Rumore d'ali

(De insania)

Parte XIV

 

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Oscar

 

Ho perso il conto delle ore. Il tempo è senza senso. Il buio mi sta entrando negli occhi, nella bocca, nelle orecchie. Sotto la pelle che rabbrividisce. Il mio corpo nel nulla potrebbe aver inghiottito il buio e restare sospeso qui, nella stanza.

Avrei implorato per una sedia, al posto di un sasso o di un tavolaccio di legno. Ora il rimanere seduta qui mi snerva… saranno i polsi… sarà che bruciano… saranno le corde… sarà… tutto sarà.

Ha due occhi maledetti… li ho visti…

Strette per capelli… con le pistole puntate…

Ha detto “Tu?!”. Ho detto “Tu?”. Un altro ferro freddo sulla tempia. Il click. Il sospiro che ho tirato mi ha bruciato i polmoni. Ed ho pensato al sipario che sarebbe caduto col rumore di un’esplosione.

Ma solo un colpo tremendo contro le ossa.

Pensavo che il mozzicone di sigaretta sotto la luce fosse del piccolo Claude… pensavo male… era elegante e con un nastrino dorato intorno… di classe… non apparteneva a Claude.

 

 

Alain

 

Sete di giustizia e sete di guai. Non sono chiari i confini fra giusto e sbagliato e lei ci cammina sopra senza guardarli. Quel che è giusto può essere sbagliato. Quel che è sbagliato giusto.

Lui… credevo mi avrebbe ucciso. Ed aveva ragione, perché non la puoi proteggere se pensi sempre a  quel confine. Non ha gridato così neanche quando l’hanno operato senza anestesia. Era riuscito a stare quasi zitto, come se fosse abituato alla morte. Quell’urlo un po’ mi ha ucciso.

“Vado” ha detto, scarno. Il tamburo ha ruotato. Il ferro ha lampeggiato sotto la luce della candela.

Devo per forza inchinarmi a quello che avete scelto di fare della vostra vita. Di nuovo.

 

 

André

 

Dopo la luce non si può mai più essere felici.

Non sarà stato tutto vano. Questa volta che ci ho creduto, che ho cercato… la beffa non può essere stata così disumana, per il piacere di qualche divinità deviata.

“Vado” dico.

19 maggio 1940. Il viaggio è iniziato sulla soglia della morte, dov’era finito la scorsa volta: 13 luglio 1789. Forse spezzato, ma sono ancora in viaggio.

 

 

ЖЖЖ

 

 

L’imbrunire del 19 maggio era vicino. Una scia di fumo divise il cielo, dall’alto verso il basso. Il rumore divenne assordante. I vetri tremarono. Diane sentì il terrore correrle lungo la schiena. Istintivamente si portò le mani sul capo e si piegò sotto il tavolo. Si stupì di essere ancora viva alla fine del boato. Quando ebbe il coraggio di guardare dalla finestra urlò “Dio… Alain… Alain! Ne è caduto uno sul nostro vigneto…  e se dentro c’è qualcuno… se è francese?”.

 

Un enorme uccello spezzato infilzato ai piedi di una colonna di fumo.

“E se salta in aria…?” disse il garzone. “Finchè posso… devo controllare che non ci sia nessuno ancora vivo” disse Alain. “E se salta in aria?” ripeté meccanicamente il ragazzo.

L’uccello di ferro scricchiolava. Sembrava una visione dell’inferno. L’aria era irrespirabile e la carlinga bollente. La parte anteriore era compressa: un mucchio di lamiere accartocciate. L’abitacolo sventrato. Vide la canna di una mitragliatrice sporca di sangue. Un sedile svelto e un uomo con la testa rovesciata all’indietro completamente sporco. Le lamiere scricchiolarono pericolosamente sotto il suo peso. “E se salta in aria… ?” sentì ripetere ancora il garzone. Indugiò con lo sguardo, combattuto fra la voglia di saltar giù e una strana curiosità. Gli sembrò di vedere un arto staccato dal corpo. La voglia di saltar giù vinse. Si stava lasciando andare nel vuoto quando una mano lo afferrò per il colletto. Avrebbe urlato per il terrore se due occhi sbarrati in un viso sporco di fuliggine e sangue, rigato di lacrime, non gli avessero detto “Tirami… fuori…”.

 

“Soisson… ti sei tirato il morto in casa. Gli dovrai pagare anche il funerale oltre alle cure… e se ti scopre qualcuno sei morto anche tu di questi tempi” disse la vicina Blondel con gli occhi spalancati per il terrore e il ribrezzo. “Di questi tempi è morta anche lei, madame Blondel, se parla con anima viva di quello che ha visto. Non so se mi sono spiegato”. La Blondel sparì scandalizzata e offesa.

Diane finì di pulire il viso al ferito. “Che disastro…” disse con le lacrime agli occhi. Lasciò cadere la pezzuola nella bacinella. Il sangue e la fuliggine si sciolsero nell’acqua.

Le gambe fratturate, una con frattura esposta, alcune costole rotte, trauma cranico. “Effettivamente…” si disse Alain. Il medico e i vicini che lo avevano aiutato erano andati via da poco. Era ancora cosciente quando lo avevano operato per togliergli le schegge di lamiera dalla carne. Non c’era anestetico. Dopo poco era svenuto dal dolore. “Come farò con te?” chiese sottovoce Alain alla figura immobile e rigida nel letto. “André” lesse ad alta voce su una delle piastrine che portava al collo. Gli sembrò familiare. Forse perché non ci si può esimere dal sentirsi umanamente vicini a chi ha il destino palesemente segnato. Quando sai che l’altro finirà. “Ti dovrò nascondere…” disse. Pensò all’aereo che sarebbe arrugginito, schiantato, sotto una pioggia di fine primavera, fra le sue povere viti. Pensò alla carlinga sventrata con sopra il disegno di una rosa bianca. “Hai il pollice verde, André, amico mio?” disse sperando che lo sentisse. Pensò che se fosse stato bene avrebbe glissato sulla battutaccia con un mezzo sorriso. Ma era lì fermo nel letto e Alain si sentì oppresso da una cappa oscura. “Le bare di fuoco le chiamano…” disse fra sé pensando a quegli oggetti che solcano i cieli. L’uomo nel letto era sudato e respirava male. Aveva una vecchia vistosa cicatrice da arma da fuoco al centro del petto. “Sei un veterano…” disse Alain corrugando la fronte. “Non avrai fatto la Grande Guerra, amico?” L’uomo non poteva rispondere. “Ma se al massimo avrai trent’anni…” concluse da solo Alain.

Avevo un compagno, il migliore, non c’è più. Nella pace e nella guerra andavamo come due fratelli, marciando allo stesso passo. Ma una pallottola soffia nell’aria, chi di noi sarà ferito?… Erano i versi di una vecchia canzone. Lo stavano tormentando.

 

Non riusciva a parlare bene, faceva del suo meglio per farsi capire, ma era lì immobilizzato. Alain si accorgeva dei sonni agitati e del nervosismo che gli scorreva sotto la pelle per quell’immobilità. Era passato un mese ed era cambiato poco.

Una sera Alain si avvicinò al letto, si chinò per spegnere la candela. “Tu… tu…” disse l’uomo, stringendogli debolmente il braccio. “Dimmi…” fece Alain avvicinandosi per ascoltarlo meglio. Gli sembrò che cercasse le parole e tentasse di stringere più forte. “Piano” gli disse di nuovo, temendo che quello sforzo lo uccidesse. Rimase stupito dal gesto: l’uomo gli porse le piastrine che aveva al collo. “Cosa?” chiese stupito. “A lei…” disse l’uomo, che si chiamava André. “Se muoio… io non voglio… ma se muoio… una dalla a lei”. “La tua donna… Dov’è? Come si chiama?” chiese, Alain. Già si sentiva impotente di fronte al dolore di una donna. Come se il suo, che montava di giorno in giorno, non bastasse.

“Non so dov’è… non l’ho vista per tutta la vita… finora… ma dalla a lei… ho solo lei… è Oscar…”. Alain lì per lì non capì. Quando iniziò a capire gli sembrò un deliro lucido. Una donna con quel nome… Oscar… Non l’ho vista per tutta la vita. Forse stava davvero per morire.

“Sì… certo…” lo assecondò. “Certo amico”.

Improvvisamente il ferito lo afferrò per la camicia, strattonandolo verso di sé con una forza che non avrebbe immaginato. “Non prendermi in giro… Non prendermi in giro…” disse deciso, a fatica. “Se mi prendi in giro, giuro, quando sarò crepato, verrò da te la notte a farti battere i denti!”.

 

L’estate era di nuovo alle porte. I tempi erano ancora duri, ma il sole entrava nella stanza senza curarsene. “Bella” commentò Alain. André si voltò e posò il pennello che aveva in mano insieme agli altri, in barattolo di vetro incrostato di colore. Non disse nulla e prese a contemplare l’immagine. Gli occhi della donna erano intensissimi. “È lei?” chiese Alain.

“Sì, è lei”.

“Continui a vederla…”.

“Sempre… ogni notte… il giorno. Devo essere pazzo” e chinò il capo. Alain non rispose. “Devo esser impazzito quando sono caduto… non me lo spiego. Sono certo che lei c’è… sento che è passata da qui”.

“Qui ad Arras ci passa un sacco di gente… può essere. Può anche essere che tu l’abbia vista chissà quando… e che te ne sia ricordato solo da allora. Non essere così drastico ragazzo. I ricordi fanno brutti scherzi…”.

“Sì…”. André non volle dirgli quando era certo di averla vista. “La vorrei rivedere”.

Alain sospirò.

“Lo sai… Né Diane né io vogliamo lasciarti qui solo… per me non qui c’è più lavoro. Non sono abbastanza leccaculo per occuparmi dei loro giornali. Sei certo di non voler venire con noi a Parigi?”.

Toccava quel discorso per la centesima volta, ma per la centesima volta la risposta fu la stessa.

“No… ne sono certo. Grazie” disse accarezzando la tela, come se potesse toccare la donna.

Alain si sentì strano nel veder quel gesto. “Quanto credi di guadagnare in un posto come questo con quel lavoro… André? Di questi tempi in cui si stenta a  trovare da mangiare” aggiunse, accennando ai pennelli. “Parigi sarebbe la scelta migliore anche per te. Ci sono un sacco di artisti…”.

“Non me la sento. Ancora non mi sento in grado di fare una cosa del genere. Non sto ancora bene…” disse guardandosi le gambe. Faceva ancora fatica a camminare. Erano passati due anni.

“Non sopporterei di far pena a nessuno…” aggiunse abbassando il tono della voce.

“Ma tu non fai pena a nessuno! Che cazzo dici?!” disse posandogli le mani sulle spalle. “Le donne ti mangerebbero e tu te ne stai qui a sognare una valchiria col nome da uomo che forse hai visto forse no… André!” disse scuotendolo. André si mise a ridere e fece segno di no con il capo. “Santa fede quanto se testardo…” disse Alain, arreso.

“Sono pazzo. Ho le mie priorità” disse André.

Quando Alain se ne andò la contemplò finché il buio non invase la stanza. Pensò che non era ancora identica. Gli sfuggì una lacrima.

I cieli attraggono e poi distruggono.

Volo e nuvole azzeravano la vita. Si viveva per l’attimo. Com’è per chi sa di avere dentro qualcosa di inesploso.

Ed ora gestire l’esplosione lo stava stremando.

 

 

Era l’alba e non aveva chiuso occhio. Si mise le mani fra i capelli. I mesi si succedevano e si sentiva sempre più solo. Le immagini che disegnava diventavano lentamente più reali. Era un sollievo lieve. Nei sogni le immagini diventavano scure e sfocate. Una notte senza fine gli sembrò che lei soffrisse per un altro e che per terra ci fossero delle schegge di vetro e liquore.

Ora gli uccelli cinguettavano felici. Lui si sentiva vuoto.

Il giorno prima, era chino a pulire la tavolozza dopo una delle poche lezioni che riusciva ad impartire. Quando aveva sollevato il capo una delle figlie della Blondel, all’improvviso, lo aveva baciato. Lui l’aveva allontanata, stupito da quel gesto. Avrebbe voluto dirle di non perdere tempo con uno come lui, ma non disse nulla per non offenderla. Le disse che poteva tornarsene a casa. Lei tentò di avvicinarsi ancora. “Quale uomo… quale uomo rifiuterebbe una donna che si offre in questo modo?” gli aveva chiesto sussurrando. Gli balenò in mente l’idea: poteva fingere che fosse lei. Si sarebbe sentito meno solo e meno frustrato. Forse. Ma di lei non aveva nulla quella ragazza.

“Ti piacciono le bionde?” aveva chiesto, indicando le tele col ritratto di quella donna che erano a terra in un angolo. “Sono bionda anch’io” e si era sciolti i capelli chiari come paglia. Lui taceva e scuoteva meccanicamente il capo. “Guarda… guarda!” aveva detto, nervosa, di fronte al suo silenzio, frugando nella borsetta. “Guarda questi!” aveva detto mettendogli sotto gli occhi un mazzetto di franchi. “Ti darei questi oltre quelli della lezione… solo una volta…”. Si era voltato per non ascoltarla e non guardarla. “Compreresti un sacco di quegli stupidi colori… i tuoi maledettissimi pennelli… Perché no?! Cosa ti costa una volta?” gli aveva urlato contro, stringendo i soldi nella mano. L’aveva afferrata per un braccio. Forse l’aveva anche illusa per qualche istante. Ma non l’aveva trascinata verso la camera da letto. La giovane Blondel si era ritrovata sulla soglia di casa. Aveva chiuso la porta e le aveva detto “ Ti chiedo… per favore… di non tornare mai più qui”.

Forse sarebbe stato meglio crepare che continuare così. O quel qualcosa lo teneva aggrappato alla vita o era un uomo inutile, senza il coraggio di dire basta.

 

Alain viveva da mesi con un dubbio. Il dubbio gli passava davanti agli occhi tutti i giorni; diceva “Buongiorno Alain” tutte le mattine, col solito tono glaciale e netto, e saliva su per le scale in redazione con le chiome e col cappotto dal taglio maschile che sventolavano alle spalle.

Quando Diane l’aveva vista si era portata la mano sulla bocca per trattenere un moto di stupore. “E’ uguale!” gli aveva detto. “Uguale ai quadri!”.

La cosa peggiore: la tipa firmava i suoi articoli col nome Oscar. Era convinta che lettori ed editori l’avrebbero tenuta maggiormente in considerazione credendo che fosse un uomo a scrivere. Una  fazione di colleghi aveva chiesto che i suoi articoli, il suo stile, e le sue opinioni venissero corrette e tagliate quanto più possibile. Solo una fazione fastidiosa.

In redazione dava filo da torcere perfino al boccoluto direttore.

Il dubbio costante era: trascinare André a Parigi con la forza o lasciarlo dov’era, tenerlo all’oscuro di tutto perché, era certo, avrebbe sofferto.

Ne era certo perché lei era innamorata in modo totale di un fotografo svedese. Se n’era accorto. E non gli era sembrata una semplice cotta. Poteva sbagliarsi, ma anche le cotte sono dure a morire.

Hans era molto diverso da André. Se André era gentile, Hans era galante. Se Hans era formale, André era sincero. Se André non considerava quello che gli altri dicevano di lui, Hans prendeva appunti compiacendosene. Se Hans cercava gratificazioni, André cercava se stesso. Se André si nutriva di quel che era bello, Hans lo cercava per abbellire se stesso. Se Hans chiedeva conferme, André no. E soprattutto: se quella donna avesse rivolto ad André gli sguardi lucenti e aperti che rivolgeva ad Hans, André non si sarebbe distratto a osservare il sedere della donna delle pulizie, prona sul pavimento per lucidarlo come Girodel chiedeva.

Di questo era certo. Consultandosi con Diane, una sera che la radio trasmetteva per l’ennesima volta Lili Marlene, avevano tristemente deciso che se lei era il tipo di André, evidentemente, dato quella specie di abatjour di Tiffany che era Hans, André non era il suo tipo. Avevano taciuto e la canzone era finita senza che accennassero nella loro lettera alla valchiria che metteva scompiglio in redazione. Ancora una volta.

“Certo che una donna così volitiva si debba perdere dietro uno come quello…” aveva mormorato  lasciando a metà la frase Diane. Poi aveva chiuso la busta.

 

Passarono altri mesi ancora. Oscar stava veramente male. Girodel aveva preso ad osteggiarla apertamente imponendole di scrivere su temi assurdi. Un cambiamento repentino incredibile per lui che, in passato, è vero che non l’aveva mai assecondata, ma quasi la temeva.

Aveva deciso di dimenticare Hans, l’aveva giurato, ma ne soffriva. Ogni giorno sembrava più stanca e demotivata. Si innervosiva per poco.

Era iniziato tutto una sera. L’intera redazione era andata a festeggiare in un locale jazz della Parigi notturna. Offriva Girodel, su di giri per aver ereditato una fortuna da una sorella del padre. Un tal bivacco in tempo di guerra e vacche magre era un lusso. Era una serata speciale per tutti.

L’ingresso di Oscar era stato sconvolgente. Capelli raccolti, un abito chiaro e morbido, gli occhi e le labbra esaltati dal trucco. Non c’erano parole. Era visibile tutto lo splendore che teneva abitualmente sotto controllo. Una donna già bella che si rivelava in tutto il suo modo di essere per qualcuno… aveva pensato Alain, pescando con lo sguardo Hans, che si appoggiava elegantemente allo schienale di una sedia.

Ma non era stata una bella serata. No. Era stata orrenda e umiliante. Oscar si era ritrovata a piangere nella toilette, mentre una musica irrefrenabile, fatta di sassofoni, trombe, piano, chitarre e violoncello bussava alla porta come un alveare impazzito. Si era tolto il rossetto dalle labbra con il fazzoletto che aveva in borsa e si era trovata orrenda.

Hans era stato molto galante e ossequioso con lei. Le era sembrato che la trattasse come un’altra, ma l’aveva fatta sentire importante. Ci aveva pensato mentre si era allontanato per prendere un paio di drink, non aveva voluto ammettere che non l’avesse riconosciuta. Quando lui era tornato, le aveva porto il drink, e con aria ammaliante aveva sussurrato “Mia cara Oscar… è incredibile! Siete proprio voi. Non vi avrei mai detto così affascinante e dotata (questa frase la sussurrò insinuando lo sguardo verso il basso…), se Alain non mi avesse detto che si trattava di voi!”.

Non si era sentita mai così umiliata in vita sua. Era fuggita via. Il fatto che lui l’avesse fermata e baciata non cambiò nulla. Anzi aveva sentito una sensazione di repulsione profonda. Come se in quel momento non potesse esser chiaro che quello. Aveva abbandonato la sala.

Si era guardata ancora nello specchio. Aveva tirato su le spalline dell’abito. Aveva avuto paura che la scollatura lasciasse vedere davvero troppo. La pelle s’era accapponata. Decisamente quell’abito lasciava vedere tutto, anche quello che c’era sotto.

“Il mondo dei sensi… non fa per me” aveva detto. Si era infilata la giacca e sciolti i capelli. “È definitivamente chiaro”. Andò via, da sola, per la notte di Parigi, mentre l’alveare impazzito continuava a ronzare nella sala da ballo, i colleghi bevevano e ridevano, e una provocante Jeanne ancheggiava fra i tavoli con labbra vermiglie e bocchino laccato.

 

Le ultime lettere di André lo facevano preoccupare. Scriveva poco e scriveva di rado. Le cose che scriveva erano solite, di circostanza. Lo conosceva bene: qualcosa non andava. Declinava in continuazione ogni invito a spostarsi da Arras a Parigi. Una volta erano riusciti a parlare per telefono e non era stato un bel momento. Il malessere non era un sospetto, lo sentiva dal tono della voce. Si era innervosito tanto che gli aveva gridato “Brutto coglione testardo… non ti rendi conto che a Parigi puoi masturbarti esattamente come fai ad Arras!”. André aveva riattaccato e non lo aveva più risentito.

Erano giorni che anche lui si sentiva una merda: non avrebbe dovuto dirgli parole del genere. Non era così che stavano le cose: gli era sempre più chiaro. I racconti di André parlavano di Oscar.

Era quasi il tramonto. Aveva di fronte un foglio bianco. Doveva prendere una decisione.

Pensò ad Oscar seduta nel suo ufficio, con lo sguardo fisso di fronte a sé, mentre le foglie degli alberi cadevano.

Intinse la penna nel calamaio. Guardò Diane, in piedi accanto a lui, e iniziò a scrivere.

 

“Abita qui” disse e gli indicò il vecchio palazzo. “Saliamo” lo invitò.

“No. Se è la donna che dici non potrò trovarmela di fronte e comportarmi come se nulla fosse…”.

“Ma che vuoi fare?” chiese Alain, scoraggiato.

“Mi basta vederla per capire. Non è necessario presentarsi a casa sua”.

“Come vuoi” accondiscese. “Scommetto che non vuoi che ti veda…” aggiunse. André confermò.

Alain non ebbe il tempo di spazientirsi: dall’alto una tazzina si schiantò al suolo. Una persiana si chiuse violentemente. Rimasero stupefatti a guardare la porcellana sbriciolata sul selciato.

“Non dovete mai mettervi sotto la finestra della du Barry… lancia via le cose che non le servono” mormorò una ragazza bionda che, con voce di pianto, si asciugava gli occhi.

“Tutto bene Rosalie?” chiese Alain.

“Sì… grazie. È stata una giornata un po’ dura oggi” rispose e si soffiò il naso. Alzò lo sguardo verso André. Lo fissò delusa. “Scusa… ti stavo scambiando per un altro…” poi abbassò gli occhi e arrossì.

“Sono André” le disse, tendendogli la mano e stringendogliela.

“Rosalie” si presentò. “Credevo che fosse quel giornalista così bello che conosci tu…” disse, arrossendo ancora di più, ad Alain.

“Bernard? Mah… sarà il taglio di capelli” commentò lui guardando André.

 

Quando l’aveva vista comparire in fondo all’atrio oltre il grande portone il cuore aveva accelerato paurosamente. Aveva sentito separarsi nell’anima tutte le schegge di un’esplosione, che ora era chiara, viva e motivata. Qualcosa si spense: la paura di essere folle. Non aveva sentito quello che diceva Alain. Sentiva ogni singolo battito e i passi di lei.

Oscar aveva proceduto a passi larghi, le mani in tasca per la strada, guardando sicura al di sopra della testa dei passanti; senza mai degnarsi dello sconvolgimento che destava.

L’aveva seguita con lo sguardo. In seguito l’avrebbe seguita per mesi. Si sarebbe accorto che i sintomi dell’esplosione si ripercuotevano su di lei, perché c’era ancora un legame, come un filo fantasma.

 Guardò Alain, senza parole, e riprese fiato.“Sei contento?” gli aveva chiesto Alain.

Lui gli aveva sorriso.

 

 

ЖЖЖ

 

 

La porta si aprì. Un fiotto violento di luce mi colpì e vidi rosso sotto le palpebre serrate. Sentivo i suoni amplificati. Non erano parole che potevo capire: era un'altra lingua. Continuavo a tenere chiusi gli occhi e qualcuno mi tirò su dalla sedia. Non riuscivo comunque a muovermi. Ero rimasta seduta troppo tempo ed ero come bloccata. La testa mi faceva male. Quando mi muovevo sentivo un dolore che scendeva lungo il collo. Quell’atto non era una cortesia. Era fin troppo chiaro da gesti ed atteggiamenti. Un uomo alto e nerboruto mi trascinò senza pietà.

“È veramente” finita pensai mentre mi portavano via dalla stanza buia. Mi muovevo a stento, legata da questa certezza quanto dalle corde.

Fra le idee confuse e la rabbia, desiderai di piangere per non aver dato il mio saluto né il mio addio ad André.

Neanche una lacrima…

Chi muore non piange più. Forse era già successo.

 

Nuovamente seduta avevo recuperato freddezza. Non poteva essere altrimenti. Guardai davanti a me con sfacciataggine.

Mi fissava. I pugni sul tavolo e la fronte indispettita. I capelli corvini che scendevano fin sul piano del tavolo.

“Bene bene… Come ci sei arrivata qui?” chiese seria. “Ti ho sempre considerato antipatica e rompiscatole. E speravo di non vederti mai più”.

“Per essere un cadavere da un po’ di mesi ti trovo bene. Eri tu che ordinavi le calze di seta” risposi sarcastica.

Jeanne mi fissò senza parlare.

“Ho  sempre sospettato che quel corpo non fosse il tuo” continuai a dire. “Ma per me non ha nessun senso trovarti qui…”.

“L’hai trovata tu la povera Arianne? Non ebbe una serata fortunata” rispose con la sua espressione tagliente. Mi colpì la crudeltà di quello sguardo. Non l’avevo mai capita Jeanne. Ed ora dall’altra parte del tavolo mi faceva paura.

“Sei una vera guastafeste… non me la dai a bere madamigella!” Mi gridò contro. “Dimmi… dimmi…” incalzò, quasi perdendo il controllo. “Ti ha mandata lui? Ti ha mandata l’imbecille vero?”. Tolse le mani dal tavolo. Quando fu eretta nella sua statura non potei fare a meno di sbarrare gli occhi. Era incinta. Era chiaro. La vestaglia si chiudeva su un ventre prominente rispetto alla sua magrezza.

Capì su cosa riflettessi.

“Nicolas, mon amour, puoi lasciarci” disse all’uomo coi gradi militari che mi aveva trascinato fin là.

Sviai il discorso che ne poteva nascere. “Di chi diamine parli?” chiesi fredda, quando l’uomo fu uscito.

Si mosse per la stanza e lasciò una manata sulla tela di un quadro che non avevo notato.

Strinsi gli occhi per focalizzare. Quel susseguirsi di eventi mi lasciava senza parole. Io non pensavo a nulla di tutto questo quando avevo corso a perdifiato per il prato, per liberare il piccolo Claude.

Il senso di giustizia mi aveva messo le ali ai piedi. Ed ero andata verso un vuoto che invece era fatto di storie che in parte conoscevo. Quelle storie che avevano iniziato a dipanarsi fin da Parigi appartenevano tutte alla medesima matassa,

Il quadro era un ritratto. L’uomo del quadro aveva folti capelli ricciuti, occhi cerulei e un elegante abito chiaro.

“Quello zuccherino del tuo direttore!” inveì con tono canzonatorio.

Fissai il ritratto di Victor Clement de Girodel.

Era lui il nipote che aveva ereditato dalla contessa Beaumarché la tenuta. Era lui l’uomo che aveva festeggiato l’evento la sera in cui Hans e le sue parole mi riconsegnarono alla solitudine. Era lui l’uomo che non era intervenuto quando in quel luogo erano iniziati eccidi e devastazioni, perché gli eventi gli avevano legato le mani, a Parigi.

Guardai il viso duro di Jeanne. Era bella e scostante con quella massa scura di capelli sulle spalle. Le fissai istintivamente la pancia.

“Che guardi?” chiese posandovi sopra la mano. Mi sentii in forte imbarazzo.

Possibile? Lei la donna di Girodel?

“Non credo sia stato lui. Aspetto di controllargli il colore degli occhi” disse ridendo e accarezzandosi la pancia. “Preferirei pensare che sia opera del mio Nicolas… lui ci sa fare. Ma le verginelle come te queste cose non le sanno e si potrebbero spaventare”.

Alcune cose quadravano. Troppe non quadravano. Tacqui. Non dovevo svelare le ragioni del mio essere lì.

“Piccolo Claude… piccolo Claude…” pensai con dolore.

Jeanne e quella pancia avevano qualcosa di assurdo.

“Se me ne fossi accorta a Parigi” disse, sempre con la mano sulla pancia “avrei giocato con successo anche questa carta con quel melenso ricciolone… invece di esser costretta a farlo picchiare e pisciare addosso da Nicolas. Ma vedi, cara la mia Françoise impicciona, era veramente appiccicoso. Non voleva darmi le cose che volevo. Non mi dava retta. Si era innamorato e non mi obbediva più. Voleva fare il mio bene. Certi stupidi damerini non capiscono che le donne non vogliono quello di cui hanno bisogno. Vogliono quello che vogliono!”.

“Parla per te!” risposi sprezzante. Iniziava a farmi schifo.

“Chissà, a ripensarci, se avessi usato il bambino forse sarebbe stato più appiccicoso. Ma è andata…” disse voltandosi e tornando dietro il tavolo. “Quell’idiota mezzo ebreo vuole salvo il culo dai nazisti ed al contempo sguinzaglia la sua cagnetta sulle nostre tracce…”.

Non ha capito nulla mi dissi. Nulla! Crede che io sia qui per fare il mio lavoro e spiare per conto di Girodel e del giornale.

“Sempre stato imbecille. Ora che lo so posso spifferare il suo bel segreto. Il segreto in cambio del quale l’ho lasciato in mutande… che è un maledettissimo figlio d’ebrea che nasconde altri cani come lui!” gridò ridendo.

I nervi erano tesi. Il pugno stretto e le unghie mi ferivano il palmo.

Non potevo negare: equivaleva a scoprire il Maquis. Se lei parlava Girodel e molta altra gente sarebbero stati perduti.

Non potevo salvare Claude. Tanto meno me stessa.

Chinai il capo per nascondere la mia alterazione. Non ce la feci più.

“Sei veramente una troia” le gridai in faccia in tutta sincerità. L’unica cosa che potevo fare.

Quando si irrigidì e mi tirò indietro la testa che le sue dita gelate pensai che forse avevo del sangue fra i capelli. Mi fece male.

“Maleducata. Le donne nel mio stato si rispettano” sibilò la vipera. Non l’avevo mai creduta così. Mi fece schifo e odiai l’idea che ci fosse un bambino in una donna come quella.

“Vai al diavolo!” risposi imperterrita.

“Nicolas…” gridò. “Nicolas! Questa stronza torna al buio a meditare sulle buone maniere”.

Sentii di nuovo quell’uomo alla spalle. Mi tirò su bruscamente stringendomi con la mano l’omero. Il dolore scendeva dalla nuca alla spalla.

“Ci vediamo dopo… non perdere le speranze…” mi sussurrò Jeanne avvicinandosi troppo al mio viso. Mi scostai bruscamente inorridita. Jeanne si mise a ridere. Una risata gutturale.

“Stupida verginella! Era solo per spaventarti!”. Fui trascinata fuori dalla stanza. “Ricordati che dobbiamo ancora finire di parlare. Mi devi molte spiegazioni. Sta’ allegra. Ti farò anche divertire… vedrai…” la sentii dire.

Ripiombai nel buio con il dolore che a freddo diventava più forte.

 

 

ЖЖЖ

 

 

“Dove credi di andare? Così dove vuoi andare?” chiese Alain preoccupato. Conscio che le sue proteste sarebbero servite a poco.

“Devo passare” disse André facendosi avanti.

“È pieno giorno… ti vedranno tutti” protestò ancora.

Diane mordeva il lembo del suo grembiule nascosta nello stipite della porta.

“Mi nasconderò finché c’è il sole… ma devo andare” rispose.

“Non andare” fece eco Bernard. André lo guardò senza parlare.

“Spostati Alain” disse, lasciandolo da parte e passando oltre.

Rimasero in tre a guardarsi negli occhi. Non sapevano che dire.

“Cazzo…” disse Alain. Prese una pistola. “Ti copro” disse e lo seguì. Bernard guardò Diane.

Non aveva espressione. “Io non posso fare nulla” gli disse con quello sguardo.

Bernard si allontanò e li seguì.

 

 

ЖЖЖ

 

 

In questo momento non sento niente. Mi viene il dubbio di aver sempre volontariamente scelto il percorso sbagliato, con la certezza matematica che portasse al buio. Passo dopo passo, scelta dopo scelta, nonostante qualche felice inciampo, le mie mani sono legate. Come se non lo fossero mai state…Corse su prati inutili. Solo per bandiere che si sfilacciano al vento. Ti avrei potuto dire ciao.

La mia decisone è un’accetta tagliente. Taglia ponti e taglia legami. Queste corde che ho qui, seduta, non le taglia. Ed anche se ti ho vissuto da vicino, da dentro, anche se ti ho seguito gradino per gradino su strani ed alterni livelli, controluce, in mare aperto, dietro il cielo di piombo, nella luce di un mattino, davanti al bicchiere di troppo, è quasi un teorema la mia certezza di privazione.

Il buio è dentro; è fuori; riveste le mie ossa. E così sarebbe, in tua assenza, anche se spalancassero la finestra sotto lo zenit. E che importano ora le bandiere, i nomi, i figli delle streghe e la polvere da sparo sparsa nel vento. La visuale si stringe sulla tua immagine e, come la luce che attraversa la lente, la brucia e diventa luminescente e immensa.

 

Mi dispiace.

 

La corda sfrega i polsi. Non riesco a tenerli fermi perché non la voglio. Come se fosse fatta di ortiche. Ogni leggero movimento una leggera fitta su per il collo. Ho visto il simulacro smunto della speranza. Pregherò che il dolore non si spenga. Spento, sarà la fine, la tua immagine cenere e il mio cuore fermo.

 

Maledetta.

 

Tentai ancora di spezzare le corde che bloccavano le mani dietro la schiena.

Rividi la donna gonfia e maleodorante sul tavolo dell’obitorio, al posto di lei. Sentii di nuovo il suo alito di liquore sul mio viso.

“Maledetta!” gridai come una belva, strattonando la sedia. La voce batté sulle pareti e mi ritornò addosso. Qualcuno rispose in tedesco dall’altra parte. Non la smisi. Strattonai ancora la sedia che cadde trascinandomi per terra. Contrassi i muscoli quanto bastò per non battere la testa sulla pietra. Per lunghi istanti il dolore fu continuo e non respirai.

“Tu… essere donna pazza” disse in francese, l’uomo oltre la porta.

“André!” gridai coi muscoli tesi e la voce mi tornò addosso di nuovo.

 

 

ЖЖЖ

 

 

“La tengono prigioniera… lo sento… lo sento…” disse André. Batté il calcio della pistola su un tronco mentre camminava fra i cespugli intorno alla tenuta. “L’ho sentita...” disse all’improvviso.

“Fa’ meno casino” disse mesto Alain. Bernard non diceva una parola.

Si calmò un attimo. Passò una mano fra i capelli, quella fasciata.

“Claude…” disse soprappensiero, chiudendo gli occhi.

“Claude… cosa?” chiese Alain preoccupato.

André non rispose. Continuò a fissare l’edificio preda di un presentimento.

 

 

ЖЖЖ

 

 

“Parliamo un po’ del nostro amico cherubino…” disse allusiva, versandosi da bere la stessa dose di uno scaricatore di porto. Voltai il capo per quel che potevo. Non mi andava di guardarla con quella pancia, la vestaglia troppo slacciata e il bicchiere in mano.

“Che cosa ti ha chiesto di fare?” continuò dopo un sorso. Avevo pensato a tutto tranne che a questa domanda eppure era palese che me l’avrebbe posta. “Cosa vuole?” incalzò di fronte al mio silenzio.

“Niente. Sono qui per fatti miei”.

“Ma davvero?” disse sarcastica, piegandosi e stringendo le palpebre. “E quali, di grazia?”.

“Andavo a funghi”. Non so perché lo dissi, ma mezza morta mi rianimava l’idea di prenderla per il culo.

Attesi la reazione e fissai le spire di fumo della sigaretta nel portacenere.

“Non prendermi in giro… non prendermi in giro” disse con tono ringhioso e aggressivo, sbattendo la bottiglia sul tavolo.

“Anche il moccioso di ieri andava a funghi? Deve averne trovato qualcuno un po’ velenoso… ti informo” disse fissandomi. “Chi era? Hai mandato avanti lo strillone? Fate così voi giornalisti?”.

Le lacrime mi scesero lungo le guance, ma non smisi di guardarla. La odiai.

“Non farmi scenate. Non è stata una mia decisione” aggiunse in tono diverso. “Dillo… dillo, dannata ficcanaso!, che ti ha mandato qui per riprendersi questo” gridò all’improvviso scaraventando sul tavolo, fra i fogli che volarono via, un libro.

Il libro. Antico, col segnalibro di vecchio nastro celeste e il piccolo catenaccio sul davanti.

La bottega dell’antiquario… il nastrino che vibrava nel vento… André che me lo porgeva… Victor che se lo portava via.

Non fu una cosa che potei controllare. Mi alzai di scatto, d’istinto, ma la morsa della mano di Nicolas mi ripiombò sulla sedia. Trattenni un grido: in parte per il dolore, in parte perché, visceralmente, istintivamente, senza ragione, dovevo prendere quel libro.

“Cagliostro…” disse divertita Jeanne. “Non negare. Vedi che questo libro ti interessa?”.

 

 

ЖЖЖ

 

 

Il buio era sceso di nuovo sulla campagna. Non si era rivelato un gran complice.

Lui si era insinuato fra gli alberi, nella tenuta, e non aveva neanche un piano. Né un idea concreta che non fosse quella di correrle incontro.

Era scivolato nel buio. I fili del telefono erano recisi di netto. Un lavoro che aveva fatto Claude; oppure Oscar. No: era l’ultima cosa che aveva fatto Claude ed Oscar era arrivata tardi.

Parlavano. Le voci non erano lontane. Gli alberi erano immobili nella calura. Non capiva cosa dicessero. Fermo dietro un tronco si disse che così l’avrebbero preso. E forse l’avrebbe raggiunta, ma per perderla per sempre.

Bisognava tornare indietro. Bisognava pensare e pesare ogni atto col cervello, invece che col cuore e la paura.

pubblicazione sul sito Little Corner del febbraio 2004

Continua...

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