Rumore d'ali
(De insania)
Parte XV
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“Non ne so nulla…”.
“Sai che è di Cagliostro”.
“So solo questo. E che chi cerca di aprirlo avrà solo sfortuna… in genere muore”.
“E secondo me sai anche il resto!”.
“Non capisco di cosa parli”.
“Non fare la stronza con me!” gridò all’improvviso afferrandomi per il bavero. “Ti credi superiore a me! Ti ho sempre detestata per questo… e ti detesto!” disse stringendo le palpebre sugli occhi vuoti.
Non risposi.
“Mon amour… sta’ calma… nel tuo stato…” disse Nicolas, ma venne azzittito con un’occhiata.
“Questo maledetto libro…” tuonò di nuovo Jeanne, scagliandolo sul tavolo. “Stramaledetto! Voglio sapere chi è riuscito ad aprirlo, dannazione. Quel dannato Cagliostro… che bruci all’inferno… neanche i fabbri riescono ad aprire questo lucchetto di merda!”. Il libro piombò di nuovo sul tavolo ed urtò il bicchiere rovesciando il liquore. Jeanne lasciò andare un verso, un ringhio, tenendosi la pancia. Mi spaventai. Non era nulla: lo faceva solo perché non aveva quel che voleva e per il troppo alcool nelle vene.
“Quella mammoletta di Girodel… un oggetto del genere avevano, lui e la sua bastardissima famiglia…” disse versandosi ancora da bere con mano tremante. Per assurdo scambiai un’occhiata sconsolata con Nicolas, vestito da superuomo e impotente a quei capricci, in un angolo della stanza.
“Se hanno un tesoro così immenso… generazioni di stimabili, si fa per dire se sono come lui, francesi… perché dovrebbe averlo un mezzo sangue, figlio di un’ebrea? Jeanne Valois ne ha bisogno. Sa come usarlo” disse e con un sorriso malizioso guardò il suo uomo che abbozzava.
Si portò il bicchiere alle labbra. Rivolsi un pensiero malevolo a tutti quelli che in passato avessero insinuato che per essere una donna bevevo troppo.
Ritornai su Jeanne con gli occhi lucidi e la bocca arrossata. Le cose che diceva non mi quadravano. Cosa c’entrava la famiglia di Girodel? Lui aveva comprato quel libro sotto gli occhi miei e di André. Forse sapeva di quel libro meno di quello che sapevamo noi. Non ero certa che avesse ascoltato per intero il racconto inquietante dell’antiquario prima di comprarlo. Quello che ricordavo era che lo aveva preso solo per fare un affronto a me; per punirmi del fatto che in redazione non prestassi rispetto a lui che era il direttore.
“Ma cosa dici? Ma quale tesoro dei Girodel… non esiste… ” iniziai ad obiettare. La guardavo con pietà e me ne rendevo conto, io con le mani legate e il capo dolorante.
“Zitta. Zitta! Lo so che lo sai e che mi vuoi depistare. I suoi parenti porci, nobili, avevano sepolto in questo distretto di merda i loro averi: collane… diamanti… oro… oro che gli antenati avevano portato dalle Americhe, capisci? Quell’infame Cagliostro sapeva tutto, sapeva tutto! Sapeva che sarebbe scoppiata la Rivoluzione nel Settecento e gli fece la pianta del nascondiglio… ed io me lo sono guadagnato e lo avrò!”.
“Allora non so veramente di cosa parli! Girodel ha comprato questo libro sotto i miei occhi… solo per toglierlo a me…” la interruppi di con forza.
“Tu sai! Tu sai! Non mi giochi!” gridò innervosita oltre ogni limite. Ogni sua reazione era eccessiva. Mi chiesi cosa fosse più tossico: l’alcool, la presunzione? Il potere.
“Mi ha detto che mi amava e che mi avrebbe svelato dov’era. Non era mai chiaro. Una volta diceva nel cimitero, un’altra in una vecchia casa dei coloni, l’altra nella tenuta di amici di famiglia…”. Ecco cosa cercava questa banda di cani sciolti in divisa in giro per le proprietà altrui.
“Poi mi sono stufata. Gli ho dato il benservito che meritava ed ho preso questo in cambio del mio silenzio sul suo sangue ebreo” disse brandendo il libro. “Ma dannazione… è stregato… questo ferro rompe le lime dei fabbri… e tu sei una disgraziata!” chiosò senza nesso alla fine. “Chissà cosa sai… e ti ha mandata lui, lo stupido, per fregarmi!”.
Mi era sembrata scostante, antipatica, disperata in passato. Non avrei mai creduto che potesse diventare un’arpia.
Non si convinse del fatto che io fossi all’oscuro di tutto. Era certa che le avrei potuto dire quel che non sapeva e che non lo facessi per una macchinazione ai suoi danni. Come se una macchinazione ai suoi danni, con la scia di misfatti e di sangue che si era trascinata dietro da Parigi, non fosse plausibile. Lei, la prostituta che si era guadagnata ogni cosa che esistesse al mondo, aspettava di riscuotere quel che le spettava; e sosteneva che quella pancia bastasse a dare rispettabilità.
Le favole raccontate da Victor per ammaliarla erano cadute su un terreno che generava mostri; pensai questo mentre tornavo al buio e al gelo della cella che furono per qualche attimo un sollievo lontano dai suoi discorsi insensati. Solo così tornavano i conti.
Dopo i miei dolori, i miei rimorsi, i miei rimpianti si fecero pesanti come quel gelo che bloccava le dita e la privazione di luce. Mente e corpo si piegavano.
ЖЖЖ
Fra primavera ed estate l’aria si faceva calda. Il sole brillava meno timido e scaldava fino al pomeriggio lo stretto abitacolo del sottoscala in casa Dagoût. La ricetrasmittente ronzava stanca su e giù per le frequenze. L’aria era rarefatta. La polvere nell’aria, lenta e incendiata dal sole, dava un’illusione di quiete.
Bernard era seduto per terra, braccia conserte sulle ginocchia flesse. André con la cuffia premuta sulle orecchie sedeva su uno sgabello. Deluso ma testardo.
Alain di ritorno dal Maquis, in cui strisciava l’inquietudine, si fermò sulla porta ad osservarli. Erano stanchi morti. Si erano installati lì dal giorno prima: André voleva cogliere notizie che lo aiutassero ad entrare nella tenuta Beaumarché. Era preso dalla smania e da una tensione che gli irrigidiva le espressioni del viso. Bernard era rimasto per aiutarlo in caso parlassero in tedesco. Alain aveva la sensazione che stesse realizzando un senso di colpevolezza che lo portava ad esser più presente. Se l’abbattimento che lo aveva portato a ridursi ad un nulla fosse cessato sarebbe stato un bene per tutti, ma soprattutto per lui stesso. Aveva avuto l’impressione che negli ultimi giorni di sobrietà stentasse a riconoscersi.
“Come vanno le cose?” chiese.
“Sei tu…” disse sobbalzando con un sospiro André. “Male… non abbiamo intercettato nulla. Nulla che li interessi. Non comunicano con nessuno. Sembrano totalmente fuori dal giro”. Si tolse le cuffie e appoggiò i gomiti sul tavolo. “Era assolutamente inutile fare tutto quello che abbiamo fatto”. Non aveva altre parole. Bernard e Alain si guardarono.
“Sei troppo impaziente… sei in ascolto da un solo giorno…”.
“Cosa le possono fare in un giorno?” disse all’improvviso alzando il tono della voce. Aveva uno sguardo quasi cattivo.
Alain non seppe rispondere. Aveva tentato di scacciare l’interrogativo per tutto il tempo.
“Claude… Claude credo che sia morto” disse André rimettendosi le cuffie.
Il caldo si faceva soffocante.
“Ci sono delle notizie interessanti. Mi auguro vogliate prestarmi ascolto” disse Dagoût il giorno dopo, quando il sole era basso sull’orizzonte
“Dalla tenuta Beaumarché hanno mandato a chiamare il medico ieri…”. André lo seguì come un affamato.
“Il medico amico loro?” chiese Alain.
“Sì. Il medico di St. Michel. Pare che sia andato lì per visitare una donna incinta”.
Piombò un silenzio pesantissimo.
“Pare che sia tornato malconcio. Fortuna che il figlio lo aveva accompagnato, altrimenti avrebbe avuto qualche problema a tornare. Un incidente piuttosto singolare… a quel che pare”.
“Pare… non possiamo fare affidamento su quello che pare” disse Alain, scuotendo il capo.
André non parlava.
“Non credo che sia possibile che sia lei…” disse, sbloccando l’imbarazzo.
“Vuol dire che non…” accennò a domandare Bernard, fermato da tre sguardi ostili.
“Non credo di dover delle spiegazioni a te su quello che facevamo o non facevamo” fu la risposta. Stranamente non bellicosa.
“Se ci fosse un'altra donna lì?” si chiese soprappensiero. “Quadrerebbe quella storia delle calze di seta”.
Gli altri si guardarono come per comunicarsi che André si stava illudendo di brutto. Fili così microscopici, anche se si legavano, non avrebbero salvato quella che sembra la trama.
“Voglio capire cosa è successo al medico” continuò a chiedersi, ignorando gli sguardi degli altri.
“Si dice… si mormora…” disse Alain ironico, prevenendo Dagoût.
“Dovremo chiederglielo…” concluse André.
“Vi avverto” continuò con la sua espressione marziale Dagoût “che dovremmo chiedergli il motivo per cui ieri sera è tornato a casa con le parti basse doloranti. I clienti della mia bottega oggi hanno trovato molto divertente questa storia”.
Allora sì che il mutismo fu totale.
“Il dottor Lavalle?” dissero degli uomini vestiti di nero e col viso coperto sull’uscio di casa, alla fine del vialetto sotto gli abeti, quando la sera diventava notte.
“Sì…” disse l’uomo con voce e gambe che tremavano. Quella sarebbe stata la settimana peggiore delle sua vita si disse. Se fosse sopravvissuto… si disse ancora.
“Prego…” disse cortesemente uno dei tre aprendo, come se nulla fosse, la porta di casa sua ed invitandolo ad accomodarsi come un ospite. Mentalmente il dottor Lavalle tentò di recitare un rosario, peccato che le parole gli fossero sempre state ignote.
“Avremmo urgenza di avere da voi, dottore, alcune semplici informazioni” disse uno dei tre – due erano alti e magri, il terzo molto più alto e massiccio. Il medico, col suo metro e sessanta, era fermo sul bordo del divano ed aveva anche un certo timore di deglutire. Fece un semplice cenno con gli occhi. L’uomo che battezzò “uno dei due più piccoli” continuò ad esporre cortesemente la questione.
“In paese ci sono molti pettegolezzi… dovreste chiarirmi le idee su una questione che vi riguarda…”.
Il dottore non aveva idea di cosa intendesse, anche se sospettava dovesse essere legato a dolorosi fatti recenti. In quel momento però, in effetti, di idee non ne aveva molte. Dopo i nazisti gli uomini neri…
“Vorrei che mi raccontaste cosa è successo ieri durante la vostra visita alla tenuta Beaumarché e dell’incidente che, si dice, vi sia capitato”.
Glielo aveva detto sua moglie, al dottore, che avere a che fare con Pétain e quanto di più vicino a lui, tipo gli uomini con le svastiche, non era quella bella idea che pareva a prima vista. Prima di rispondere era d’uopo tentare di deglutire. Si dimenticò di questa semplice sequenza delle azioni e le prime parole che pronuncio somigliarono molto a un gracidio: “Fui… fui chiamato da un sergente nel pomeriggio… la signora non stava bene. Fui chiamato io perché mi avevano contattato altre volte per altri problemi… aveva solo un malessere passeggero… non fa proprio una vita canonica per una donna madame…. si strapazza… m’è parsa molto agitata…” diceva il medico. Alain e Bernard si guardavano sconsolati, André si sforzava di non fare una piega ma, nonostante le sue certezze, stava iniziando a sudare.
“E cose così possono capitare… soprattutto se si beve… così poi…” aggiunse il medico. Bernard e Alain si sentirono perduti. André fece un calcolo mentale: non l’avevano mica fatto tante volte, soprattutto da quando erano al Maquis, con tutta quella gente che spuntava all’improvviso, e poi era sicuro di essere stato attento. Si sentì disperato e strano.
“E si fuma in quel modo scriteriato…”.
“Fuma?” chiese con una voce sollevata André.
“E sì eheh… al sesto mese!” fece il medico annuendo, come per dire “Visto che roba!”.
“Dottor Lavalle… mi descrivete questa donna?” chiese André con voce rilassata, sedendosi di fronte a lui. Nonostante eventuali falle nella contraccezione, se fosse stata incinta se ne sarebbe accorto ad occhio nudo da solo.
“Bella… bella… bella donna eh!” fece il dottore compiaciuto. Mica quella stronza racchia di sua moglie che se ne era andata di casa per incolmabili divergenze caratteriali! “Bella… alta, capelli corvini lunghi… occhi verdi… molto forte m’è sembrata… molto!” concluse il dottore sistemandosi sulla punta del divano.
“Vuol dire che non era bionda?” chiese l’altro uomo “piccolo”. “Se ha detto che era bruna non era bionda!” disse quello grande.
“La bionda…” sfuggì al dottore fra i denti con rantolo di dolore.
“L’avete vista?” chiese André che iniziava a tremare. “Come stava?”.
“Lei bene…” disse con un lampo d’odio il medico, sentendo che stava entrando in confidenza con quegli strani tipi.
“Dovete dirmi tutto!” gli gridò in viso André, prendendolo per il bavero. Il dottore ripiombò nel suo stato di precarietà emotiva, mentre le lunghe dita dell’uomo ghermivano il suo vestiario.
“La signora… la signora comanda lì… era molto nervosa… per il bambino… aveva anche bevuto però e voleva divertirsi… mi pagano… mi pagano bene e allora… e poi anche se non mi pagano…” Lasciò perdere: avrebbe voluto dire che per paura avrebbe fatto quello che gli chiedevano. “Mi ha chiesto se potevo aiutarla a togliersi una curiosità…”. Lui parlava ma l’uomo non allentava la presa. Non riusciva più a vedere gli altri due.
“Mi chiese se potevo… se potevo visitare una persona… una donna… solo questo” disse concludendo bruscamente il racconto, come se avesse paura di dire il resto. Si spaventò ancora di più quando l’uomo lo scosse. “Parla!” gli gridò. Lui non voleva parlare. Strinse le labbra. Ma uno di loro estrasse una pistola, argomento che gli sciolse la lingua come neve al sole.
“Mi disse di visitarla… la portarono lì e mi chiese di visitarla, voleva farsi due risate… voleva…” si blocco un attimo, ma nello sguardo dell’uomo che aveva di fronte gli sembro di intravedere la sua lapide con le scritte “Ludovique Lavalle “ * 2-2-1901 + 31-5-1944 ”. Temendo che fosse la premonizione di un futuro prossimo continuò: “Voleva che la visitassi davanti a lei perché… per sapere se era… illibata”.
Gli uomini non si mossero. Ma lui capì di aver riferito qualcosa di molto grave.
“Io li ammazzo…” disse André alzandosi in piedi e spingendo il medico che cadde a corpo morto sul divano. “Li ammazzo”. Non era rabbioso: era tranquillo e avrebbe fatto quello che diceva.
“Ma che cavolo di storia ci stai raccontando…” disse incredulo uno degli uomini neri.
“La signora ha detto che voleva divertirsi… che le voleva bene e temeva che fosse arrivata alla sua età senza… ehm… che avrebbe fatto divertire la ragazza con uno dei suoi soldati… che voleva fare beneficenza ha detto… che voleva che capisse un po’ di cose della vita… non potevo dire no! Capite!” gridò vedendoli fermi come statue e gli sembrò che gli occhi avessero una stana luce rossa. Maledisse il giorno che era andato a cinema a vedere Nosferatu. Questa scena gli sembrò di molto peggiore. Provò l’impulso di farsela addosso fra mutande e calzoni.
L’attimo di silenzio si protraeva. “Va’ avanti” disse l’uomo di fronte a lui.
“Quella aveva le mani legate… ma faceva un casino da non credere, gridava parolacce e cose oscene… avrei dubitato che fosse una donna… e si dimenava anche se la tenevano… però la signora ha detto che se non lo facevo mandava me col soldato… ed io… io non potevo…” continuò a dire ed aveva l’aria ancora più sconvolta, così sconvolta che si spaventarono.
“Che cosa le hai fatto?” disse una voce sorda. Sembrava che lo invitasse a bruciare all’inferno. Se avesse potuto lo avrebbe preso e lo avrebbe portato per mano, all’inferno.
Il dottore si mise quasi a piangere. Si disorientarono. Uno così non provava pietà per le vittime, al massimo compiangeva se stesso.
“I piedi dovevano legarle…” confessò. Cominciarono a realizzare, sulla scorta delle informazioni che aveva fornito loro Dagoût, che si fosse svolto un certo tipo di azione… I contorni erano un po’ sfocati, ma la speranza glieli faceva apparire credibili. “Avanti!” disse una delle loro voci.
“Quando mi sono avvicinato… m’ha dato un calcio tale che ho creduto che sarei morto dal dolore” disse l’uomo contrito e recitò mentalmente un requiescant dalle parole improbabili per i suoi gioielli duramente provati.
“Lì? Un calcio lì? Nei paesi bassi?” chiese qualcuno. Il dottore non sopportava di dover andare oltre ed annuire a quella risposta era un’onta che non avrebbe mai lavato del tutto. Ancora lo sentiva quel dolore tagliarlo in due… mentre il mondo gli entrava negli occhi spalancati, la signora lo guardava incredula con una mano sulla pancia e la vociaccia della bionda taceva per un attimo.
“Se vi preoccupate… non preoccupatevi…” sbottò indispettito: erano i degni compari di quella vipera e non si curavano del suo immane dolore e dell’incommensurabile vergogna, nonché della preoccupazione costante per il suo futuro… “Non credo che nessuno di quei soldati vorrà mai avvicinarsi a quella donna!”
“Poi che è successo? Non hai mica finito” gli venne chiesto ancora. Perentoriamente.
“Ma io ero lì che mi tenevo i testicoli…”
“Che me ne importa! Saltati questo particolare se non vuoi che ti comprometta tutto quello che ti è rimasto. Cos’altro è successo?”. Questa poi!…
“Ma io ero lì a terra…”.
“Guarda che non scherzo!” disse l’uomo con due occhi calmi da far paura.
“Quando ho ricominciato a sentire qualcosa… quella strega stava gridando alla signora che lei non avrebbe mai detto nulla… mai nulla… ma non ero in grado di capire… maledetta strega! E poi non l’ho più vista. La signora rideva, ma era molto arrabbiata… cioè, anche se rideva, si vedeva che per me era preoccupata…!” Povero illuso. “Ma mi è sembrato anche che si stesse divertendo…” concluse ingarbugliandosi le idee da solo.
“Chi è questa donna? Come si chiama?”.
“Non lo so. La chiamano la signora”.
ЖЖЖ
“Notizie… notizie! Hanno parlato… li ho sentiti… cioè no. Non erano proprio loro, ma erano tedeschi. Poi per la verità ho sentito anche dei francesi e non credevo alle mie orecchie! Ma forse devo andare con un po’ d’ordine…”. Bernard era preso dall’aver recuperato un minimo di controllo della situazione.
“Cosa vuol dire non erano loro?” gli chiese André. Aveva modi che tradivano un fastidio contenuto per ogni cosa. I lineamenti fissi e gli occhi grandi, pensò Bernard, che si chiudevano e riaprivano con fatica.
“Erano tedeschi di un altro comando… dicevano che nella valle, qui dove siamo noi, qualcosa si ‘muove male’”.
“Che significa?” gli chiese ancora fissandolo. Gli occhi gli sembrarono troppo chiari rispetto al solito.
“Non sono molto bravo… non riesco a trovare le parole corrispondenti… insomma: qui nella valle c’è qualcosa che a loro non va bene. Le cose non vanno come volevano… Qualcuno si è dato al lassismo e tutto è andato una merda rispetto a i loro piani… In questo senso. Ce l’avranno con quelli della tenuta Beaumarché? è un’ipotesi…”.
“Uhm…” annuì André senza scomporsi, senza guardare in un punto preciso. “Io e lei ce l’aspettavamo” pensò ricordando un discorso fatto tempo addietro in cima alla collina.
Bernard scambiò uno sguardo fugace e disorientato con Alain. Avevano paura di non capirlo.
“Loro non parlano con nessuno…” lo udirono dire soprappensiero. “Mi raccomando, anche se non sono loro, sta’ attento: possono servirci. Tienili d’occhio questi”.
“Li tengo d’orecchio…” aggiunse molto spiritosamente Bernard. André neanche se ne accorse e sparì in cima alle scale.
“Sei fortunato” commentò Alain. “Non ti ha sentito”.
“Ne sono consapevole” chiuse Bernard e tornò ad armeggiare con le manopole delle frequenze.
È sempre necessario il tempo per buttarsi via. Specie di fronte ai tramonti estivi nascosti dagli alberi. Specie se sei solo. Lo pensò estraendo un plico di fogli da una vecchia sacca. Una matita minuscola, temperata da entrambe le parti rotolò per terra. La rivide mentre china con quella matita fra le dita lunghe e affusolate scarabocchiava fra quelle vecchie carte, completamente ricoperte di appunti su strategie, contatti, osservazioni. Lì c’era tutto il lavoro che avevano fatto perché il Maquis di St. Michel non fosse più una pagliacciata. Perché non fosse utile solo a produrre nuovi morti. Era assurdo che ci fossero quegli oggetti e che non ci fosse lei: la cosa più importante. L’unico pensiero costante mascherato, da anni, da altri pensieri.
Sì. Buttarsi via e avere un minuto fuori controllo in cui finalmente ogni pensiero collaterale potesse inchiodarsi alla solita ferita. Non c’era scampo. A cosa servivano tutte quelle parole scritte? Soluzioni non ce n’erano fra tutte quelle tracce di matita. Solo la grafia. Un “André non rompere!” annotato sul bordo di una pagina.
La sacca si afflosciò sul pavimento e un astuccio rotolò sulla pietra. Lo aprì e si mise a ridere. Gli venne anche da piangere. “Che te ne fai di un rossetto nella foresta… tu che nemmeno lo usi?”. Lo richiuse e lo nascose nel palmo della mano.
“Se ti hanno toccata li ammazzo”.
Faceva caldo, i rami erano immobili e lui quella frase l’aveva pronunciata e pensata mille volte. Le foglie si sfocarono attraverso le lacrime e non le vide più. Riaprì l’astuccio. Tracciò una linea rossa sul palmo della mano e rimase fermo a guardarla. Gridava vendetta.
Al pian terreno i ragazzi parlavano sottovoce e si udivano rumori leggeri.
“Ti porto via…”.
Le intercettazioni svelavano che presto una nutrita pattuglia nazista avrebbe rimesso ordine nella valle. Sarebbero entrati là dentro e per Oscar non sarebbe stato un bene. C’era ancora un po’ di tempo però: avevano come priorità scovare dei maquisard nei paesi a nord di St. Michel. André ne fu quasi felice: quei maquisard avevano sterminato gente innocente col pretesto di presunti legami coi funzionari del governo. Avevano saccheggiato. Si erano scoperti in questo modo infame. E la storia si ripete: dietro la causa, dietro il vessillo dell’ideologia, quello che è marcio continua a imputridire e a rilasciare sangue gratuito.
Alain era passato da lì. Glielo aveva confermato. Sulla soglia di una casa aveva visto il pavimento rosso. Ed aveva avuto la sensazione che, allontanandosi, quel colore non andasse più via dalle suole delle scarpe. Oscar non si era mai fidata di quegli uomini. Aveva ignorato le loro proposte nel gioco delle alleanze. Fra gli appunti aveva scritto “sporchi”.
Ma quando sarebbe toccato a loro e quando ai cani sciolti della tenuta Beaumerché? Le loro scelte dipendevano da quelle dei nazisti. Che beffa.
La fine di maggio sottolineava la debolezza della Wermacht: non si poteva negare, ma era una misera consolazione. I salvatori, gli alleati, avevano solcato il cielo di Francia. Seicento morti a Lione, trecento a Nizza, ottocento a St. Etienne, trecento circa a Chambéry, ottocento circa a Amiens, più di mille a Marsiglia, più di trecento ad Avignone, più di duecento nella regione parigina. Circa. In due giorni. Erano già passati il ventisei e il ventotto maggio. Tutta la Francia. Non fa differenza essere sotto l’influenza diretta o meno delle svastiche. Le soluzioni sono sempre le stesse. Non prescindono mai da bombe e pallottole. E nessuno ne immagina di nuove. Perché forse non si può. La prima violenza innesca una catena e soluzioni non ce ne sono mai.
Il tempo scorreva. I minuti si accavallavano l’uno sull’altro. Il giorno se ne andava di nuovo. Domani sarebbe stato lo stesso uomo di oggi con un giorno in più. Più adirato, più deluso e più solo. Così accecato dalla paura da non vedere più la strada. Così egoista da non preoccuparsi d’altro.
Un modo… Una strada…
Un tempo avrebbe cercato di alterare la coscienza per illudersi di soffrire di meno. Avrebbe bevuto e sarebbe stato peggio. Ma lo avrebbe desiderato ancora spegnersi con un po’ d’alcool… per non capire… per cancellare… pensò stringendo le braccia attorno alle ginocchia.
Alzò il viso. Non capire. Cancellare per un attimo. Questo serviva. Se lo ripeté. Sì… ma non a lui…
La strada…
Si alzò dal pavimento e decise che doveva cercare il medico. Era la carta da giocare.
ЖЖЖ
“Secondo te bruceremo all’inferno per questo?” chiese la voce ironica di Alain da dietro il bavaglio, perso nel nero di una notte calda a scura come pece in pentola.
André finse di pensarci su. Posò la piccola tanica vuota per terra, sull’erba dove non fece alcun rumore. “No. Non credo proprio…” rispose. Presero le piccole taniche vuote e si allontanarono verso il fitto della boscaglia.
“Io ci sto già all’inferno… così” aggiunse quando furono sotto gli alberi e non poterono quasi distinguersi dal buio nelle uniformi nere. Non gli sembrava avesse più senso andarsene per il mondo da solo. Si voltò e distinse sul prato, fuori dal bosco, il pozzo da cui si erano allontanati. “Speriamo…”. “Che serva” avrebbe voluto aggiungere, ma le due parole gli rimasero in testa. Rimbombavano così forte che aveva la sensazione che le potesse sentire anche Alain.
ЖЖЖ
Avevo la sensazione di spegnermi. Mi spegnevo in un sonno strano.
Mi avevano slegato i polsi. Quando entravano gli bastava puntarmi il fucile addosso. Ogni tanto portavano del cibo. Non lo avrebbe mangiato neanche un animale. Io lo mangiavo a volte… Li ho sempre guardati negli occhi. Anche se avevo paura, dopo quel tiro che mi aveva giocato Jeanne. Ma nessuno osò avvicinarsi. Per paura, ma lo escludo. O perché Jeanne, che giocava al gatto col topo, stranamente ora era nella fase in cui mi proteggeva. Già… le avevo fatto credere di sapere. Le conveniva. E voleva, in un giochetto mentale perverso, che la sepolta viva sviluppasse una sorta di riconoscenza nei suoi confronti. Era come vivere in equilibrio precario su un abisso. Il mio destino sarebbe mutato col mutare del suo umore, del suo grado di ubriachezza, dell’effetto dei suoi ormoni.
Ma qualcosa di strano stava succedendo là dentro; qualcosa che iniziava a spossarmi più del previsto: da troppi giorni mi prelevavano per sottopormi al rituale dei suoi interrogatori.
Io li guardavo negli occhi per orgoglio. Perché è soprattutto nella merda che si tiene alta la testa.
Il cibo era poco e schifoso e tentavo di riempirmi d’acqua.
Il sonno mi inchiodava gli occhi: temevo che fosse la morte, ma era un modo per riposare. L’angoscia si spegneva e il mio corpo si faceva pesante e lento, incurante del pavimento gelato. Una volta mi venne un dubbio, prima di cedere: dov’era che mettevano del veleno. Nel cibo o nell’acqua?
Sul gelo della pietra, supina, me ne andai dalla realtà; come se uno strano spirito fatto di sonno ballasse nel buio sulle ossa della mia fronte.
Al risveglio la luce era accecante. Batteva su un soffitto d’oro e mi cadeva negli occhi come una cascata. Gli occhi bruciavano. Lentamente distinsi il soffitto immenso, fatto di armature e scudi d’oro. Una sala lucente e ghiacciata. Il freddo era conseguenza delle mancanza d’abiti notai con orrore. Mi coprii con le mani, mi guardai attorno sperando che nessuno mi vedesse. Ma era tutto vuoto, luminoso e lineare. Le armature proiettavano il loro freddo splendore nell’aria. Tutto era assurdo a maestoso. Senza senso e naturale. In fondo alla sala, vicino ad una delle porte una giacca blu era stesa sulla spalliera di una seggiola. Mi sentii salva. Mi guardai attorno ancora. Furtiva. Sgattaiolai coi piedi nudi sul pavimento. Infilai la giacca blu. Aveva gradi e decorazioni dorate e passai oltre la porta socchiusa.
Mi sembrarono le strade Parigi quelle per cui camminai, ma silenziose e vuote, come in un attimo in cui si fosse bloccato il tempo. La città sembrava nuda e sola. Il cielo era bianco e l’aria spessa e grigia. Udii un canto. Stringendomi addosso la giacca, mi avvicinai a una finestra.
Uno strattone, il rumore di un peso che fende l’aria: mi cadde di fronte un’immagine e il mio grido attraversò il tempo immobile. Una donna vestita di bianco era appesa a una corda. Quando il viso contratto mi sembrò quello di Diane la voce mi morì in gola. Ruotai lo sguardo per cercare qualcuno, per chiedere aiuto. Non c’era nessuno. Quando guardai ancora oltre la finestra l’immagine era scomparsa. Scappai via. La corsa si fece più faticosa. Alla fine della strada mi precedeva un uomo. Lo riconoscevo. “Alain! Alain!” gridai. Ma camminava malfermo con una bottiglia in mano. “Mi devi aiutare…”. “Sì… sì…” rispose con voce scocciata e impastata. Non riuscivo a raggiungerlo. Voltato un angolo scomparve. Mi trovai su un ampio spiazzo che sovrastava la città. C’era una chiesa. Forse era Montmartre. Forse no. Era uguale e diversa. Da lì, oltre la ringhiera, si dominava la città. Da lì si vedevano raggi candidi che cadevano come fari dalle nuvole di un bianco corposo. Illuminavano edifici conosciuti e sconosciuti. Lungo la ringhiera che dava sulla vallata c’era una fila ininterrotta di cavalletti con tele. Ma non c’era nessuno. Posti vuoti. Occasioni mancate. Disegni abbozzati. La paura mi scorreva nel sangue. Era ovunque e non l’avrei saputa distinguere. Guardai la città immobile, serrando sul petto la giacca militare. Vidi le guglie minacciose e nere di Notre Dame sotto il raggi. Notre Dame è la Maddalena dicono alcuni. Per questo è così inquieta. Volsi lo sguardo ancora verso la fila di cavalletti: in fondo c’era una persona. Era immersa nel silenzio alcuni cavalletti più in là. Era un uomo dalla camicia bianca che guardava verso la città.
Era André. Mi avvicinai verso quel cavalletto trattenendo il fiato. Aveva una gamba flessa posata sul legno dello sgabello e l’altra abbandonata. La sguardo perso. Le mani macchiate di colori. Pensava. Il profilo contro il cielo bianco e crudele.
“André” gli dissi posandogli la mano sul braccio. Si riscosse. “Amore…” disse stupito, abbracciandomi. La mano dietro la nuca adagiò la mia testa sulla sua spalla. La mano rimase lì come se ci fosse bisogno di trattenermi. “Andiamocene da qui” chiesi con gli occhi chiusi, stringendogli l’altra mano. “Aspetta…” disse come se gli mancasse il fiato. Mi sollevò il viso in quell’incredibile luce bianca. “Perché?” chiesi e guardai la mia mano nella sua, posata sulla camicia sporca di rosso. “Dobbiamo prima fare l’amore” fu la risposta. Gli sorrisi, ma mi accorsi d’un tratto che il rosso sulla camicia si espandeva e non era uno dei suoi amati colori. “No!” urlai. Si guardò smarrito e pallido mentre la stretta della mano diventava convulsa.
“No!” urlai ancora. Urlai davvero. E mi svegliai, con la testa pesante, nel buio umido di quella maledetta tana. “No!”. Scattai a sedere senza vedere e mi appiattii contro la parete, temendo che l’incubo che aleggiava in quel buco potesse riafferrarmi per i capelli. Ed era come se se tutta la mia pelle fosse esposta a una frustata. Un colpo di tosse che mi spezzò il fiato e la speranza.
Il dolore alla base della nuca mi tirava verso il basso. Non ci pensai molto.
Rivolsi gli occhi a un cielo coperto di pietre, pregando che nulla di caldo e scarlatto scivolasse dalla mia bocca alla mia mano.
ЖЖЖ
“Ma… domani… domani dico. Avevamo detto per domani. Avevo pure dato l’appuntamento. Perché oggi? Che differenza fa? Avevamo detto domani e vado oggi… sembrerà strano no?” biascicò il medico, le mani unite sul volante e lo sguardo appannato dietro gli occhiali.
“Lo so. Ma stanno succedendo delle cose all’improvviso. Non ce le aspettavamo. Dobbiamo andarci ora. I reparti “sani” della Wermacht hanno cambiato programma e domani saranno già qui. Lo ha captato Bernard ed è sicuro. Dobbiamo andarci subito. E poi, per quel che mi pare chiaro, prima è, meglio è” rispose André. Lapidario.
“Oh… mamma…” esclamò il medico. Stringendo il volante le nocche gli diventarono bianche. “Ma io… ma io…” continuò a biascicare. André non lo azzittì, ma lo guardò curioso di quello che stava per dire. “Ma vi rendete conto?” ebbe il coraggio di dire l’uomo, non vedendosi ostacolato. “Se un giorno si scoprisse quello che mi avete fatto fare… mi radierebbero… mi radierebbero!” esclamò.
“Ormai l’avete fatto” rispose André senza scomporsi. Al medico sembrava tremendamente angusto dividere l’abitacolo dell’auto con quell’uomo. “Io credo che, comunque vada, nazisti e leccapiedi in questo paese abbiano ormai vita breve. E grazie a loro hanno avuto e avranno vita breve molti francesi innocenti. Da ovest tira un altro vento. Forse per un po’ sarà un vento di morte, ma è un altro vento. Non manca molto. Se dopo queste raffiche si scoprisse di voi e di noi, di quello che ci avete fornito, credo che, per molti aspetti, avreste salva la pelle. Verreste riabilitato. Nonostante quello che credete voi, vi assicuro che per i tempi che si prospettano la vostra vecchia collaborazione con loro non vi fornisce un gran bel curriculum”.
“Mi avete costretto ad aiutarvi a sottrarre litri di sostanze narcotizzanti, litri di cloroformio… quando lo scopriranno sia medici che farmacisti vorranno la mia testa e non mi considereranno più col rispetto di una volta! Ve ne rendete conto?”.
“Vedo che non avete l’abitudine di ascoltarmi mentre parlo” constatò André, volgendo lo sguardo alla strada che li avrebbe portati via. “Io credo che quello che avete fatto per paura di noi vi potrebbe salvare vita e reputazione dopo. E quello che state per fare ancora di più” concluse rivolgendogli uno sguardo calmo.
Il dottore sudava. Cosa credeva di fare quell’uomo? Lui e i suoi compari. Barattoli di cloroformio… Non ne aveva mai visti tanti insieme. Ed avevano inquinato l’acqua del pozzo. Criminali! Roba da pazzi! Tutto questo casino per salvare una che per poco non lo aveva castrato. Certo che là dentro, nella tenuta, dovevano dormire della grossa… forse non sarebbe stato difficile aiutarli ancora. Entrare là dentro. Certo peccato per la signora… chissà che paura col bambino… chissà se pensavano tutti di avere la malattia del sonno, come speravano, mentre confabulavano, questo tipo calmo da essere inquietante e quel tipo alto e largo da essere ugualmente inquietante. Certo “Che fare?” si chiese mentre lisciava il volante e l’uomo aspettava fin troppo paziente. Non aveva avuto scelta: quando lo avevano messo alle strette aveva ceduto. Quella ragazzina castana, con gli occhioni larghi, gli aveva tenuto la pistola puntata alla tempia come se fosse la cosa più naturale del mondo e lui aveva dovuto dire tutto quello che sapeva su depositi di farmaci, tradire qualche conoscente… L’altro tipo magro aveva organizzato il furto, e sembrava saperla lunga in materia. E poi tutta quella marea di donne e ragazzini che lo guardava come se lo volesse spolpare vivo. Che settimana orrenda. Non ci voleva tornare più al Maquis! Tutto era iniziato per quella bionda. Ci vai a letto no? Ma come cazzo fai? Avrebbe voluto dire al tipo che lo osservava impassibile al suo fianco. Ma chissà che lavoretti ti fa per ridurti così! Non c’era mica bisogno di visitarla per capire come stavano le cose… Avrebbe voluto tanto dirglielo, aveva una rabbia tremenda avviluppata attorno allo stomaco, ma quell’uomo gli faceva troppo paura.
“Allora… vi devo chiedere, per favore, di mettere in moto” disse André. Il medico vide luccicare la canna di un’arma, puntata all’altezza delle gambe: argomento che lo aiutava automaticamente a prendere decisioni celeri.
Mise in moto e la strada scivolò sotto le ruote al rumore del vecchio motore, fino al cancello della tenuta.
“Allora…” iniziò a ricapitolare André. “Io sono un vostro collaboratore. Voi vi occuperete delle preoccupazioni della signora… dal momento che a quanto pare la cosa vi è anche gradita. Io sono qui per visitare quella donna che a voi, per ovvi motivi, non va nemmeno di vedere. Questo in caso là dentro ci sia ancora qualcuno in grado di chiedere spiegazioni dettagliate. Ma spero che il sonnifero li abbia aiutati a rilassarsi. Gli altri sono qua intorno, appostati nella boscaglia. Non fate stupidaggini, non lasciatevi scappare nulla: se non io c’è sempre qualcuno di noi pronto a farvela pagare. Se non subito al momento giusto. E quando non ve l’aspettate. Quando avrete finito, se non mi avrete visto, non è necessario che mi aspettiate. Almeno di questo dovreste essere contento” e gli fece un sorriso che il medico non colse. Troppo impegnato a valutare l’entità della sudorazione.
Spense il motore e si preparò, in silenzio, a scendere con movimenti misurati. Aveva bisogno del gabinetto. L’unica cosa bella sarebbe stata rivedere la signora.
“Allegro Lavalle!” esclamò André. “Paradossalmente potrebbe essere la vostra codardia a rendervi onore…”. Sospese la frase e lo guardò attraverso i finestrini dell’auto. “… Certo… sempre se usciamo vivi da qui” chiosò in tutta calma, sconcertando il medico.
Davanti al cancello nessuno. Davanti alla porta nemmeno. Suonarono il campanello a attesero.
pubblicazione sul sito Little Corner del marzo 2004
Continua...
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