Rumore d'ali
(De insania)
Parte XII
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“Proprio non l’avrei mai detto che mi sarebbe mancata la pressa, l’odore dell’inchiostro… Perfino tirare calci in culo ai facchini che non si spicciavano…”.
Sorriso compiaciuto di André.
“Tu ridi… lo so che te ne raccontavo peste e corna. Che strano vero? È proprio strano…”.
“Forse hai dimenticato quello che dicevi, caro il mio Soisson… roba creativa tipo brutti lumaconi giganti muovete le chiappette, mani di pan bagnato non riuscite a reggere pochi chili che vi scoppia l’ernia…”.
“Sì… me le ricordo, che credi? La mia preferita era datevi una mossa o chiamo il direttore…”
Sguardo molto perplesso di André, accompagnato da una piega meditativa sulla fronte. “Sinceramente questa è meno arguta e sagace delle altre”.
“E che vuoi?… Girodel non voleva vederlo nessuno e questa funzionava come un incantesimo del genio della lampada!”.
André schioccò le dita divertito per rendere l’idea. “Ma quell’uomo è meglio di quel che si crede” aggiunse, riequilibrando con la realtà il flusso dei ricordi.
“A te non manca nulla?” chiese Alain, lucidando distrattamente la canna di un vecchio fucile.
“La vista sul parco dalla mia camera da letto mi manca. Mi mancano la MG, le lezioni al piccolo Gilbert… e i pomeriggi passati a dipingere Oscar… le volte che ha iniziato a fidarsi di me… e il suono del suo violino… sì, mi mancano tante cose….”.
Un elenco pronto… chissà quante volte ci hai pensato, André…?
Non riuscii a vederlo mentre diceva queste parole, però immaginai l’espressione del suo viso dal tono della voce e sospesi per un attimo il mio lavoro nella postazione nascosta oltre la finestra, fra le foglie ancora bagnate di rugiada.
Le volte che ho imparato a fidarmi di te…
Fissai le mie mani ferme in grembo.
“Ah Grandier… come sei profondo tu! Ma non hai una camera da letto a Parigi, hai un’unica gigantesca camera a Parigi”.
“Sottigliezze… credevo mi avresti preso in giro per altro, non per questo!”.
“Non mi permetterei mai. Hai spaccato mari e monti per trovarla” poi, cambiando discorso proprio quando per il mio origliare si stava facendo interessante, disse: “ Secondo te come sta Bernard?”.
“Sta male” disse secco André. “Affonda fra rimorsi e rimpianti qui”.
“Porco diavolo…” esclamò sconsolato Alain. “A volte temo che sia un fantasma. Non so più che dirgli. Era lui la mente di tutto questo… invece ora… Ha persino abbandonato il suo hobby… e, mi dispiace dirlo, di questi tempi quell’hobby ci tornava utile quanto mai!”.
Alain vedeva il lato utilitaristico del dramma: in tempi di penuria e nel folto della foresta la mano lesta di Bernard sarebbe stata una benedizione.
Aggrottai la fronte e pensai al malessere di Bernard. Tentai di riprendere senza successo il mio lavoro. Mi chiesi se sarebbe stato prudente portare fin qui Rosalie incinta. Pensai al viaggio che avevamo fatto io e André. Mi risposi che no, non sarebbe stato prudente: a volte avevamo avuto paura di morire per strada. Pensai a Rosalie ed ebbi una fitta di nostalgia.
“Pensa a Rosalie. Al bambino che non conosce e teme che non conoscerà mai”. Dopo queste parole di André cadde uno strano silenzio. “Non è un dolore di cui possiamo privarlo…” disse, senza completare la frase, e lasciò spazio ancora al silenzio. Sentii solo il rumore delle foglie toccate dal vento e chinai il capo tentando di riprendere l’ago per ricucire il mio paio di pantaloni lisi sul sedere. Impresa al di sopra delle mie forze, dato che quell’oggetto mi sgusciava fra le dita. Tentai per non pensare. Perché non pensare ai dubbi ed ai dolori degli altri a volte è l’illusione con cui dimenticarsi dei propri. Rinunciai di nuovo. Continuavo a vedere il viso di Rosalie, ancora troppo bambina, secondo me, per mettere al mondo un figlio.
“Manca anche a me Rosalie…” disse André.
“Nonostante comparisse sempre nei momenti topici?” chiese Alain con aria furbesca.
“Sì. Nonostante” assentì André divertito e forse un po’ perplesso.
“Anche Oscar secondo me ci pensa. Ha sempre nutrito nei confronti di quella ragazza uno strano istinto, quasi materno direi… Io non me lo spiego tanto conoscendola… poi da quando Rosalie ha iniziato a frequentare Palle Bollenti è diventata di un apprensivo! Te ne sei accorto? E poi…”.
Questa poi! Mi infilzai un dito, ma non potevo più rimanere nell’ombra. Mi tirai su dal nascondiglio, in uno scricchiolio di rami, estraendo l’ago penzoloni nell’indice.
“Posso sapere chi cavolo è Palle Bollenti?” soffiai come un gatto di cattivo umore, che si materializza nel fogliame. Avevano due facce attonite da fotografare. Gli occhi interrogativi. “Allora?” chiesi di nuovo, poggiando sul fianco la mano che reggeva il pantalone inservibile.
“Era il soprannome che avevamo dato a Bernard nel periodo in cui aveva iniziato a frequentare Rosalie” rispose, serafico, Alain.
“E voi lo chiamavate così?” risposi sbigottita, rivolgendo uno sguardo di rimprovero a tutti e due e soprattutto ad André, da cui non me l’aspettavo, e che rimaneva lì seduto impassibile con l’aria di divertirsi molto.
“Che ti incavoli comandante? Sarà un nomignolo, ma per un uomo è pur sempre un complimento! Lui ne andava fiero” continuò Alain, senza convincermi.
“Che facevi Oscar?” chiese André, alludendo a quel che avevo in mano.
“Nulla” tagliai corto allontanandomi da lì. “E poi…” aggiunsi, mentre ero quasi scomparsa dalla loro vista fra i rami “…l’istinto materno è mio e me lo gestisco io!”.
Mentre mi allontanavo li sentii ridacchiare complici.
Era scesa di nuovo la sera. Ancora il sole dietro l’orizzonte; orizzonte che non vedevo mai, protetta dal verde degli alberi: una specie di culla per combattenti: splendente e dura. Quel giorno non era successo nulla. Era trascorso tranquillo e, tutto il giorno, mi ero chiesta cosa fare il giorno dopo.
La tenuta… i nazisti… gli ebrei del cimitero… il bivacco e le aggressioni… quello stupido di Pétain che parlava di nazionalismo per seguire la scia dell’austriaco dal baffetto nero… i ricordi di Parigi… sì, i ricordi di Parigi… noi perduti nei boschi.
Pensieri che si rincorrevano nell’ombra. Chinai lo sguardo su André che, in un angolo, dormiva avvolto in una coperta. All’aperto non faceva più tanto freddo. La stagione diventava sempre più bella: maggio volgeva al termine.
André si era adagiato un attimo per riposarsi e se l’era preso il sonno. Mi ero seduta accanto a lui e, mentre la sera avanzava, attendevo non so cosa. Che si svegliasse. O vegliavo semplicemente il suo sonno: volevo difenderlo dai sogni. Dai sogni uguali ai miei, perché avevo paura che ne facesse.
Posai la schiena contro il muro. Era muschioso, quasi comodo, e chiusi gli occhi per lasciar passare gli istanti e i pensieri. La pace allagava la sera attraversata dal suono dei rami, degli uccelli, del vento… Una pace minuscola: solo per noi.
“Ehi…” lo sentii dire, mentre si svegliava, e riaprii gli occhi sfuggendo al sonno che incalzava.
“Svegliato?” chiesi a bassa voce. Intorno a noi altri uomini si erano distesi per terra a riposare. Volevo stare un po’ con lui prima di essere costretta a dormire con le altre donne, in quella camera senza aria.
“Uhm…” mugugnò ancora stanco. Si stiracchiò e lasciò scivolare la coperta dal torso.
“Ahia..” fece portandosi una mano dietro la schiena, sdraiato sui gomiti. “Mi sto guadagnando i reumatismi sul campo…” commentò, con un tono e un espressione del viso appena percettibile nell’ombra, che mi fecero sorridere. “Perché ti eri nascosta? È così riprovevole cucire un paio di pantaloni?”.
Feci la vaga. Scosse la testa.
“Ci si riuscita alla fine?”.
“No… l’ago è troppo piccolo”.
“E cosa vuoi una spada?”.
“Magari…”.
“Fa’ un po’ vedere qua…” disse con aria paziente, afferrando i pantaloni bucati, miseramente adagiati sulle mie gambe. Li rivoltò, li esaminò, trovò l’ago e fissò lo squarcio con aria esperta, nonostante la mancanza di luce.
“Non dirmi che sai cucire?” chiesi stupita di fronte a una rivelazione.
Sollevò lo sguardo con l’ago a mezz’aria. Quel che rimaneva del giorno consentiva di individuarne l’espressione e dava luce agli occhi.
“Proprio per niente…” esclamò, lasciando cadere la mano. Ci guardammo e scoppiammo a ridere, prima in modo soffocato, poi più forte. Mi piegai e nascosi il viso nella sua spalla.
“Ma l’intuito mi dice che ci devi mettere una toppa!” aggiunse con la voce rotta dal riso. Io non ce la facevo a smettere.
“Ma porca miseria boia!!!” tuonò una voce. Ci azzittimmo. Mi misi una mano sulla bocca, con lacrime ilari che mi scivolavano sulle guance. La mano di André attorno alla mia vita si irrigidì.
“Se dovete fare le vostre porcate andatevene da qui. Proprio dove ci sono io, brutti stupidi senza cuore. Voglio dormire in santa pace e non pensare a niente e non voglio sentirvi ansimare! È chiaro?” sbraitò la voce e nell’ombra, più in là, una testa si agitò sotto una coperta.
“Non stavamo facendo niente Bernard…” rispose André.
“Fate i porci da un’altra parte!” urlò ancora, senza lasciarlo finire.
“… ‘cazzo urli!” bofonchiò con un tono desolato un’altra voce addormentata là vicino.
Ci alzammo e ci allontanammo perplessi senza replicare, perché sapevamo che non avrebbe smesso.
“Forse è ubriaco” sussurrai ad André per giustificare quello sbotto.
“Non lo so…”.
“Fanno le porcate… magari sporcano tutto e poi noi qui ci veniamo a dormire…” continuava a dire la voce astiosa sempre più rauca, mentre ci allontanavamo in fretta.
Se André non mi avesse trascinato via, a queste parole sarei tornata indietro per dirgli il fatto suo. Quel Palle Bollenti…
“La Wehrmarcht sbaglia troppo. Se ne stanno accorgendo tutti. Se ne stanno accorgendo anche quelli che per rimanere a galla gli hanno venduto l’anima… gli hanno venduto la Francia. È sempre più chiaro che nemmeno così saliranno sul carro del vincitore. Alla fine saranno solo dei vermi, non li riabiliterà nessuno. Sento una pace strana stasera. Vorrei che fosse sempre così. Sento che qualcosa… qualcosa accadrà e chi ha tradito dovrà tremare”. Aveva parlato assorto e lo sguardo era proiettato lontano ed allo stesso tempo vuoto, come se potesse vagare, senza vedere, a qualsiasi distanza.
“Perché dici queste parole… sembri strano… non sembri neanche tu con quell’espressione…” dissi d’un fiato. Non l’avrei mai detto, ma lo dissi, me ne stupisco ancora. Di molte cose che ho imparato a dire e fare da allora ho imparato a meravigliarmi, senza più meravigliarmene. Cose e parole che credevo impossibili per il mio sospettato carattere e stile di vita, ma che in realtà erano in me; lui le portava alla luce del giorno.
Si distrasse da quei pensieri e mi guardò in viso, stupito. “Perché… chi ti sembro?” mi chiese allentando la stretta. Ebbi la sensazione che si fosse svegliato da un sogno di cui era cosciente.
“Un rivoluzionario…” risposi, gettando indietro il capo per guardarlo dritto negli occhi. “Ma mi piace” aggiunsi posandogli di nuovo il capo sul petto.
Non dicemmo più nulla e rimanemmo fermi così, in piedi fra gli alberi, mentre il paesaggio si immergeva nella notte. Un uccello notturno attraversò il fogliame. Solo quel rumore. La notte era inoltrata e serena. Era arrivata mentre parlavamo dei nostri dubbi.
“Dici così perché sta arrivando l’estate…” feci io rapita da una strana scia di pensieri.
“L’estate?” chiese la sua voce , persa nei miei capelli.
“Quando arriva l’estate succede qualcosa di grande…” dissi, ma non sapevo perché dicevo quelle parole. Non avevano senso compiuto, tranne che per me. Eppure non le avrei sapute spiegare.
Ci fu un altro silenzio nella pace di quella sera. Pensai ancora che avrei dovuto pensare al giorno dopo. Cosa fare domani? Ci interessava la tenuta della contessa Beaumarché? Avevamo le capacità per capire cosa accidenti succedesse? Ne eravamo capaci?
Il diritto lo avevamo. Era la nostra terra non la loro.
La shiksa… perdizione…
Mi tornarono in mente le parole di quel vecchio ebreo incontrato nella cripta del cimitero. Mi tornò in mente il racconto del pazzo nazista che sparava alla ceca. La Volkswagen dai vetri scuri. Cose slegate che mi tornavano in mente in continuazione. Un’immagine di seguito all’altra, come in uno di quei montaggi che avevo visto al cinegiornale con Rosalie.
“Dormi?” mi chiese, e mi accarezzò i capelli. Ci eravamo accoccolati in un angolo lontano dagli altri per prendere sonno, fra le radici di un vecchio albero. Forse era una quercia. Nonostante le illazioni di Bernard quello era un angolo di notte a parte per cedere allo strano desiderio di condividere la nostra stanchezza. Era tutto scuro e umido e le palpebre cedevano sotto il peso della giornata.
Guardai il viale quasi iridescente sotto la luce lunare. Era meravigliosamente irreale. E, benché sapessi dove portava, mi sembrò corresse nel buio verso una direzione ignota. In fondo piccole spirali di nebbia cancellavano il folto della foresta.
André si sistemò meglio sull’erba tirandosi sul petto la coperta.
“Ho paura di dormire…” confessai con voce spezzata. Paura di trovarmi proiettata altrove, con lui, ma sola.
“Non dire sciocchezze… Dormi Oscar” rispose a voce così bassa che se la sarebbe potata via il vento.
ЖЖЖ
Il mattino seguente l’agitazione iniziò a serpeggiare fra i maquisard. Arrivarono notizie dal paese. Chi le portava iniziò a spifferarle a destra e manca, a chiunque, senza prima avvertire chi doveva esserlo. Mi accorsi dei mormorii e del nervosismo. C’era gente che correva, alcune donne discutevano animatamente. Un bambino piangeva con la bocca spalancata e le guance sporche. Tutto quel brulicare di reazioni mi mise in allarme. Perfino gli allievi della lezione di sabotaggio sul retro del palazzo iniziarono a distrarsi e a mormorare. André smise di parlare di motori da far impazzire, cavi da tagliare e fusibili da destinare a fine crudele per capire quali notizie si stessero passando.
“Posso sapere che vi state dicendo?” si interruppe alzando il tono della voce. Non lo faceva mai. I ragazzi saltarono sui loro sedili ed ammutolirono. Io ero scivolata giù da un muretto, fiutando chi poteva essere il colpevole, intenzionata ad acciuffarlo.
“I nazisti sono entrati nel cimitero… ed ora troveranno anche noi!” disse con voce di pianto uno dei ragazzi in prima fila, che André stava incenerendo con lo sguardo.
Mi sentii gelare. Scambiammo un’occhiata rabbiosa e mi fermai alle sue spalle.
“Chi ve le dice queste cose?” tuonò lui di nuovo.
Mi allontanai a larghi passi alla ricerca di una spiegazione.
“Ce l’ha detto lui” risposero indicando un ragazzo che era arrivato in ritardo.
“Me l’hanno detto quelli di là” si discolpò il ragazzo, prima di essere interrogato, rimpicciolendosi su un sasso.
André li lasciò perdere e si precipitò seguendomi di corsa.
“Senti un po’…” iniziai minacciosa, voltando per le spalle uno dei ragazzini tabagisti che si pavoneggiava in un capannello di uomini.
“Ditemi pure” rispose. E con la gestualità del miglior Bogart, sollevò la sigaretta che gli ciondolava sulle labbra ed emise una sontuosa boccata di fumo verso l’alto. Doveva sentirsi molto protagonista con tutta quell’attenzione addosso.
“Stammi a sentire, chi ti ha detto di spargere notizie e panico ai quattro venti senza averle prima comunicate a noi?” incalzai, contenendo il fastidio che mi causano sempre i gesti affettati.
“Dovevo comunicarle a Chatelet… ma guardatelo”.
Allungò il ditino giallo di tabacco verso una figura abbandonata in un angolo. Forse era sbronzo: testa rilassata su una spalla e bocca aperta. Sintomi da coma etilico… e medesimi olezzi… Mi venne il freddo a pensarci.
“Poi tutti mi chiedevano ed io ho detto…” trasse come legittima conclusione il ragazzino.
“Ora le dai a me, come si deve, le notizie!” sentenziai. Lo trascinai lontano dalla folla, all’interno dell’edificio.
Entrammo in una stanza molto interna. Sempre fredda. La usavamo per le riunioni importanti: era il nostro dietro le quinte. C’erano secchi per terra che raccoglievano acqua della notte che sgocciolava dalle fenditure del tetto. Odore di chiuso.
“Che storia è?” domandai stizzita, con una manata sul tavolo. Prima o poi l’avrei rotto a furia di manate…
André chiuse la porta e vi si appoggiò con la schiena. “Li hanno trovati veramente?” chiese preoccupato.
“Chi li ha trovati?” chiese il ragazzino con un ennesima boccata - alla Rodolfo Valentino questa volta.
Sentii il sangue che mi affluiva al viso e gli avrei piazzato un pugno fra gli occhi se André non fosse stato più veloce – e più civile di me – nella sua reazione.
“Ehi! Fa’ la persona seria” ordinò bloccandogli la mano. “Nel maquis c’è il panico più totale perché si dice che quei tizi che si sono installati nella tenuta Beaumarché hanno trovato i nostri ebrei. Che ti sei sognato di raccontare?”.
“Miseria ladra, non ho mica detto questo!” e spalancò le palpebre sul viso lentigginoso.
“E che hai detto?” chiesi io con le dita sulle tempie. Sentivo che stava per arrivare un fantastico mal di testa.
“Allora… Alain mi ha detto di andare da Dagoût… io gli ho detto fammi i capelli, ma tanto lui sa che deve darmi le soffiate…”.
“Taglia! questa parte me la immagino” supplicai con le dita taumaturgiche ancora in testa.
“Ah… sì… ha detto che da Watteau è arrivata la notizia che una camionetta tedesca si è fermata al cimitero. Sembra che abbiano fatto un sopralluogo… dei soldati semplici… hanno devastato un po’ di roba… ma poi sono andati via da soli. Quelli di Watteau dicono che dopo sono scesi a controllare e che era tutto a posto. Erano ancora tutti là sotto… certo chi va ad immaginare che bisogna spostare l’altare: è un gran bel nascondiglio quello”.
Silenzio.
“Vedi? Potere del telefono senza fili!” sciolse la tensione il commento di André. “Ha raccontato a vanvera e ognuno ha riferito a modo suo, abbellendo e ricamando”. Uno scappellotto volò sulla testa del ragazzo. “Ora qui c’è il panico e c’è gente che crede che sia vicino il momento di rendere l’anima al creatore! Sparisci, ci toccherà avvertire che quelle notizie sono frutto di un malinteso… e, giacché esci, inizia tu a mettere un po’ di cose in chiaro”.
Il ragazzino sparì, senza più la baldanza dell’incoscienza, oltre la porta; il che mi diede un impercettibile sollievo, accasciata coi gomiti sul tavolo e lo sguardo truce in senso lato rivolto ad André.
“Ti sei inquietata?” chiese André, quasi di buon umore.
“No…” risposi. Una domanda eterna senza risposta sarà: come fai, André, a rimanere calmo? “Sono incazzata! Non è modo di fare la guerra agli invasori, la resistenza o che cavolo è questo… le pose alla Bogart, Bernard in crisi d’astinenza e ubriaco quando potrebbe dare una mano, il telefono senza fili e l’Apocalisse prossima ventura, la gente che non collabora e le femmine pettegole che si lisciano la gonna della domenica e quei cazzo di pantaloni col buco sul didietro…”.
L’elenco sarebbe stato lungo… Prima di finirlo però, fui messa a tacere in modo alquanto piacevole. Chiusi gli occhi e ed affondai le mani fra i suoi capelli e fu bello trattenere il respiro. Le sue mani che scorrevano lungo la mia schiena. Lasciai la sua bocca con un sospiro e posai, vinta, il capo sulla sua spalla.
“In ogni caso bisogna scoprire cosa erano andati a fare in quel cimitero, no?” disse in tutta tranquillità.
“È vero… e di corsa” risposi, lasciandomi contagiare dal suo autocontrollo.
ЖЖЖ
Se ci penso ora, per un po’ di tempo qualcosa s’era bloccato. Le carte erano rimaste ferme sul piano da gioco. I giocatori – noi e chissà chi altro – fermi, impegnati a vivere, a dare un senso alle nostre azioni e ai nostri giorni. Solo i sogni mi avevano teso imboscate inspiegabili per ricordarmi che, forse, c’era in ballo altro. E quel che avessi immaginato non sarebbe mai stato abbastanza. Adesso lo so.
Il maggio del 1944 volgeva al termine e qualcosa sarebbe successo in giugno, in quel periodo che per i calendari è ancora primavera e nel cuore della gente è estate. È sui libri di storia. E sarebbe successo, a breve, sulle coste della Normandia.
Anche noi eravamo nella storia, a modo nostro, nella parte opposta della Francia. Nel sud asciutto, senza la pioggia nervosa di Parigi, triste e amata. Avremmo recitato la nostra piccola parte per la storia. Avremmo recitato il nostro copione migliore per noi stessi, senza capire quali sarebbero stati i sintomi che ci avrebbero portato a trarre conclusioni o a completare disegni ancora a metà.
Alla fine del maggio del 1944, nelle campagne e nelle boscaglie fra Watteau e St. Michel succedevano strane cose. Scorrevano sangue e demenza: gruppi di nazisti che avevano un indisciplinato e quanto mai bizzarro campo base nella tenuta Beaumarché facevano blitz in cimiteri e vecchi edifici della zona. Arrivavano, devastano e sparivano a mani vuote. Forse non esattamente a mani vuote… Presero sempre, senza permesso e con la forza, quello che poteva servirgli. Cibo, oggetti di valore, oggetti senza valore, donne…
Fra le tante storie ricordo quella di un uomo di una frazione di Watteau. Raccontò che si erano piazzati nella sua cantina e avevano iniziato un bivacco, scolandosi qualsiasi cosa fosse liquida e avesse una gradazione. Alle sue deboli proteste avevano reagito picchiandolo con un attizzatoio.
Andavano via a mani vuote se si considerava che molto spesso in quei luoghi erano nascoste persone che avevano motivo di temerli e fuggirli: ebrei, disertori, piloti abbattuti in volo, gente che in modo manifesto esprimeva il suo dissenso al governo collaborazionista di Pétain. I nostri protetti.
Non sembrava essere una caccia del genere a motivare le loro azioni e questo ci disorientava. Eravamo abituati a pensare che cercassero questo e quanto portasse a noi. Non capivamo il movente di quelle incursioni. Incursioni tanto violente e immotivate che anche chi in modo palese appoggiava il governo, teoricamente nazionalista e praticamente filo-nazista, aveva avuto modo di deprecare. Dagoût un giorno riferì ad un divertito Alain che perfino il convintissimo sindaco di St. Michel nel bel mezzo di una sbornia alla bocciofila si era lasciato sfuggire un coloritissimo “Ma che cazzo!” in materia. Alcune persone vennero ferite. Alcune persone furono uccise, come era successo tempo prima al custode della tenuta Beaumarché.
Una sera mi innervosii tanto che con un calcio ribaltai un’asse di legno che fungeva da tavolo. Distrussi tutto quello che c’era sopra. Feci l’ennesimo giuramento di scoprire qualcosa, a qualsiasi costo, e guadagnai l’ennesimo sguardo di disprezzo del gruppo di donne. Tranne Diane.
Il panico che avevamo tentato di contenere, riflettendo sul fatto che i nostri protetti non sembravano interessargli, serpeggiava comunque. Era un immotivato gioco crudele, una farsa. Cos’era?
André cominciò ad avanzare l’ipotesi che queste azioni non rientrassero in un disegno militare. Ed era vero. Mi parve l’unica cosa certa in un marasma di eventi insensati in sé e nella loro concatenazione.
“Nella strategia di quale esercito potrebbero collocarsi cazzate del genere?” mi disse una mattina che ancora ricordo, in cima a una collina da cui le case di St. Michel sembravano scatole di fiammiferi. “Quale idiota compirebbe atti tanto compromettenti e immotivati in quella che è, anche se teoricamente, casa altrui. Quando le porcherie e le epurazioni sono decise dall’alto si fa sempre tutto con gran silenzio e discrezione. C’è sempre un disegno in casi come questi. C’è anche nella follia. Ma qui…” e si interruppe lasciandomi intendere il senso di quello che voleva dirmi.
Guardai giù nella vallata prima le scatole di fiammiferi, poi il bosco, poi lontano la strada che portava al cimitero nascondiglio, sempre più difficile da gestire. Imponente e austera la tenuta Beaumarché.
“Per quanto li reputi stronzi… hai ragione tu” gli risposi scostandomi dal viso ciocche di capelli agitate dal vento. “Anche tu pensi che siano dei cani sciolti André?” chiesi. Non era proprio una domanda. Era quello che pensavamo in due e che doveva trovare espressione nelle parole.
“Esattamente…”. Il vento gli tirava indietro i capelli, scoprendo completamente il volto.
Mi rassicurava lo sguardo aperto e diretto. Mi rassicurava e, per contrasto, tornavano a galla frammenti di immagini, di sogni in cui non era così. Il ricordo di lineamenti tristi e provati di uomo ancora giovane. Ma le combattevo così: continuando a sostenere lo sguardo che avevo di fronte nella realtà, che sembrava quello di un ragazzo.
“Se non li fermiamo noi prima o poi li fermeranno i loro commilitoni…”.
“Ma è meglio fermarli prima… allora – forse - è il caso che li fermiamo noi, vero?”. Avevo deciso. E lui aveva deciso con me.
“Touché!” rispose sprofondando le mani nelle tasche dei pantaloni e coprendo con lo sguardo la vallata che il tempo caldo lasciava traboccare di fiori e verde.
ЖЖЖ
“Calze di seta… ho sentito bene?”chiesi perplessa al ragazzo.
“Calze di seta… calze di seta! Ha detto proprio così!” rispose, pazientemente, per l’ennesima volta.
“No!… Calze di seta no! Non ci posso credere!” esclamò, sconsolato, Alain con le mani fra i capelli.
“Non sarà l’ennesimo fenomeno di telefono senza fili…” insinuai, incrociando il mio sguardo scettico con quello di André che faceva con la bocca una smorfia incredula.
“Noooooo!!! Come ve lo devo dire che ha detto così!” rispose stizzito e stremato il ragazzino prima di andarsene.
“Dice la verità” osservai quando fu uscito. Anche se non mentiva c’erano troppi particolari confusi.
“Sto impazzendo…” commentò André e lanciò lontano un plico di carte. Alain si stropicciò gli occhi con tanto vigore che ebbi paura si facesse dei lividi. Bernard non fece una piega, con le braccia incrociate sul petto. Come una mummia pensai.
“Un mucchio di uomini violenti che si fa consegnare confezioni di costosissime calze di seta…” ripetei misurando a passi la stanza. Eravamo tutti molto dubbiosi.
“A furia di stare fra maschi prima o poi qualche disgrazia succede” commentò Alain dopo un po’.
“Che cazzo dici?” fu la risposta di Bernard, riscosso dal suo coma costante.
“Perché ci stai pensando? Ti senti chiamato in causa?” fu la rispostaccia.
“Piantatela…” chiese André con un tono fra la rassegnazione e la scocciatura.
Disintegravo bottiglie a colpi di pistola. Avrei dovuto smettere. Lì servivano anche le bottiglie vuote.
“È tremendo che una donna si comporti così…”. Non reagii. La considerai una voce femminile fuori campo.
Braccia tese, schiena dritta, gambe divaricate e l’ultima bottiglia nel mirino, visualizzavo nella mente il cancello della villa Beaumarché. Volute. Stemmi. Aristocrazia.
Ma chi diavolo siete? Che volete? Che volete da noi? Era la domanda costante, diretta ai suoi odiati inquilini.
Sparai.
Una notte, nel profondo della notte, un’idea mi balenò in mente nel dormiveglia.
“André!!!” feci d’un tratto nel silenzio, saltandogli addosso.
“Cos’è!?” scattò seduto a dire con la voce impastata di sonno.
“Scusa!” feci, rendendomi conto di essere stata un po’ brusca.
“Amore… mi svegli con un infarto… per poi chiedermi scusa…?” e si ridistese stanco.
“No, che dici… mi è venuta in mente una cosa” gli dissi poggiandomi sul suo torace e mettendo il mio viso di fronte al suo. “Hai notato che quei blitz… quelle stupide incursioni…. le fanno sempre in edifici molto antichi, quasi tutti fuori paese?”.
“È vero”. Dopo un attimo di silenzio la sua voce era sicura e sveglia. “Se lo fanno perché hanno in mente qualcosa o seguono una mappa… potrebbero arrivare anche qui”.
A quelle parole strinsi nel pugno la stoffa della sua camicia sotto la mia mano.
“Sono dei cani sciolti… e ci cercano?”.
“Forse non cercano noi, ma possono trovarci”.
Una pausa. Mi distesi e sentii le sua braccia attorno alla schiena.
“E chi dorme più adesso…” commentai rigida. Lo sentii sospirare. Non era stato un bel momento per fare quel tipo di scoperta.
La notte sembrava brulicare fra gli alberi. Aveva perduto d’un tratto quella stasi protettiva e solenne.
ЖЖЖ
“Non me lo porto più dietro! Con lui ci va uno di voi! Non collabora nemmeno se lo prendi a sassate…”.
“Va bene, va bene, va bene!”. Cercai di arginare alla men peggio lo sfogo di Alain. “Dimmi però cosa avete visto” tagliai corto.
Alain e Bernard avevano seguito una delle famigerate camionette con la svastica fino al vecchio camposanto di St. Anatole.
Brancolavamo nel buio e volevo notizie certe. Volevo agire per evitare che ci trovassero. Allora avrebbe perduto ogni speranza di giustizia l’intera vallata. Il nostro mondo su misura in cui dare ancora un senso alla giustizia.
“Io non capisco una mazza di tedesco… e questo” fece indicando Bernard “ha detto che lo sapeva, ma non ha capito un cavolo di tutto quello che hanno detto!”.
“Ma si può…” commentò André poggiando la fronte sul tavolo e rimanendo fermo in posizione meditativa.
“Sentite… io non so se fossero già brilli o no… ma a me sembravano un gran bel campionario di coglioni” continuò con il miglior linguaggio da caserma dei suoi momenti di nervosismo. “Non ho capito cosa, ma cercavano qualcosa… avevano una mappa, contavano passi… un ammasso di coglioni… alla fine hanno fatto solo casino e se ne sono andati perché non capivano neanche quello che facevano. C’erano due che confabulavano, uno aveva una faccia di culo assurda, e sembravano avere una bella gatta da pelare, come se non si raccapezzassero… certo se non sappiamo che dicevano non è colpa mia” insinuò guardando il solito, impassibile, Bernard. “Avete solo una mia interpretazione del teatrino”concluse, calcandosi sulla testa il cappello.
Non erano notizie che aiutavano molto. Tranne la sicurezza che avevano una mappa.
“Faremo una bella cosa…” disse d’un tratto André con un’espressione allegra, aprendo e chiudendo, divertito, una tenaglia.
Per un istante temetti che stesse dando all’acido l’unica persona lucida che mi era rimasta affianco.
“Ci stavo pensando da ieri… Tagliamo i fili del telefono di villa Beaumarché, così saranno costretti a usare la radio e noi potremo intercettare le loro comunicazioni”.
Uno non è stato nell’esercito, non è sfuggito ai mandati di cattura, non ha fatto la sua parte della contro-propaganda e non si occupa di lezioni di sabotaggio per nulla!
“Perfetto!” esclamai , battendo un pugno sul tavolo. Finalmente un’idea che ci avrebbe aiutato a dare un senso al tutto.
“Ma dobbiamo procurarci la ricetrasmittente… che non abbiamo…” precisò, posando la tenaglia sul tavolo. Ci guardammo con gli occhi socchiusi. Guardammo Alain.
“Bernard…” modularono tre voci insinuanti all’unisono.
Avevamo avuto tutti la medesima, ladresca, idea….
Continua...
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