mettendo a soqquadro la valle e rischiano di trovare le persone che abbiamo messo in salvo per una cosa che non è mai esistita… tutto perché lui ha inventato una storia assurda o ha riciclato quello che può aver letto in quel libro attribuendosi meriti per fare colpo; lei ci ha voluto credere e si accompagna a gente priva di scrupoli peggiore di quanto sia lei!”.
“Beh che c’è? Quella brutta cattiva dell’altra volta vi ha dato la pace dei sensi? Lasciatemi controllare…” diceva Jeanne spingendo in basso le mani. Il medico sembrava un fantoccio dall’espressione ebete e paralizzata.
“Basta…” sibilai. “Non mi va di assistere a una scena del genere e le devo togliere quel dannato libro! Se le truppe arriveranno qui deve avere un argomento in meno per portarle dalla sua parte” dissi estraendo la pistola.
“Cosa credi di fare? C’è altra gente là dentro. Ti salteranno addosso e neanche te ne renderai conto”. Aveva ragione André. Lo sospettavo già prima che parlasse.
Gli strinsi il polso. “Dobbiamo mettere fine a tutto quel che possiamo far finire…” protestai.
Non obiettò. Mi sembrò strano. Non disse nulla. Non iniziò nemmeno col darmi ragione per dirmi poi che mi sbagliavo su tutta la linea. Mi fissava e disse solo sottovoce: “Aspetta solo che se ne vadano gli uomini dietro il separé e speriamo che non si accorgano di cosa sta facendo Jeanne là dietro. Se rimane sola col medico è fatta. Lui sa che se ci tradisce gli facciamo la pelle e non obietterà se facciamo irruzione”.
“Come?” credevo che avrebbe tentato di dissuadermi e di convincermi a fuggire. No, non lo avrebbe mai fatto. “Significa però che quei due andranno avanti ed io non ho nessuna voglia di vedere roba del genere per controllare se restano soli… e credo che a quelli altri là dentro non faccia nessun effetto quello che accade dietro il paravento… visto come vanno le cosa qua dentro”. Triste constatazione. Mi ero fatta l’idea che in quel posto succedesse proprio di tutto.
A questo punto non sapevamo cosa fare. Il pensiero di altri soldati nazisti in rotta verso quel posto mi metteva angoscia. Il pensiero che forse erano là intorno… che potevano essere passati… e i nostri aver avuto problemi. La vallata era stata macchiata dal sangue di scontri di potere che avevano poco a che fare con la guerra stessa: i disertori di Jeanne e Nicolas, i delinquenti estremisti che si spacciavano per maquisard, le vessazioni di un governo tutt’altro che fantoccio e dedito a rimpinzare i suoi adepti. Le nuove truppe naziste non sarebbero arrivate per mettere ordine, ma per dare una mano di onorabilità alla facciata a un esercito già sputtanato. E nella valle nulla sarebbe cambiato. Ne ero certa. Cercai di contenere dei colpi di tosse con la mano sulla bocca e mi strinsi nelle spalle. Mi rimasero in gola e per istinto mi controllai la mano. Niente. Respirai.
Sentii la sua mano sulla schiena. “Io non sento più parlare nessun altro” disse André, mentre io passavo in rassegna le mie angosce. “E se sono ancora lì, spero siano sufficientemente narcotizzati”.
Fece ruotare il tamburo della pistola. Uno sguardo di intesa. Mi si accese dentro una piccola fiamma e credo che nei miei occhi ci fosse la stessa luce che c’era nei suoi. Dopo tanto sorrisi. “Bene” dissi. E impugnai la pistola con due mani.
Il medico sembrava non resistere agli attacchi. E Jeanne, quando era in vena di comportarsi da stronza, si svegliava completamente, nonostante il cloroformio.
Mollai l’anta della porta che tenevo socchiusa. Bastò un attimo e la sua espressione divertita si trasformò in una maschera inconcludente. Forse per un attimo pensò che fosse un brutto sogno, la qual cosa mi divertì molto. Essere fuori da quella cella mi metteva un gran buonumore.
Il medico si chinò ed iniziò a tossire paonazzo.
“Che ci fai tu qui?” disse spaesata. Senza tentare di coprirsi.
“Tieni le mani in alto e non dire nulla” dissi con le braccia rigide e lasciando che il caricatore esalasse il suo “click” per farle ancora più paura.
“Chi è quello?” disse con gli occhi sbarrati, riferendosi ad André che, con una mano le puntava addosso la pistola e con l’altra tirava su per una manica il povero medico. “Chi l’ha fatto entrare?”.
“Non ti interessa e copriti” le intimai e feci segno con la pistola, pentita di averle detto di tenere le mani in alto.
“Fai schifo! Sei un mostro lurido! Sei brutta!” mi urlò contro senza saper che fare, con le mani che tremavano.
“Quanti giorni mi hai tenuta sotto terra?! Eh?!” le risposi, contenendo a stento la rabbia. La mia voce era un fiume di lava che scorreva sotto terra. “Quanti? Io ho perso il conto, lo sai? Si diventa molto brutti, sotto terra, questo te lo posso assicurare. Ti assicuro anche che è proprio il caso che non alzi la voce, altrimenti premo il grilletto”.
Si tirò addosso un lenzuolo. Non si muoveva con la solita disinvoltura. Probabilmente si chiedeva quando sarebbe finito quel sogno inopportuno.
“Se ora hai paura, prova ad immaginare cos’è che hai seminato per mesi in questi luoghi… tu non hai idea delle cose che hai lasciato che succedessero…”.
“Dannata bacchettona…”.
“Idiota! Non si tratta di scopare e giocare a cercare tesori… Non hai capito un accidente di quello che hai lasciato fare a questa gente! Hanno ucciso… hanno distrutto senza motivo…”.
Era pomeriggio. Sul tardi. C’era ancora luce. Nell’aria si udì un rumore strano. Come il grido d’un’aquila. Avrei parlato ancora, anche se quel suono era fuori posto, ma lo sguardo di André mi interruppe.
“Sbrighiamoci Oscar!”.
“Cosa?”. Non capivo.
“È il segnali degli altri. Le truppe tedesche all’ingresso della valle!”. Il grido attraversò di nuovo l’aria.
“Legala!” gli dissi, facendo segno verso Jeanne.
S’allontanò dal medico e le bloccò le mani. Gliele legò dietro la schiena. Jeanne non disse nulla. Rivolse uno sguardo da far accapponare la pelle al medico, fermo ed incustodito di fronte a lei. “Maledetto bastardo… tu eri con questi…” realizzò. Prima che continuasse le facemmo passare fra i denti un fazzoletto e lo legammo intorno alla testa. Non disse più nulla, ma non avrei dimenticato l’odio nel suo sguardo. E lei non avrebbe dimenticato il mio. Le legammo anche le caviglie. Il medico era paralizzato. In seguito ho sempre pensato che di me avesse molta più paura di quanta non credessi sul momento. Ed è un bel risultato per una che aveva agito e parlato per tutto il tempo trattenendo il tremore e ignorando la febbre.
Lasciammo Jeanne, legata come un salame sul suo letto a baldacchino e tirammo le tende.
“Tanto fra un po’ ti troveranno” disse André. Non so quanto questo le sarebbe stato di conforto o meno.
“Prima di andare mi prendo questo” dissi schizzando verso la scrivania. Recuperai il libro. Ancora chiuso. Lo dovevo portare via. E se Girodel lo aveva letto e poi aveva spacciato per riferito ai suoi antenati quello che c’era scritto? Il dubbio era quello. Che ci fosse scritto qualcosa che giustificasse le ricerche in quel posto. Ma quel mucchio di pagine sembrava tacere da secoli. Lo dovevo portare via. In fondo speravo che davvero nessuno, come aveva detto Jeanne, nemmeno il fabbro coi suoi ferri, fosse mai riusciti ad aprirlo.
E poi… io dovevo averlo quel libro.
Jeanne blaterò qualcosa di inafferrabile.
“Tranquilla. Cosa vuoi che facciano a una bella donna di razza ariana, gravida del figlio dovuto alla patria?” le dissi prima di andarmene.
Non mi spiego come l’intuito ci abbia guidati. L’ingresso era vuoto. La porta era aperta. Nulla di più facile passare da lì. Non ci fidammo: sgattaiolammo verso un’uscita secondaria che portava sul fianco della casa. Mentre, col cuore in gola, i gradini ci conducevano verso una porticina coi vetri dai rombi dipinti che con la loro luce coloravano l’ultima porzione di scala, sentimmo degli spari. Erano arrivati.
La porticina si spalancò sul giardino, di fronte agli alberi verso cui corremmo a perdifiato. Il rumori dei loro veicoli e il mio stesso respiro mi mordevano le orecchie. Gli alberi erano quasi vicini quando, al suono rabbioso di una voce che urlava in una lingua straniera, fui certa, più che mai, che non era finita: un uomo in uniforme ci rincorreva. Lo vidi arrancare sul pendio. Estrasse la pistola. Lo vide anche André. Ci lanciammo fra gli alberi, fra i cespugli che graffiavano le gambe, le braccia e i dorsi delle mani. Ma questo non avrebbe cambiato nulla.
Estrassi la pistola anch’io, ma mentre prendevo la mira vidi la canna della pistola nemica già pronta esplodere il colpo. Formulai un addio e premetti lo stesso il grilletto, certa del colpo che mi spettava. Sentii il rumore degli spari. Prima uno, poi l’altro. Ma quando caddi di peso per terrea sulla schiena, prendendo una botta che mi tolse il respiro per alcuni secondi, non ero ferita. Il peso caldo addosso era André. La paura non diminuì per questo: quando vidi i suoi occhi davanti ai miei temetti che avesse colpito lui.
Con una mano mi aveva protetto le testa, perché non la sbattessi per terra. “Stai bene?” mi chiese. Cercavo l’aria. Non riuscii a rispondere e lanciai un grido per avvertirlo che l’uomo si avvicinava, non demordeva. Me lo ricordo col viso bianco e due buchi come quelli dei teschi al posto degli occhi. Me lo ricordo senza bocca. Anche se so che non può essere stato così. Devono essere la paura e il tempo ad averne distorto l’immagine.
Fu un attimo: André prese la pistola dalla mia mano semichiusa, distesa inerte sull’erba e sugli strati di foglie morte negli anni. Chiusi gli occhi e sentii esplodere un altro colpo. Il rumore dello sparo mi irrigidì le ossa e i muscoli. Un grido e parole che non capivo. Ma quando André si fu alzato l’uomo, zoppicante e invasato, gli fu ancora addosso. Aprii gli occhi e vidi che si colpivano. Tentavo ancora di respirare e non riuscivo a muovermi. André lo spinse di peso, scivolando. Aveva perso la pistola. L’uomo barcollò e cadde, ma scattò subito in avanti con una velocità animale, senza pistola. Senza pistola, afferrò un ramo secco e contorto e iniziò a colpire senza respiro. Riuscii ad alzarmi, con le mani che tremavano. André tentò di allontanarsi, una, due volte sui gomiti, mentre la furia avanzava. Non vedevo la pistola. Dalla tenuta arrivavano spari. Grida e rumori di violenza davanti ai miei occhi. Li coprì un urlo che mi fece gelare il sangue. André si accasciò per terra, rannicchiandosi, colpito in volto. “L’occhio!” gridò. Non ragionai. Mi scagliai a mani nude contro quell’uomo con la faccia di morte. Ma prima, prima che lo potessi colpire o che lui colpisse me, il suono di un’esplosione lo fece inginocchiare e inchiodare per terra.
Mi gettai su André che si contorceva con una mano sul viso. Rivoli di sangue e terra impastata di foglie putrefatte. “Che ti ha fatto?! Che ti ha fatto?!” furono le uniche stupidaggini che urlai, perché speravo che non fosse vero quello che vedevo. Mi strinse la mano come in una tenaglia. Nocche sbiancate e fango nero. Era tutto vero. La macchia cremisi colava sul viso e sulle mani. “No!”urlai. “No!”. Tentai di sorreggergli il capo, ma era troppo pesante. Le mie braccia erano deboli e la vista soffocata dalle lacrime.
“Vai via… scappa…” mi gridò premendosi una mano sull’occhio, mentre con l’altra quasi spezzava la mia.
“Che dici?” feci, tirandolo su di peso con la forza della disperazione. Avrei pianto dopo, ora dovevamo solo fuggire da lì.
Ma chi aveva sparato? Mi voltai con gli occhi sbarrati mentre reggevo André a fatica. E vidi il medico con la pistola in mano. Rimandai lo stupore.
“Portiamolo via, prima che si dissangui” mi disse, avvicinandosi e reggendolo dall’altra parte. Annuii senza più parlare.
La fuga fu un turbinio di immagini: gli alberi, il peso di un corpo stremato dal dolore, che conteneva uno spasmo a ogni passo, il sangue, il fiato corto, i nervi tesi allo stremo, l’incubo dell’uomo dalle orbite nere, lo spasmodico guardarsi alle spalle; le nostre camionette, all’improvviso, volti che credevo non avrei rivisto, l’allarme.
Mi trovai a bordo, sballottata dalla guida pirata di Alain. Nell’agitazione totale stringevo André che tremava mentre il medico tentava di capirci qualcosa. Per quanto l’avessi maledetto e disprezzato ora ero in debito verso quell’uomo. Un debole nella media in fondo. Non un criminale. E dovevo essergli grata d’essersi macchiate le mani di sangue.
Che cosa orribile. Non c’era nessun tassello in quella storia che non avesse l’aspetto di un delirio.
“Tenetelo fermo!” chiese. Aprì la borsa e, dopo averlo esaminato ed essersi sporcati i polsini della camicia di rosso cupo, iniziò a medicarlo. Bernard mi aiutò in silenzio a tenerlo fermo, mentre sotto le mani del medico si inarcava e gridava per il dolore. Chiusi gli occhi per non vedere. L’ultima cosa che vidi fu una mano sporca di sangue che si tendeva con le dita contratte. Gli tenevo il capo pressato sul mio petto. E pregavo, pregavo che tutto finisse.
ЖЖЖ
Eravamo a miglia dalla valle ormai. Sfollati sempre più a sud e rifugiati presso uno dei Maquis con cui avevo avuto l’accortezza di curare i contatti. Anche gli ebrei che avevamo nascosto nella cripta del cimitero erano stati trasferiti in un luogo più sicuro. Ero molto fiera dei miei ragazzi.
Il medico ci aveva informato che per nessun motivo la fasciatura doveva esser rimossa altrimenti quell’occhio non avrebbe visto mai più. Guardai il buio davanti a me, fra le piante del bosco, poi guardai ancora le luci deboli del nuovo Maquis; un posto in cui, il giorno prima, sepolta viva, non avrei mai immaginato di trovarmi. Erano luci intense e allo stesso tempo sfocate dalla febbre. Raccolsi le forze e aggrappandomi ad un corrimano di legno tentai di rimettermi in piedi: avevo le gambe molli come fili di corda. Fra le palpebre strette le immagini si deformavano. Me ne ero andata là fuori per controllare l’ennesimo attacco di tosse e per piangere un po’ se possibile. I nervi avevano ceduto e si era rivelato molto chiaramente il mio pessimo stato di salute con una macchia scura nel palmo della mano.
“Ecco… è già iniziato” pensai. Osservai le gocce rosse, miste a saliva, che la notte mascherava di nero. Il pensiero volò nel buio e ne persi il senso.
Recuperata la calma sufficiente a stare in piedi, inspirai e rientrai nel rifugio, immerso in una luce oleosa e tenue.
André se ne stava supino, con gli occhi chiusi, sui cuscini stesi per terra. Mi inginocchiai e gli passai un dito sulle labbra pallide. Si distinguevano a stento dal colore cereo del viso. “Ehi…” gli dissi. L’occhio libero della fasciatura si aprì, lucido. Un debole sorriso. “Mi dispiace” dissi, posando la bocca sulla sua guancia. La risposta fu una carezza fra i capelli.
Come sempre nel Maquis non eravamo soli: altre persone ferite erano lì a farsi medicare, bambini facevano capricci, voci di donne indaffarate. In un caos che riempiva dei rumori di una strana famiglia la tristezza.
Quello che era successo l’avevo temuto da quando lo conoscevo. L’avevo visto passare tutto davanti ai miei occhi altre volte e la rabbia con cui avevo rigettato tutto ogni volta non era servita a proteggerlo. Lui mi aveva protetto e io no. Le sue labbra toccarono le mie e fui costretta a mettere da parte il processo a me stessa. Se ne allontanò con un piccolo lamento. L’occhio ferito gli faceva male appena si muoveva.
“Fatti vedere dal medico” mi disse.
“Che dici… sta’ buono ora. Non devi preoccuparti per me… Io sto bene…” protestai, presa alla sprovvista. Mentendo al meglio, nello stupore.
“Oscar… Non è un occhio in meno che può impedirmi di vedere quello che ti succede… hai la febbre… sei molto magra e hai una brutta tosse… ti prego… fatti controllare”.
“Sta’ tranquillo e riposa… ho solo preso un po’ di freddo e sono stanca”. La buttai sul ridere, ma non mi credette.
“Non stai bene… fatti vedere dal medico…” ripeté. Non sorridevo più.
“Dottor Laval…” chiamò.
“André!” lo rimproverai. Non aveva intenzione di limitarsi a contraddirmi. Io avevo paura di sentirmi dire che stavo veramente male e lui mi voleva mettere a tutti i costi faccia a faccia con la cosa. “Non voglio farmi visitare da quello!” sbottai, memore dei trascorsi nella tenuta Beaumarché.
“È l’unico medico che abbiamo… non si permetterà di fare lo stupido. È un brav’uomo… doveva capire da che parte stare. Ci sono io… di me ti fidi?”.
Mi rassegnai. E come dire di no? E anche se lo avessi fatto avrebbe fatto finta di non sentire.
ЖЖЖ
Era mattina. Ordinavo quel nulla che avevo in una borsa cucita con dei teli di sacco. Non erano che poche cose prestate: i miei pochi averi erano rimasti al Maquis di St. Michel.
“Sei arrabbiata?” mi chiese Diane. Mi era accanto e seguiva i miei movimenti. Mi fermai a guardarla con la borsa fra le mani.
“Non lo so… non lo so…” cantilenai. “Sia chiaro: lo faccio solo per André” dissi e mi voltai a raccogliere una vecchia coperta sfilata. Un altro colpo di tosse. Una serie di colpi di tosse. La coperta sfilata mi cadde di mano. Diane si chinò per raccoglierla. “Lascia… lascia…” dissi, bloccandola col braccio. Non avevo un tono rassicurante, confesso.
Lo so che quello che pensavo era irragionevole… Che, visto lo stato delle cose, accettare di andarsene non significava mollare, ma scegliere di vivere.
Era arrivata la notizia strepitosa che al nord, in Normandia, il 6 giugno, erano sbarcati gli alleati. Erano iniziati gli scontri diretti con la Wermarcht ed io, che ardevo dal desiderio di fare qualcosa per la Francia, ero a chilometri e chilometri da lì e stavo per abbandonare anche la lotta clandestina. Per quanto non mi reggessi in piedi non potevo perdonarmelo. Lo facevo solo per il mio André.
“Avete contratto la tisi. E promette solo di peggiorare se continuate a trascurarla” aveva detto il dottor Laval.
“Non è che un raffreddore un po’ più grave…” avevo risposto richiudendomi fino all’ultimo bottone la camicetta.
“Non è così… avete quasi quaranta di febbre ve ne siete accorta? Siete debilitata fin quasi alle ossa e questo non vi aiuterà. Una malattia del genere, non curata, può portare a cose peggiori…”.
“Vale a dire?” chiesi scostante, come se la cosa non potesse interessarmi, ma me ne informassi per fare conversazione.
“Prima l’insufficienza polmonare… poi quella cardiaca…”.
Ci fu un lungo silenzio durante il quale guardai altrove e cessai di tormentare il bottone del colletto.
“Poi la morte”.
“La malattia che fa sputare sangue?”. Inutile chiedere se conoscevo la risposta.
“Sì. La malattia che fa sputare sangue. Per voi è ancora all’inizio. A parte oggi quante altre volte vi è successo?”.
La domanda cadde nel nulla. Per tutto il tempo evitai di guardare André.
“Un clima salubre… del riposo… sarebbero una buona cura. La cosa migliore sarebbe una cura a base di penicillina, ma siamo in guerra… quindi… Se la cosa degenerasse potrebbe rendersi necessario un intervento chirurgico”.
Forse lo facevo anche senza ammettere, per un insensato timore di vigliaccheria, che volevo vivere.
Scorsi Alain dirigersi verso la zona del rifugio in cui dormiva André.
“Di’ a tuo marito che aiuterò io André a salire sul furgoncino” dissi perentoria a Diane.
“Ma Oscar…” protestò. Sapevo bene che era lì per aiutarmi, ma non volevo quell’aiuto.
“Smettetela… non siamo ancora morti… né io né lui… e ce la sappiamo cavare senza il vostro aiuto, e senza l’aiuto di chi per voi” aggiunsi pensando alla nostra destinazione. Alain e Bernard già stringevano accordi d’azione con gli altri gruppi. Noi ci ritiravamo nell’ombra. Sì: perché eravamo loro di peso ormai.
Diane mi guardò mesta e so che a mia discolpa posso addurre, più che il senso di inadeguatezza, il delirio della febbre.
Varcai la porta da sola col mio misero bagaglio. Però oltre la porta le ginocchia cedettero senza controllo e mi trovai col sedere per terra, al freddo del marmo e un senso di fallimento totale.
Sentii Diane che in silenzio mi afferrava un braccio per aiutarmi a rimettermi in piedi. Certo… sarebbe stato tutto più facile se il mondo attorno a me avesse deciso di piantarla di girare. Alzai lo sguardo e sospirai: la beffa maggiore è stare a pezzi quando il sole splende da accecare, la natura esplode e il caldo accarezza la pelle.
“Consiglio anche che il contatto con la malata sia minimizzato” sentenziò Laval. “Il signor Grandier è debilitato dalla perdita di sangue e da decimi di febbre. Non credo che sia il caso di esporlo al contagio. Sarà meglio che vi vediate il meno possibile. Queste malattie…”.
“Questo no… non posso garantirglielo…” disse André appoggiato alla mia spalla. Laval non fiatò. Io non parlai, ma il mio sguardo fu eloquente a giudicare dal commento muto di Alain e Bernard.
Quando partimmo, al calare delle ombre serali, al senso di colpa per aver trascinato in quella storia André senza riuscire a proteggerlo, si era aggiunta la demotivazione dovuta al fatto di essere una specie di appestata.
Quando il furgoncino si mosse il disorientamento mi impedì di comunicare affetto e speranza alle persone che mi erano state vicino. Li vidi scomparire, senza una parola, dietro i vetri. Alain, Diane, Bernard. Gli altri. Il dottore Laval ringraziò André. Non indagai. “Avete scelto da solo alla fine” disse André.
Ci eravamo allontanati da un po’ ed io già rimpiangevo gli addii muti che avevo elargito ai miei compagni di strada. Quella poteva essere l’ultima volta che li vedevo: stavo realizzando lentamente la mia ennesima colpa.
All’inizio non seppi resistere alle labbra calde che premevano sulle mie, ma lo fermai prima che mi costringesse ad aprire la bocca.
“Non fare lo stupido... André… André per favore!” protestai senza molta forza, tentando di bloccargli le mani che mi avrebbero convinta a fare altro. “Non fare lo stupido!” dissi ancora, pensando alle parole del medico e piantandogli una mano sulla bocca. Aveva ancora il viso molto pallido: il colore delle labbra era spento. Da sotto la fasciatura si intuiva la pelle macchiata di sangue indurito. “Quell’idiota di medico non ti ha fatto cambiare la benda” commentai, incollerita. Quell’uomo non mi sarebbe mai stato simpatico, nonostante ammettessi di doverlo ringraziare per aver salvato André.
“Credi che ce ne fossero? “ mi rispose.
Rimasi perplessa il tempo necessario perché provasse a baciarmi di nuovo e la sua lingua sfiorasse la mia dandomi una scossa. “No… no…” protestai allontanandolo, però cedetti quando, a un lamento soffocato, mi accorsi che ogni movimento gli faceva male. Mi diede ascolto e mi abbracciò posandomi la testa sul petto. Lo cinsi anch’io.
“Sappi… che così mi fai molto male…” disse senza spostarsi da quella posizione.
“Non essere scemo e ragiona. Devo pur proteggere in qualche modo il mio uomo” dissi col viso nei suoi capelli.
pubblicazione sul sito Little Corner dell'aprile 2004
Continua...
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