Rumore d'ali
(De insania)
Parte X
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Aprii gli occhi, mettendo a fuoco piano le poche cose che mi circondavano; ascoltando, sempre più corposi, i rumori che provenivano da fuori. Il sole era già alto e, nel mio letto improvvisato, ero sola con la schiena appoggiata a della stoffa ruvida su rigide travi di legno. Una sensazione orribile di privazione.
A un certo punto le regole avevano imposto che le donne dormissero con le donne e gli uomini con gli uomini, non si poteva occupare tutto l’edificio: le stanze erano poche e ci ammucchiavamo come sacchi negli angoli.
Erano passate le dieci. Nel cortile non c’era molta gente. Colsi un’informazione dal vociare degli uomini: un gruppo s’era già mosso per una ricognizione. Cercai André ovunque, ma non c’era. Un ragazzo dalle occhiaie profonde e dai lineamenti larghi e piatti ebbe la cortesia di dirmi che lui, Alain e un paio di ragazzi si erano allontanati pochi minuti prima per una questione piuttosto urgente. Non avrebbero tardato molto, massimo due ore. André gli aveva chiesto di comunicarmelo appena mi fossi svegliata e lui così aveva fatto, con un’aria che era un misto di imbarazzo e orgoglio per l’impresa portata a termine.
Ecco
da chi era formato il manipolo che si era spostato dal maquis. Accettai la
novella senza dire nulla, ma dentro bruciavo. Bruciava il fatto che mi si fosse
lasciata dormire senza avvertirmi che qualcosa di importante accadeva e bruciava
il risveglio solitario che mi ricordava le giornate inutili di Parigi. Iniziai a
sentirmi infastidita e ad avere paura. Paura che non tornasse. La stessa paura
che mi aveva reso un fantasma nelle interminabili due settimane trascorse a
Parigi priva di lui. Mi erano sembrati l’anticamera della morte quei giorni;
una condanna per espiare chissà quale colpa, perché il modo di morire, in
quella città grigia massacrata dalla pioggia, non riuscivo a trovarlo. Capii in
quegli strani istanti come veramente mi ero sentita in quei giorni. Quegli
strani istanti, come un’esca, trascinarono a galla la paura. Tentai di
controllare quello stato d’animo, ma continuavo a chiedermi cosa stesse
scatenando dentro di me quella soffocante apprensione. Mi tornò in mente la
frase che mesi prima gli avevo detto con voce strozzata fra le mura fredde
dell’obitorio: “Sì, ma non devi farti ammazzare questa volta André!”.
Questa
volta… questa volta André…
Dovetti
riaprire di scatto gli occhi, che erano rimasti socchiusi nel ricordo, perché
all’improvviso l’ondeggiare di un lenzuolo macchiato di sangue, in una
folata di vento sotto un cielo livido, mi scosse per i brividi. Brividi che
arrivati al cuore ghiacciavano il sangue.
Non
dovevo pensarci. Riflettere mi stava portando delle immagini da incubo e non ero
al sicuro neanche dietro le palpebre dei miei occhi. Era necessario vivere la
realtà che avevo davanti e concedersi solo qualche rapido battito di ciglia,
perché sentivo che, se avessi indugiato ancora, quel lenzuolo si sarebbe
sollevato definitivamente mostrandomi qualcosa cui non avrei potuto resistere.
Non
mi riuscì di capire, nonostante chiedessi, quale fosse la questione piuttosto
urgente che li aveva costretti ad allontanarsi. L’atteggiamento dei ragazzi
nei miei confronti era costantemente omertoso. Vagai con i pugni in tasca
nell’ombra verde, fino a quando la voce di Diane non interruppe il corso delle
mie congetture.
“Vuoi
unirti a noi?”.
“Perché,
cosa fate?”.
“Sicuramente
nulla che ti interessi: ci hanno portato un po’ di carne e la mettiamo sotto
sale…”
Sì,
in effetti non vi aspiravo. Non era neanche una prospettiva di fronte a cui
riuscire a fingere entusiasmo, nonostante le nobili intenzioni di Diane.
“Ma
te l’ho detto perché ti vedo agitata. Forse fare qualcosa può calmarti”
spiegò.
“Ti
ringrazio, ma… mi chiedevo… Dove sono andati?”.
“Oh…
guarda, da quello che mi ha detto Alain, pare che un gruppo di camionette
naziste siano state viste spostarsi ad est di qui… alcuni uomini dicevano che
da un po’ di giorni è stata occupata una proprietà privata. Credo che siano
andati a dare uno sguardo per capire cosa succede… Mi dispiace, so solo
questo”.
“Ho
capito” dissi, chinando il capo con le mani in tasca e osservandomi le punte
degli stivali. Quelle mezze notizie non mi calmarono come volevo. Avrei dovuto
essere là con André. Avrei dovuto fare qualcosa. Avrei dovuto essere là con
lui.
Diane
mi osservava preoccupata, con le piccole mani arrossate e umide che si muovevano
fra le pieghe di un vecchio grembiule, aspettando forse una risposta alla sua
richiesta di unirmi a loro. Io temporeggiavo nel riordinare pensieri che si
fermavano a metà. Mi diedi della stupida per le angosce inutili. Perché
inutili erano. Me ne convinsi. La scintilla della lotta occhieggiava fra le
preoccupazioni che tentavo di tenere a bada. Fare qualcosa, agire. André agiva.
Io ero lì per agire, lo sapevano anche quelli che mi osteggiavano e chinavano
il capo quando parlavo stringendo i pugni.
“Ascolta
Diane…” dissi e quelle prime parole rianimarono la fiamma che mi ardeva
dentro, senza più bruciare, lasciandomi la sensazione di potere respirare più
liberamente.
“Ascolta
Diane, chi è l’informatore in paese? L’uomo con la radio di cui ha parlato
Alain… Lo conosci?“.
Diane
rimase un po’ stupita dalla domanda. Ci pensò un attimo e, lasciando andare i
lembi del grembiule qua e là macchiato, mi rispose: “Sì… certo… è il
barbiere, il barbiere D’Agoût. È lui che ha la radio e ci passa i messaggi
in codice. Ma perc…”.
“Dimmi
dove lo posso trovare Diane” le chiesi, posandole la mani sulle spalle e
osservandola dall’alto, senza lasciarle il tempo di terminare la domanda.
Diane era poco più di una ragazzina. Era molto tenera.
“A
St. Claude in piazza. Il barbiere è in piazza… Oscar, vuoi andare lì?”.
“In
piazza…” ripetei, pensando che non era certo un luogo nascosto e riparato,
al di fuori della portata di occhiate curiose. “Sì devo andarci”.
“Ma
lunedì ci andrà uno dei ragazzi…”.
“Ma
io devo parlargli al più presto e non posso farlo tramite uno dei ragazzi”.
“Ma
Oscar… anche se vesti da uomo, non puoi entrare dal barbiere e chiedere di
farti fare la barba… I ragazzi fanno così e non li nota nessuno”.
Anche
questo era vero. Mi passai come una scema una mano sulle guance; in effetti non
c’era un accidente da radere. Ma, scherzi a parte, un modo per parlargli lo
avrei trovato.
“Sì…
è vero. Ma vedrai che gli parlerò. Avete una parola d’ordine? Tu la
conosci?”.
“Sì.
Quando vai là devi dire Buona giornata.
Il merlo bianco ha cantato nella brina questa mattina. E lui ti risponderà e
la brina è diventata rugiada. Ricorda: è un tipo magro, dalla pelle terrea
con due grossi baffoni. Non dovrebbe essere difficile riconoscerlo”.
La
piccola Diane, relegata nel settore cucina, era sveglia e sapeva il fatto suo.
Dubito che le altre donne sapessero quanto sapeva lei. Nel momento in cui avevo
iniziato a chiedere non immaginavo che mi avrebbe dato tante risposte.
“Grazie
Diane. Un ultimo favore: ho bisogno di abiti femminili. Se mi presentassi così
in paese attirerei troppo l’attenzione”.
“Certo.
Possiamo chiedere a qualcuna delle altre… qualcuna che più o meno è alta
quanto te”.
E
ci dirigemmo verso l’antro in cui si salava la carne e da cui provenivano
piatti che solo in tempo di guerra potevano essere definiti manicaretti.
Diane
mi precedeva sicura, con la coda di capelli che ondeggiava ad ogni passo.
“Hm…
prova questo” fece la tipa cui mi aveva indirizzata Diane.
Se
era alta quanto me, in larghezza era il doppio di me; e se le sue gonne erano
della lunghezza giusta al contempo mi scivolavano sui fianchi. Strinsi la
circonferenza intorno alla vita bloccandola con due dita. La tipa mi guardò con
disgusto. Guardai i miei poveri pantaloni appoggiati alla spalliera di una
sedia; rimpiansi la vecchia gonna verde che avevo indossato a Parigi ai tempi
del trafugamento della macchina tipografica.
Le
altre donne, curiose, lanciavano occhiate per poi fingere di occuparsi dei fatti
propri, rituffando le mani nel poco cibo che c’era da preparare.
“Beh
che c’è che non ti garba?” domandò secca.
“Va
benissimo, solo… potresti passarmi una di quelle?” chiesi, indicando una
scatolina piena di spille da balia. Mentre Diane si chinava ad aggiustarmi le
pieghe della gonna, la tipa mi porse una spilla da balia pericolosamente aperta,
col pungiglione rivolto al soffitto.
“Senti
un po’… a che ti serve questa roba?” domandò, brandendo l’oggetto di
fronte alla mia mano che studiava come afferrarlo senza lasciarsi infilzare.
“Devo
sbrigare un paio di cose in paese” risposi laconica di fronte all’ago
scintillante.
“E
tuo marito vuole?”.
Questa
poi…
“Certo
che vuole…!”. Allungai la mano, ma la spilletta pericolosa arretrò verso lo
sguardo ceruleo da impicciona della tipa. Gli occhi come due feritoie. Incalzò:
“Senti un po’…”.
Ancora!!!!!!!!
“Ma
tu e quel tipo là… siete davvero sposati?”
“Certo
che sì” mentii… Ma mica tanto.
“E
gli anelli?”.
“Li
abbiamo venduti durante il viaggio”.
“E
dove vi siete sposati?”
“A
Parigi”.
“E
in quale chiesa?”
“Hm… hm… ah… Nôtre
Dame!” spiattellai per il rotto della cuffia, senza che mi venisse in mente
altro, e riuscii a staccarle di mano la spilla, che depositai sul fianco a
fermare la gonna. Orrenda: fondo rosa e fiorelloni giganti grigi. Tocco di
classe finale: il foulard nella medesima fantasia.
Abbandonai
l’antro che odorava di muffa e carne vecchia e ad ogni passo, vedendo
frusciare quella gonna sui miei piedi, mi chiedevo quanto sembrassi befana.
“Non
rovinarmelo, ché quello è il vestito della domenica!” fece un’eco alle mie
spalle.
Volsi
le pupille al cielo.
ЖЖЖ
Quel
giorno, nonostante fosse primavera inoltrata, faceva piuttosto freddo e starsene
impalata a tentare di capire come avvicinare il barbiere non era l’ideale. La
postazione che mi ero scelta mi permetteva di non essere vista e di osservare le
due stanze della sala da barba. Il mio via vai in mezzo alla piazza avrebbe
attirato troppo l’attenzione. Fatto sta però che, non potendo entrare nel
negozio fra i clienti che col naso all’insù si facevano ripulire le guance,
ero costretta ad aspettare che il barbiere chiudesse per fermarlo con un
pretesto per strada… ma non era prudente. Avrei dovuto inventare qualcosa, così
iniziai a guardarmi in giro cercando di trarre ispirazione.
La
piazza… l’orologio… la chiesa… il comune… pochi passanti… le case…
i balconi con i primi fiori di primavera…. E un vaso di tulipani appoggiato
sul pavimento di un balcone molto prossimo alla strada mi ispirò oltremodo.
Monsieur
D’Agoût, dopo aver spazzato e ammucchiato in un angolo le ciocche di capelli
che ricoprivano il pavimento, si appoggiò distrattamente allo schienale di una
sedia con il giornale sulle ginocchia. Il garzone, di spalle, ripuliva i
pennelli da barba. Era passato mezzogiorno e mezzo e la sala da barba finalmente
era vuota. Sulla soglia imperversava un insistente odore di colonia mischiato a
sapone. Le pareti rimandavano echi di chiacchiere da uomini: pettegolezzi
travestiti da discorsi seri.
Avanzai
un passo all’interno togliendo con la mia ombra luce alla lettura del barbiere
che sollevò il viso stupendosi di trovare sulla soglia una donna.
“Volete
comprare un fiore per madame, monsieur” mi arrischiai a dire, mostrando il
cestino di vimini in cui ammiccavano i rossi tulipani. Immaginai che una fioraia
dovesse essere quanto mai sorridente, ma abbandonai in partenza il tentativo
conservando la mia abituale espressione, per paura di risultare ridicola.
“Mah…”
rispose indeciso l’uomo.
Non
è che adesso se li compra davvero? Mi chiesi ripercorrendo mentalmente le fasi
preparatorie della messa in scena: dall’estirpazione dei fiori al
posizionamento nel vimini dalle maglie rotte e sporgenti, trovato nei rifiuti.
Immaginai un piccolo requiem per la furia della padrona.
Sollevai
delicatamente un fiore, reggendolo per la corolla di petali e tentando di
assumere almeno l’espressione di una che di fiori ne capiva veramente. Mentre
il barbiere meditava, il garzone lanciatami un’occhiata decise che i fiori non
gli interessavano e quindi di ignorarmi, scomparendo nella camera accanto.
“Ci
sono solo quelli rossi?” chiese il barbiere mentre io acquisivo credibilità
come fioraia ambulante.
“Ah
monsieur… ho dimenticato… Buona
giornata. Il merlo bianco ha cantato nella brina questa mattina” soggiunsi
col cuore in gola.
“E la brina è diventata rugiada” mi
rispose l’uomo, facendo volare le parole di conferma oltre i baffi. “Siete
nuova?” chiese, abbassando la voce.
“Qui
sì. Ma veterana quanto basta per chiedervi delle informazioni e fare
proposte”.
Tale
sparata, che mi chiedevo io stessa si riferisse all’attività di stampa
clandestina svolta a Parigi o ad altro, avrebbe lasciato interdetto quasi
chiunque. Tranne André. Ma monsieur D’Agoût rimase imperturbabile. Ne prese
atto e non mi trattò come una fiorista senza fisso negozio dalla gonna a
fiorelloni, né con l’omertà dei ragazzetti che imperversavano nel fondo del
foresta.
“Bene”
mi disse annuendo col capo. “Aspettate un attimo…. Jaques!
Jaques è tardi. Torna
a casa, altrimenti tua madre viene qui urlandomi che non ti pago abbastanza per
le ore che lavori!” gridò nella camera accanto.
Il
ragazzo era già vestito di tutto punto e, sbucato dalla porticina della stanza
salutando a stento, si lanciò per strada.
“Cosa
volete sapere?” chiese il barbiere “Stamattina sono passati due dei vostri
compagni, uno lo conosco, l’altro lo vedevo per la prima volta, ma non sono
nemmeno entrati quando si sono accorti che facevo la barba a un paio di militari
tedeschi”.
Immaginai
subito che si trattasse di André e Alain, che prudentemente avevano deciso di
non parlare con l’informatore.
“La
radio comunque non ha emesso nessun comunicato per voi in questi giorni…”.
“Non
importa. Ho comunque un po’ di cose da chiedervi…” soggiunsi, lanciando
un’occhiata nella piazza deserta per poi rivolgermi ancora all’uomo.
“I
due uomini che sono venuti qui questa mattina volevano sicuramente chiedervi se
sapete nulla su uno spostamento dei nazisti in una proprietà privata ad est da
qui”.
Smise
di passare lo straccio sulla mensola dello specchio e ci pensò un po’.
“Ad
est da qui…” ripeté come se volesse richiamare alla mente qualcosa. “Ad
est da qui - neanche due chilometri - c’è il paese di Watteau. Circa una
settimana fa ho sentito dire che hanno infilato quattro pallottole in faccia al
guardiano di una grande villa.… potrebbe essere quella la proprietà di cui
parlate”.
“Avete
sentito dire? Io ho bisogno di saperlo per certo” precisai.
“Io
so questo mademoiselle”.
“Arrivo
a quello che avevo intenzione di comunicarvi indipendentemente dalla storia
della proprietà occupata: oltre ai comunicati della radio abbiamo bisogno di
informazioni certe su quello che succede qui attorno. Ogni volta che si muove
una foglia dobbiamo sapere perché quella foglia si è mossa e chi è stato a
muoverla. Con certezza. Se vogliamo ottenere qualche risultato non possiamo
basarci sull’aver sentito dire: le strategie non si costruiscono sulla sabbia
delle supposizioni. Così saremo spacciati ogni volta che arrischieremo un
passo”.
“Dove
volete arrivare?” mi chiese il barbiere, più curioso che seccato, di fronte
al mio tono perentorio.
“Voi
siete il punto riferimento in paese. Voglio una rete di informatori e
collaboratori sicuri: lo so che qui c’è gente che è stufa delle svastiche,
del maresciallo Petain e di tutte le vaccate che ammannisce ai francesi per
convincerli che avere in testa il tacco degli stranieri è bello. Sicuramente
voi conoscete questa gente meglio di me. Nella macchia siamo abbastanza, non
abbiamo bisogno di altri, ma senza una rete di informatori e di resistenti a
domicilio siamo zero. È come se non ci fossimo. Io e gli altri ragazzi siamo
quelli che possono fare il lavoro sporco, ma ci deve essere chi ci dica con
certezza come stanno le cose per poter agire”.
“Avete
ragione. Tutti quei ragazzi non sarebbero morti… se non avessero imbracciato i
fucili alla sprovvista”. Si riferiva certamente ai ragazzi che erano stati
uccisi prima che io e André arrivassimo.
“Vi
sentite in grado di procurarci quello che vi ho chiesto?” chiesi speranzosa,
osservandolo fermo con gli occhi chiusi e la mano posata sulla mensola.
“Volete
notizie certe sulla storia di quell’occupazione e del guardiano freddato
barbaramente”. Più che una domanda era una constatazione.
“Certo”.
Annuii seccamente. “E questo tanto per cominciare, monsieur”.
“Contateci.
So già a chi devo rivolgermi” soggiunse, ritirando la mano dalla mensola e
assumendo la posizione che sembrava quella di un militare sull’attenti.
“Bene.
Vi saluto” conclusi, avviandomi alla porta. “È sicuro che sono stati
loro?” chiesi sulla soglia prima che ricambiasse il saluto, riferendomi alla
fine atroce del guardiano.
“Sì.
Questo sì. Questo credo che sia sicuro. La storia me l’ha raccontata un amico
di Watteau… io gli ho chiesto di sorvolare sui particolari macabri, ma questo
me l’ha detto di sicuro… Fate passare uno dei vostri uomini fra un paio di
giorni. Non è prudente che veniate voi”.
Mi
voltai nuovamente per andare via, ma mi fermò.
“Mademoiselle…
Mi potreste lasciarmi qualche fiore? Sapete… per mia moglie… è morta di
tisi anni fa… li porterò sulla sua tomba”.
“Ve
li regalo tutti” gli risposi, consegnandogli tremante, in preda a uno strano
disagio, l’intero fascio fiammeggiante.
“Mi
ricordate il mio superiore quando ero al militare… consideratelo un
complimento” mi disse prendendo fra le braccia il fascio.
Lo
presi veramente come un complimento che riuscì per pochi attimi a spazzare via
il disagio per le parole che avevano ricordato la fine della moglie, ed uscii
per strada sorridendo, col cesto di vimini che dondolava nella mia mano, con la
gonna immonda che frusciava sul selciato di un paesino a cui volevano far
credere di essere al sicuro.
Osservai
l’orologio della piazza. Era tardi. Ci avevo impiegato più del previsto. E
per tornare al maquis senza essere notata dovevo fare un giro largo che mi
avrebbe portato via mezz’ora di strada.
Mi
sentii agguantare il cuore da un mano ossuta, quando mi chiesi se André fosse
già tornato. Chiusi gli occhi, poi li riaprii spaventata. Dove erano andati
dopo l’infruttuosa visita al barbiere? Avevo paura di rifare quella specie di
orrendo incubo da sveglia… Un lenzuolo che si dimenava nel vento. Il vento lo
straziava e si intrideva di sangue. Di un color cremisi che sapeva di vita
fuggita via… strappata dalle dita.
Aumentai
la velocità dell’andatura e i rami si intrecciarono sempre più fitti sulla
mia testa. La luce si fece più tenue e il mio passo sempre più veloce. Sciolsi
il nodo del foulard puntellato sulla gola e tenendomi su la gonna, il mio
camminare diventò una corsa disperata, scandita dal rumore sordo degli stivali
sulla terra, attutito dalle foglie marce, e dallo sbattere del cestino di vimini
contro i tronchi.
ЖЖЖ
Arrivai
al maquis in pieno pomeriggio.
Tutte
le volte per andare o tornare al maquis facevamo un percorso diverso per non
essere scoperti. Io non conoscevo bene tutte le strade alternative e, nel
volerne intraprendere una, avevo rischiato di perdermi nella foresta.
Stanca,
senza la forza di farmi domande. Soddisfatta per aver parlato con D’Agoût e
terrorizzata dal turbine di pensieri che mi seguivano da Parigi. Mi avevano
seguita nella foresta. Spietati, nonostante corressi.
Ora
la mia mano reggeva inerte il cesto e il foulard che mi ero slacciato nella
corsa per paura di non riuscire più a respirare.
“Eccola
là!” urlò una voce femminile a me nota. “Guardate! Guardate come mi ha
ridotto la gonna!”.
Nooo!
Sempre lei. Se ne stava sulla porta con le mani sui fianchi ed osservava con
sguardo raccapricciato l’orlo inzaccherato della veste.
Sentii
che le mie gambe e braccia deboli diventavano ancora più deboli.
Uno
scalpiccio concitato e alle sue spalle apparve un gruppo di persone. Alain,
Diane, Bernard ed alcuni dei ragazzi con le loro peggiori espressioni
d’allarme.
Mi
fermai, per mettere a fuoco le immagini. Mi dissi che la stanchezza non mi
permetteva di vedere l’unico volto che cercavo. Erano tutti fermi là. Il
tempo, ora che ci penso, sembrò dilatarsi. In realtà non furono che pochi
istanti. I miei occhi ripercorsero quei visi mille volte e stavo quasi per
cadere in ginocchio e mettermi a piangere, quando la gigantessa rompiscatole
disse con aria saccente: “Gliel’avevo chiesto io se tu eri d’accordo che
se ne andasse in giro da sola…” e vidi André apparire alle spalle del
gruppo e venirmi incontro lungo la gradinata. Viso e le labbra bianche. Gli
lessi sul viso la paura, la stessa che avevo temuto di scorgere fra i suoi
pensieri nei giorni precedenti… durante il viaggio… a volte, senza badarci,
anche a Parigi.
“Ma
sta’ un po’ zitta…” la interruppe, con un tono basso, con la stessa
curvatura della voce che si offrirebbe ad un insetto molesto.
Tentai
di trattenere le lacrime.
Sentii
che Diane sussurrava “Oscar… temevamo che ti fosse successo qualcosa di
brutto…” poi decisi che non dovevo ascoltare nemmeno una parola di più.
Sprofondai il viso nel petto di André e tentai, dandomi della stupida
apprensiva, di non singhiozzare. Gli passai le mani lungo la schiena per
lasciarle affondare nei capelli e sentire tutto il calore che poteva darmi.
Lottavo con il singhiozzo perché avevo bisogno di ascoltare il ritmo del suo
respiro.
Sentii
uno scalpiccio. Forse era la voce di Alain che diceva “Lasciamoli stare.
Rientriamo”. Non lo so. Non mi interessava.
Le
labbra sulla guance. “Mi hai fatto morire” mi disse. Ma capì come mi ero
sentita io. Capì che non stavo così perché mi fosse successo qualcosa o perché
mi ero persa.
“Allora?
Che state facendo?” domandò la voce femminile. Ed è comico ripensare che,
fra le sensazioni che mi dava la vicinanza del corpo di André, si insinuò il
vago desiderio di tirare a quella femmina un calcio nel sedere.
“Non
vedi?” le disse, baciandomi sulle labbra, ed io ne approfittai aggrappandomi
alla sua bocca in modo quanto mai provocante.
La
gigantessa rompiscatole si voltò scandalizzata e rientrò nel buio
dell’edificio, liberando l’aria dalla sua voce lagnosa.
Quando
mi allontanai dalle sue labbra mi resi conto di avere un torrente di lacrime sul
viso.
Lo
sentii sospirare. In fondo al sospiro il suono della voce. “Cavoli…”
esclamò sottovoce, mentre mi sembrava che apparisse sul viso un leggero
sorriso.
“Come…
cavoli?” chiesi sperduta nell’inondazione lacrimale.
“Da
quando hai imparato ‘sta cosa?” mi chiese con
lo stesso tono di prima.
“Ora…”
risposi strascicando quella parola in un suono che sembrava un singhiozzo ma che
era una risata; perché la sua espressione mi faceva venire da ridere.
Un
lampo divertito negli occhi e poi scoppiò in una risata calda che sciolse la
tensione.
“Mi
sto mettendo in testa strane idee, amore mio…”
“Nonostante
abbia addosso un vestito da befana?”.
“Ottimo
motivo per togliertelo” concluse asciugandomi le lacrime con un lembo della
manica della sua camicia. “Vieni”.
Rientrammo.
Ma di tempo per togliersi gli abiti non ce n’era. Il tempo per le questioni
private era ridotto quasi a zero in quella comunità di persone che oramai
vivevano accalcate le une alle altre.
Raccontai
agli uomini, con occhi asciutti e piglio arcigno, qual era stata la mia
discussione con D’Agoût e chiesi cosa avessero scoperto.
“Siamo
finiti giusto a Watteau” iniziò a raccontare con tono sereno e sicuro André.
“Ci sono dei veicoli nazisti parcheggiati in una grande villa in condizioni
non proprio eccellenti. Magari i padroni non ci vanno mai – forse non sono del
posto o è solo una residenza estiva - e quindi, fatto fuori il custode, il
campo è libero. Se è quello il luogo che hanno occupato dovremmo scoprire a
cosa serve loro avere una postazione là, perché la necessità di ammazzare una
persona per posizionarsi lì…”.
“Già,
ben detto Grandier. Bisogna conoscere i motivi della “transumanza” verso
quel paese. Metti che stanno organizzando qualcuna della loro cazzate, tipo
quelle scuole piene di bambini biondi che sembrano automi… Il punto è che da
fuori non si vedeva granché e le persone a cui abbiamo domandato non avevano
gran voglia di parlare… nemmeno per fare un po’ di pettegolezzo, pensa!”
lo appoggiò Alain.
“È
il motivo per cui avremo dei resistenti a domicilio. Ci forniranno sicuramente
notizie più sicure di quelle che riusciamo a procurarci da soli, destando mille
sospetti… fra l’altro” spiegai.
Mi
guardai per osservare la mia
platea.
Bernard
partecipava poco. Ascoltava con le braccia conserte. Cominciava a preoccuparmi,
intuivo a chi pensasse e che non stesse bene.
I
ragazzi, appollaiati qua e là, almeno stavano zitti e ascoltavano: era già un
passo avanti. C’era chi dondolava le gambe, nervoso, e si rodeva le unghie;
chi ogni tanto bisbigliava accostandosi all’orecchio del compagno; chi fingeva
indifferenza o si lamentava, diceva che non vedeva l’ora di entrare in azione;
due di loro si dividevano una sigaretta, l’uno vigilando che l’altro non
aspirasse troppo, dal momento che riuscivano a rollarne una dopo giorni e giorni
di spiluccamenti di tabacco altrui.
Mi
sarei fatta ascoltare così da loro altre volte. Questa era solo la prima e ci
ero riuscita. Avevo i miei soldati.
ЖЖЖ
“Vedi
di non fare rumore…” disse a bassa voce André ai piedi della scalinata di
legno che portava al primo piano. La sua immagine avvolta nel buio tenue che
stava per essere spazzato dall’alba.
“Credi
che non lo sappia?” sottolineai un po’ indispettita, staccandomi
dall’ombra tesa fra una rampa e l’altra. Mi sembrava strano dover scendere
furtiva da quelle scale con lui che mi aspettava di sotto.
Ad
ogni gradino che mi avvicinava a lui cercavo un’immagine più nitida del suo
volto. Ma solo una parte del viso era rischiarata dai primi bagliori; l’altra
inghiottita dal buio più oscuro.
Non
ero riuscita a prender sonno.
I
cento respiri, le cento teste sognanti e disperate delle donne che dormivano o
rimanevano ferme nel buio me lo avevano impedito una notte ancora. L’aria era
consumata e le assi di legno sempre più scabrose sotto la schiena ad ogni
minimo movimento. Avevo abbandonato la speranza di dormire e mi ero alzata. In
realtà non avevo sperato neanche un attimo di dormire: quella strana notte
avrei chiesto solo di sognare. Ma in quella stanza forse i sogni di tutte quelle
teste diverse si intrecciavano, si accavallavano e si ostacolavano. Avevo quasi
paura che sogni altrui, troppo tristi o troppo insignificanti, si
sovrapponessero al sogno che aspettava di germogliare fra i miei pensieri
inquieti, lasciandomi, impaziente e insoddisfatta, a fissare un soffitto che non
potevo vedere.
Avevo
scavalcato le loro teste, i loro sogni e loro storie ed ero sgattaiolata fuori
dalla stanza nella notte. Ero rimasta ferma nelle tenebre che una rampa di scale
gettava sull’altra.
Avevo
udito la voce di André fra le voci degli uomini di guardia all’entrata.
L’avevo udita con un tuffo al cuore e mi sarei accontentata anche di starmene
così, ad ascoltarlo. Ascoltare le parole misurate con cui ogni tanto rispondeva
a quello che gli veniva chiesto.
Pensai
alla storia dell’abito da befana e al bacio del pomeriggio e sorrisi protetta
dall’oscurità.
Pensai
al sogno che tentavo di far germogliare da sola, stesa fra i corpi delle altre
dormienti o insonni. Pensai a tutte le volte che era germogliato nella mia testa
e a tutte le volte che non era stato solo un sogno e che non erano mai
abbastanza.
André
col passo stanco ed incerto si avvicinò alla scalinata, forse per andare a
stendersi per terra e cercare un po’ di riposo dopo quella giornata e il turno
di guardia. La luce diafana della luna e gli impercettibili bagliori dell’alba
impregnarono il bianco della sua camicia. Forse non avrei detto nulla e sarei
rimasta lì nel buio a guardarlo in un modo che neanche immaginava se, fermatosi
un istante, non avesse detto piano, incredulo: “Oscar? Sei là?”. Ed avevo
abbandonato il mio nascondiglio nell’oscurità. Ed ero scesa nascondendo la
fragilità e l’urgenza del sogno dietro il cipiglio da guerriero.
“Stai
andando a dormire?”. La mia domanda. Sperando in un no.
“Preferirei
stare un po’ con te…”.
“…
e tu allora non credere a tutto quel che vedi quando chiudi gli occhi”.
“Questa
non è una risposta André”.
“È
la risposta che posso darti”.
Ci
fu una piccola pausa.
Oramai
il cielo era quasi completamente chiaro anche se il sole non si vedeva ancora.
Un quarto di luna sbiadiva ad altezze vertiginose a picco sulle nostre teste.
“Perché
ti aspetti che sia io a darti una risposta?” mi domandò.
Io
non risposi e continuai a fissare lo spicchio di luna.
“Cosa
ci può essere dietro un lenzuolo Oscar?” mi chiese di nuovo.
“Cosa
ci può essere dietro un lenzuolo inzuppato di sangue, vorrai direi” corressi,
sentendo che una ruga all’improvviso mi correva sulla fronte e temendo che
s’incrinasse la voce.
Vidi
passare una nuvola sullo spicchio di luna. Si srotolò nel vento e sparì dalla
mia vista. Rimase solo il mormorio degli alberi.
“Non
di certo un uomo che dorme…” aggiunsi a voce più bassa. Mi bloccai perché
temevo che le parole si sparpagliassero in corsa, come la nuvola srotolata senza
pietà dal vento. E mi vergognai. Mi vergognai della piega che prendeva il
discorso, come mi ero vergognata dell’apprensione che mi aveva soffocata
durante tutto il giorno, fino a quando non gli avevo letto in viso la stessa
paura che avevo io.
Se
io stavo impazzendo non doveva farne le spese André.
Mi
morsi un labbro passandogli una mano fra i capelli, spostandoglieli dal viso e
dal collo dove aderivano a piccole ciocche. Capii che non avesse voglia di
rispondermi e mi diedi la colpa del respiro inquieto che mi sfiorava il petto,
lasciandomi sulla pelle piccoli brividi.
L’erba
sotto la schiena era morbida e umida e il quarto di luna sulla mia testa chiaro
quasi quanto il cielo. Stava per perdersi nel giorno.
In
fondo non era giusto che dovesse essere sempre lui a consolarmi. E che dovesse
farlo anche per cose che immaginavo da sola, fossero frutto di fantasia o
residui di vecchie paure.
Il
fatto era che quelle ondate di immagini che irrompevano violente per poi
scomparire iniziavano a farmi stare male. L’ondata prorompeva all’improvviso
e si ritirava agonizzando come in un gorgo. Se dopo rievocavo quelle immagini
erano più sbiadite. Meno brutali, ma aumentava solo il tormento. Ogni immagine
nuova stava diventando come un colpo di pugnale a tradimento. Non sapevo mai
quando sarebbe arrivato il prossimo ed ogni volta avevo la guardia scoperta; ed
ogni volta era come se mi colpisse dove c’era già una ferita.
Mi
scossero i brividi. Sussulti maligni.
“Fa
freddo. Rivestiti…” disse André, sollevandosi sulle braccia.
Il
mio sguardo scorse di nuovo quella maledetta cicatrice che aveva sul petto.
“Cicatrici come quella nascono da fiumi di sangue” pensai.
Dovetti
girarmi di lato per nascondere una lacrima che istintivamente tentai di
asciugare, però lui mi bloccò la mano.
“Non
ti senti bene?” mi chiese. Ebbi paura che in quel momento lui fosse troppo
distante.
“No…
che dici, sto benissimo” mentii, ritraendo la mano e controllando la voce,
nell’abbozzare una specie di sorriso. “Ho solo un po’ di terra
nell’occhio” mentii, guardandomi le mani sporche di terra e del verde
dell’erba.
Scosse
il capo e si portò una mano fra i capelli. Non ci aveva creduto. Non era
distante André.
Ci
fu un altro lungo silenzio in cui tenni gli occhi chiusi.
Li
aprii e se ne stava ancora seduto sull’erba mezzo nudo con un braccio su un
ginocchio flesso e gli occhi lucidi rivolti lontano, le labbra strette e la gola
che serrava l’inquietudine.
La
cicatrice… il lenzuolo insanguinato… riordinava la mia mente…
Si
accorse che lo stavo guardando. Se ne accorse. Interruppe il corso dei miei
pensieri.
“Dai…Vestiti
Oscar. Prenderai freddo” disse, passandomi una mano sul braccio come per
riscaldarmi e per scacciare via i brividi. Mi stese addosso uno dei lembi della
camicia che mi era rimasta infilata a un braccio.
Un
altro silenzio. Il silenzio di chi deve decidere cosa fare.
“André
non mi lascerai sola vero?” gli chiesi abbracciandolo alle spalle. Non se
l’aspettava.
“Ma
che dici? C’è bisogno di chiederlo?” rispose. Non so se fosse stupito o
deluso per quella domanda la cui risposta per lui era scontata. Lo strinsi forte
e schiacciai il viso, il seno, il corpo nudo contro la sua schiena. La sua mano
sulle mie braccia che lo circondavano.
“Io…
Oscar questa storia…” poi fece una pausa, sospirò, come se non riuscisse a
dirmi quello che voleva. “Anche se è successo… io non l’avrei mai voluto.
Mai! Capito?”. Sospirò ancora. “Mai! Mai!”. Quasi senza fiato.
Rimasi
ferma. Tentai di capire se si riferisse alla spedizione che lo aveva allontanato
da me la mattina prima o a qualcosa di diverso. Qualcosa che rimaneva coperto
sotto un lenzuolo sporco di sangue che si agitava nel vento.
Strinsi
più forte. Fino a sentire le ossa. Fino a sentire i battiti.
ЖЖЖ
Che
cosa ti potrei dire, Oscar? Che so come succede?
Che
da quelle immagini non hai nulla da temere. Ma si può temere anche quello che
è stato, dovresti imparare a sopportare questo.
Non
ci sono parole, ancora, per raccontare. Che io non volevo lasciarti sola. Che
non volevo…
ЖЖЖ
“Ehi
ragazzi!” proruppe nella tensione del maquis la voce di Alain. Arrivava dal
sentiero, con le mani in tasca ostentando nell’andatura la sua solita calma
olimpica.
Era
il mattino di due giorni dopo e nessuno credeva che avremmo avuto le notizie che
cercavamo, ma nessuno fiatava per non dare alla stratega, alla povera donna, il
dolore di essersi sbagliata. Almeno nessuno fiatò finché l’uomo dalla calma
olimpica, di ritorno dal barbiere, non infranse il silenzio.
Scambiai
uno sguardo con André che si alzò per andargli incontro. Io rimasi seduta ai
piedi della scalinata, giocherellando con un ramo sulla terra.
“Volete
qualche storiella campagnola… magari su una bella villa zeppa di svastiche?”
domandò retorico il nostro inviato, sollevandosi la visiera del cappello col
pollice. Un gesto tutto suo.
“Certo!
Non aspettavo altro” gli risposi alzandomi e scuotendomi la terra dai
pantaloni.
Ci
guardammo un attimo tutti e tre. Il gioco era ripreso. Ci saremmo resi conto più
tardi che da Parigi a Vichy non si era interrotto un attimo. E che le carte
ancora coperte sul tavolo erano sempre le stesse.
Vecchie carte, già scoperte in un vecchio gioco già finito, spettavano a me. Solo a me.
Continua...
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