Rumore d'ali

(De insania)

Parte I

 

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Breve premessa.

Nella storia francese un periodo paragonabile per drammaticità a quello della Rivoluzione è quello della Seconda Guerra mondiale. La Francia è occupata a nord dai nazisti, a sud c’è il governo collaborazionista della Repubblica di Vichy. La situazione “ideale” per dare ai Nostri una seconda chance per realizzare i propri sogni, nel nome degli ideali di libertà che li hanno animati.

Buon viaggio nel tempo!

 

                                                                           ЖЖЖ

 

La nostra storia sfida il tempo.

Sfida la ragione perché viola la realtà, direbbe qualcuno.

Cos’è la realtà, se non ciò che è nelle cose. E come possiamo dire di vedere con esattezza ciò che è nelle cose per il solo fatto che crediamo di vedere?

Ho imparato che due occhi in fondo non sono che un indizio: non bastano.

Trent’anni di questo tempo per me e per lui: dalla guerra a questi istanti. Ma non c’è stato un solo giorno in questi trent’anni, in cui, guardandolo negli occhi, non abbia pensato che invece è una storia che dura da secoli, e che lui l’ha sempre conosciuta meglio di me.

E penso che da quel giorno di trenta anni fa, in cui mi strinse il polso nelle strade di una Parigi sbranata dalla storia, mi aiuta a capirlo e me lo nasconde con i suoi sorrisi, perché forse in lui è rimasta ancora aperta una porta che dà sul passato.

Anche ora, che un po’ più curvo di un tempo annaffia le rose del nostro giardino.

Io quel sorriso lo conoscevo prima di incontrarlo: è la sensazione di trovarsi di fronte ad una distesa

di papaveri rossi che scivola verso il mare; e certe notti mi svegliavo di soprassalto col terrore che sbiadisse fra il fumo e le pallottole. Anche quando la guerra era un ricordo.

Forse un giorno metterò a posto tutti i pezzi del mosaico che è la nostra storia, ma non importa; importa solo che come dal primo giorno posso intuirli nei suoi occhi.

Ora in questa camera in penombra, fra due quadri che raffigurano quello che ero e quello che sono, riprendo il mio violino, abbasso adagio l’archetto finché non tocca le corde tese, e, con gli occhi chiusi, suono per noi, e per quel momento in cui lui mi disse, fra le lame di luce che filtravano da una persiana chiusa, che la mia musica era l’unica ragione per cui si rendeva conto che il tempo scorresse ancora.

 

Era il gennaio del 1944 ed ero furiosa. Mi tremavano le mani e guardando oltre i vetri, alle spalle di Victor che spazientito giocava con la stilografica, mi chiedevo per quale motivo un sole così spensierato osasse ancora splendere sulla Francia imbavagliata.

“Non ci posso credere, sei una pazzoide… Anzi no, sei proprio pazza. Sei una pazza!” mi diceva senza guardarmi in faccia scuotendo i riccioli.

“E tu? Tu mi fai così schifo che non mi sporcherei le mani a colpirti.” Lo pensai e glielo dissi.

Lo volevo stanare da tempo. Da tempo mi chiedevo “Ma quanto fai schifo direttore? Quanto sei codardo? Sei un merdoso collaborazionista, come i servi di Vichy o cosa, sotto la tua facciata di prudenza?”

Gli avrei scaraventato in faccia il portafiori di ceramica che era vicino al bordo della scrivania, ma stringevo i pugni e ringhiavo quello che avevo da dire.

“Ehi, ma insomma? Datti una calmata! Tu non devi occuparti di questi argomenti: primo perché, te l’ho detto mille volte, ti occupi di cronaca mondana e di nient’altro; secondo perché se pubblico un articolo come questo qui saltiamo per aria tutti…”

 

 

Sono nata col bagliore della lotta negli occhi, diceva mio padre. Della lotta e non della guerra, che mi fa accapponare la pelle mentre il suo odore gira fra le strade meste di Parigi e fra le camionette dell’occupatore.

Per la mia lotta sola arma la penna ed un nome da uomo: Oscar.

Mi chiamo Françoise Moreau, ma da anni, per lottare, sono Oscar François de Jarjayes. Ho fatto come hanno fatto altre donne prima di me, come George Sand o George Elliot, per sguainare la penna e cantare il mio credo.

Mi sono battezzata da sola il giorno che su una tela ho incontrato uno sguardo uguale al mio, talmente uguale che ho creduto di riflettermi in uno specchio. “Ritratto di Oscar François de Jarjayes” c’era scritto nel catalogo, e null’altro. Ho preso il nome della donna del quadro che ora occupa un’intera parete nel mio salotto, per ricordare di alimentare la fiamma che mi arde dentro.

All’inizio mi prendevano poco sul serio, non ero che una femmina in pantaloni che si firmava come un uomo. L’ennesima bizzarria di una Parigi libertina che oramai andava a ruota libera.

“Ehi, ma i pantaloni li freghi dopo notti di fuoco ai tuoi poveri amanti, come fa Marlene Dietrich? Quella sì che è femmina… Aaah che cosce!” Per avere battute da caserma, è noto, non è necessaria una caserma, basta un gruppo di uomini, ed in redazione ero l’unica donna. Storcevo le labbra e non rispondevo: non avevo amanti, solo i miei credo ed un cuore un po’ rattoppato.

Credetti per anni di amare Hans, ma scoprii da sola che avevo coltivato un’illusione. Una sera indossai abiti femminili per lui, ma quando mi disse che mi aveva riconosciuto solo perché glielo aveva detto Alain, mi allontanai, perché ebbi l’impressione di non avere davanti un uomo, ma un pupazzo di cera. Mi raggiunse e mi baciò. Non ho mai provato un disgusto simile in vita mia. Quella sera ebbi la sensazione che l’amore ed il mondo dei sensi non facessero per me.

L’amore erano due labbra bavose? Era solo quello?

Buttai anima e corpo nel lavoro, e tutti capirono che avevo le unghie per graffiare. C’è chi se l’è sentite tanto sul collo che ha pensato di arginarmi: Victor Clement de Girodel, il direttore del mio giornale.

Relegata alla cronaca mondana. Posto che sotto il calcagno di un padrone vampiro si possa ancora parlare di mondanità. Io che non me ne importo nulla, mi spegnevo un poco ad ogni stupido articolo che ero costretta a scrivere, come se stessi svendendo ogni volta un pezzo di me. E sentivo che lentamente tradivo lo sguardo della donna del quadro.

Lui sempre riccioluto ed accomodante ogni volta che ci premevano il calcio del fucile sulla nuca si prestava al gioco del padrone di turno. Non lo intuivo, ma lo sapevo per certo. Però non lo odiavo, mi disgustava. E la voglia di smascherarlo in tutto il suo schifo davanti alla redazione mi spinse a scrivere un articolo che sapevo benissimo non sarebbe mai stato pubblicato. Non sovversivo. Allusivo. Quanto bastava perché si sentisse preso con le mani nella marmellata.

 

 

“Ne ho veramente le scatole piene di questa femmina! Non ti ho sbattuta fuori giusto perché non si dica che discrimino le donne… io sono sensibile a queste cose. Come ti saltano in mente certe idee? Ma che vuoi? Mettitelo bene in testa che qui il direttore sono io…”

“È questa consapevolezza che mi preoccupa, cosa pensi!”

“Prova a farlo di nuovo e ti faccio scrivere l’oroscopo… ti farò rimpiangere la cronaca mondana…”

“Ma capo, non mi sembrava così abominevole” disse Bernard “ certo… con qualche limatina nello stile…”

“LIMATINA UN CORNO!” gli gridai in faccia. Complimenti Bernard, non hai capito niente pensai.

Gli altri erano tutti ammutoliti, chi non era nella stanza origliava dietro la porta. L’aria era velenosa.

“QUESTA SETTIMANA TU NON SCRIVI UN CAZZO E SE LA SETTIMANA PROSSIMA NON FAI QUELLO PER CUI TI HO ASSUNTA NON SCRIVI UN CAZZO DA QUI ALL’ETERNITÀ!”

“Non mi hai assunta tu, immagazzina quest’informazione, giacché il tuo cervello è un garage vuoto, può tornarti utile!”

Lo lasciai con la mandibola che fluttuava a mezz’aria, dritto sulla sedia come uno stoccafisso. Non ha mai avuto la capacità di rispondere, lo zero assoluto della reattività: quando eravamo bambini aveva avuto problemi anche quando giocavamo a “Un, due, tre, stella”…

Scansai Bernard ed uscii dalla stanza con falcata da militare. Scesi le scale senza salutare nessuno. Nella corsa urtai qualcuno.

“Ehi, Oscar…” era Alain, il responsabile della tipografia.

“No guarda… lasciami stare…” gli dissi mostrandogli i palmi delle mani.

“Il solito scannamento del venerdì?”

“No, peggio del solito e spero che sia l’ultimo…” risposi mentre aprivo il portone che dava sulla strada.

“Ah va beh, come le ultime trenta volte”

Neanche ti rispondo, neanche ti rispondo Alain… pensai, ed uscii nella luce fredda del pomeriggio.

 

 

Non mi andava di fare la vipera velenosa chiusa in gabbia: non tornai a casa e vagai per le strade, nel freddo che mi screpolava le mani e congelava i pensieri. Nel sole che moriva.

“Sono quattro anni che il sole muore, per me muore e basta, sulla lama dell’orizzonte. Ogni mattina quasi non riconosco la palla luminosa che sale ridendo in cielo.

Quattro anni che ci aspirano il sangue, perché alle colonie si aspira il sangue. E questi quattro anni in cui non ho fatto nulla è come se mi avessero mozzato le mani. Non reggo più la penna con dignità. È diventata così pesante da slogarmi le dita, lo so. Forse è ormai inutile che mi ritenga una giornalista.

La gente camminava a testa bassa, chiusa nei paltau coi baveri alzati. Ognuno a difendersi da tutto e tutti, ed io facevo lo stesso.

A cosa è servito che le generazioni passate si siano immolate…” e tutte le volte che lo pensavo mi scuoteva un brivido. Un brivido troppo forte, troppo forte, perché fosse nato solo da un pensiero: era una scossa fatta di mille stelle che mi esplodevano nel petto, e solo un rumore d’ali a consolarmi.(1)

Appoggiai la mano al muro freddo e scrostato di un vecchio palazzo, ebbi la sensazione di non vederci bene e che mi si piegassero le gambe, ma rimasi in piedi aspettando che passasse.

Mi sento male pensai. Ora mi siedo per terra. La puzza di urina mi pungeva il naso ed i topi squittivano nei cassonetti.

Sono una stupida, sento il bisogno di appoggiarmi a qualcuno. Ancora un po’ e riapro gli occhi.

Si sentivano delle voci concitate, voci flebili e voci sferzanti. Riaprii gli occhi ed in un angolo scorsi un capanello di gente. Non avevo nessuna voglia di stare ad ascoltare, ma alcune frasi mi inchiodarono i piedi a terra.

“Ma controllate… non ho nulla… non sono stato io…”

“Verme, qui puoi avercelo solo tu!”

“Giuro… che… che non l’ho preso…”

Mi avvicinai ad una donna e le chiesi che cosa stesse succedendo.

“Hanno rubato il portafoglio ad uno. E dicono che è stato quel ragazzino lì con il cappello nero” mi rispose. Due uomini con divisa e svastica spintonavano il ragazzino, un altro di loro, con due baffoni da topo di fogna leggeva un documento.

“Guarda, guarda… Ti chiami Pierre Lyon… Pidocchio com’è che sei ancora qui? Quelli come te devono aiutare la nazione nei campi di lavoro. Si può rimediare sai? Il lavoro nobilita l’uomo…” disse.

“Ma signore io non ho rubato nulla!”

“Sergente questo non ha niente…” riferì uno dei due soldati che perquisivano il ragazzo.

“ZITTO IDIOTA, FA POCA DIFFERENZA! Per quel che mi riguarda quelli come lui sono capaci di ingoiarselo un portafogli, per cagarlo nella tana il giorno dopo. Non dovrebbe essere qui.”

Squadrò il ragazzo con aria di scherno e gli disse “Ora tu vieni con noi e vai dove devi andare!”

Molte persone si allontanarono, io feci un passo avanti pensando questi sono pazzi!

“NO… NO, NON È GIUSTO! NON HO FATTO NIENTE NON VENGO CON VOI…”

Il ragazzo iniziò a dimenarsi mentre i due tentavano di spingerlo sulla camionetta.

Il topo di fogna se la rideva.

Il ragazzo si divincolò, uno dei soldati gli mise un braccio intorno alla gola. 

Il ragazzo lo morse e quello si piegò sulle ginocchia gridando, l’altro scivolò nel fango al bordo della strada e cadde col sedere a terra.

Il ragazzo corse via.

Vidi qualcosa luccicare sotto gli ultimi raggi del sole ed aprii la bocca per urlare, come intuendo quello che sarebbe successo, ma un rumore sordo esplose prima che riuscissi ad emettere un solo suono.

Un schizzo di sangue e il ragazzo cadde a terra come una foglia, sbattendo la testa.

Un urlo agghiacciante di donna “PIERRE!”

Il topo di fogna con la pistola teatralmente alzata come quella degli starter dei cento metri, rideva a singhiozzi.

“MALEDETTO BASTARDO!” riuscii finalmente a gridare, sperando che il mio urlo gli si conficcasse in petto come una freccia e feci un altro passo per scagliarmi verso di lui mentre la gente fuggiva.

Mi sentii strattonare indietro, qualcuno mi serrava il polso e mi trascinava lontano.

Trascinata indietro continuavo a guardare i rivoli rossi che scorrevano lungo i solchi della strada;  tentai di resistere ma sentii una voce dire “FERMA! Smettetela, smettetela! Che credete di poter fare? Farebbe fuoco anche su di voi!”

Ebbi la sensazione che mi esplodesse il sangue nel cuore, smisi di divincolare il braccio e mi girai di scatto per capire chi mi avesse trascinata dall’altro lato della strada ed incontrai due grandi occhi verdi ed una ciocca di capelli scuri. Non so quanto durò, a me sembrò un secolo, ma cominciai ad andare disperatamente alla ricerca di parole da dire e tentai di rovistare in tutti i cassetti della memoria per capire chi fosse. Cominciai ad avere la sensazione che qualcosa si stesse lentamente staccando dai sedimenti della mia memoria per salire a galla e per aiutarmi a capire cosa gli volevo dire. Troppo lentamente ed iniziò a prendermi una strana smania.

 

Mi era già successo una volta dal fioraio, davanti ad un enorme mazzo di rose bianche. Ero rimasta a guardarle ferma e muta col batticuore. Mi svegliò la voce perplessa del fioraio “Allora, mademoiselle?” e mi accorsi che alle spalle gli altri clienti mormaravano “Ma insomma… che flemma!”

 

Aprii la bocca per dirgli qualcosa, ma lui mi prese per le spalle ed avvicinandosi, mentre io imbarazzata voltavo il viso dall’altra parte, mi disse sottovoce “Zitta! Non dite nulla per carità e pregate che nessuno vi abbia sentita!”

Mi prese per mano e mi portò via da lì. Mentre ci allontanavamo guardai di nuovo il corpo bianco per terra, la donna che urlava ed il macabro ricamo rosso sul lastricato della strada. Sentii le lacrime

scivolarmi lungo le guance e cristallizzarsi nel gelo; l’unica cosa calda era la sua mano che stringeva la mia rigida e gelata.

Voltato l’angolo lasciò la presa; mi sentii abbandonata ed iniziai a gridargli contro.

“MA VI SEMBRA GIUSTO? VI SEMBRA GIUSTO DITEMI? ERA QUELLO… ERA QUELLO IL SANGUE IMPURO CHE DOVEVA BAGNARE I SOLCHI ? ERA QUELLO? ”

Mi guardava e lo sentivo respirare a fatica mentre il fiato si faceva fumo. Ebbi l’impressione che non riuscisse a rispondermi e allungò una mano per togliermi i capelli dal volto.

“NO!” gridai, come se avessi paura che mi facesse male.

Sentii il rumore di un filobus e mi misi correre per raggiungerlo.

“ASPETTA!” sentii gridare alle mie spalle, ma non mi voltai, perché sospettavo che se lo avessi fatto non sarei più potuta tornare indietro.

Riuscii a raggiungere il filobus, ma nel salire misi male un piede e vidi rotolare giù per la strada la scarpa. Lo vidi che rincorreva il filobus, ma ormai eravamo troppo lontani ormai.

Mi sedetti tremante. La gente mi guardava come se fossi una pazza.

Spettinata, vestita da uomo e senza una scarpa… forse avevano ragione. Continuai a piangere torcendomi le mani viola, mentre il sangue mi ronzava nelle orecchie.

Fuori il sole non c’era più. Era morto di nuovo e nel buio che cancellava la città avevo l’impressione di sentire un sussurro: «Marciamo, marciamo, che un sangue impuro i solchi bagnerà!» (2)

Domani devo tornare al giornale?

E continuavo a pensare a lui.

 

 

Mi diressi verso casa, maledicendomi per non averlo fatto prima, con in mano l’unica scarpa che mi era rimasta. L’androne era buio e silenzioso, si vedeva un lumicino solo nella guardiola del portiere.

 Mi fermai davanti alle scale e guardai in alto per rassegnarmi al fatto che dovevo fare quattro rampe di scale con le piante dei piedi sul marmo freddo. Dal buio la vidi sbucare, come tutte le sera a quell’ora: Jeanne, capelli neri, pelliccia nera, trucco degli occhi nero, umore nero, sigaretta tattica.

“Ma guardala! Che vuoi fare? Hai deciso di lanciare una nuova moda, alla carmelitana scalza?”

“Sì” le risposi laconica, sottintendendo e non mi scocciare!

“Dopo i pantaloni…”

“Avrei comunque sempre più gusto di te!” la interruppi, mi dava più ai nervi del solito; che andasse

dove doveva, a spogliarsi nei locali fumosi!

“Sì, sì… vabbè…” la sentii dire mentre usciva dall’androne e lanciava la cicca accesa fra le piante.

Entraîneuse e piromane pensai togliendola dal vaso e lanciandogliela dietro.

Misi il piede sul marmo gelato e il mio sguardo volò in alto, nella tromba delle scale.

Prima rampa.

Il sangue che scorre nei solchi, bagna la terra per avvelenare i frutti che mangeremo, perché Caino sgozzi Abele ogni giorno, quando il sole muore.

Seconda rampa.

La mia speranza è bruciata lenta, come un tronco di quercia nel focolare, ma ora è quasi tutta cenere (3). E la lancerei nel vento se servisse a far sbocciare fiori.

Terza rampa.

Ti cerco, eppure sono fuggita. Chiedo alla memoria di cercarti, ma è un sottile dolore pensare che il buio in cui ti nascondi è proprio la memoria.

Quarta rampa.

Sei un’ombra che sa di zucchero e fiele, e con questo sapore sulle labbra ho percorso milioni di strade, ho incrociato migliaia di occhi, ho trattenuto fiumi di lacrime.

 

 

Nella credenza c’erano gallette rafferme e carne secca. Cibo bellico. Non avevo fame, avrei bevuto qualcosa di forte, ma non avevo nulla. Richiusi l’anta ed aprii la custodia del violino. Sì, avrei suonato fino a farmi sanguinare le dita, e me ne sarei fregata delle grida dei vicini.

Ora esisto solo io!

Dalle corde tese del violino uscirono suoni che somigliavano vagamente a quelli immaginati da Mozart: ebbi l’accortezza di condirli con tutta la rabbia che avevo in corpo. Povero Mozart, filtrato dallo schifo che avevano visto i miei occhi! Le corde gemevano sotto l’archetto. Al diavolo ogni regola, non doveva essere un’esibizione, ma uno sfogo primitivo.

Guardavo nella luce del lume il quadro che occupava quasi tutta la parete. Troppo grande per una stanza così piccola, troppo bello per una casa così vuota. Quando lo comprai Bernard commentò: “Certo che a momenti sei proprio megalomane!”

Lo sapevo, a momenti non avevo neanche un dubbio, ma allora credevo d’essere solo un’illusa, e che quell’immagine mi giudicasse.

Fra le note stiracchiate ebbi l’impressione che stessero bussando alla porta. Smisi un attimo di suonare ed ascoltai. No, nulla era solo un’impressione. Non appena rialzai l’archetto il mio povero

violino fu graziato da due colpi sul legno della porta.

Ecco, qualcuno osava protestare. O era Rosalie che rimasta sola a casa, non sapendo che fare, bussava alla mia porta. Quella sera sapevo che qualunque cosa avessi detto sarebbe stata poco gentile.

Mi sentivo particolarmente incivile.

Mi diressi nell’ingresso brandendo l’archetto e girai in un colpo il chiavistello; la porta scivolò veloce e liscia sui cardini, aprendosi sulla penombra del pianerottolo e sulla sagoma di un uomo.

Capii subito chi era, ma i miei occhi ci misero un po’ a confermarmi quell’intuizione, giusto perché il silenzio risultasse ancora un po’ più lungo e pesante.

Lui mi guardò in volto, poi guardò l’archetto che penzolava dalla mia mano e mi sorrise.

“Era la vostra musica?”

“No!” risposi sfacciatamente, lasciando scivolare l’oggetto incriminante sulla sedia vicina.

“Ah… Credo che abbiate dimenticato questa”

Così dicendo mi porse la scarpa che avevo perso.

Continuai a rimanere in silenzio e mi sentii il viso caldo: dovevo essere vergognosamente arrossita.

Presi la scarpa, la guardai, me la rivoltai in mano. Per difendermi dovevo attaccare.

“E voi com’è che siete arrivato fin qui? Come sapete dove abito?”

Tentai di sostenere lo sguardo, lui invece lo distolse.

“Sono un amico di Alain…”

“Ah sì…”

“… si fa questa strada per andare a casa sua… Alain una volta mi ha detto che in questo palazzo abitava una sua collega, che…”

“Ma come…”

“Sei Oscar! Vero?!”

Non riuscii a replicare perché non mi sembrò una domanda. Era un’affermazione, lo capii perché

da quell’istante in poi cominciai a sentire che quello era il mio vero nome e non uno pseudonimo.

“Sì.”

“Bene, allora… allora hai di nuovo due scarpe… Oscar…”

Che tristezza di battuta… ma non volevo che si sentisse a disagio. Quant’è bello.

“Già… grazie…”

“Come ti senti?”

“Sto bene…”

“Eri sconvolta, mi sono preoccupato… tremavi…”

“Quella scena… non sopporto… Ero arrabbiata, tutto qui.”

Ma non era solo quello. Tenni lo sguardo basso e non riuscii ad andare avanti.

“Posso vedere da vicino quel quadro?” mi chiese, facendo un cenno verso la stanza di fronte.

Rimasi stupita da quella richiesta e lo guardai senza decidermi a rispondere. Avevo paura di farlo entrare.

“Io dipingo… vorrei solo dare uno sguardo…”

Allora sentii la mia voce dire “Entra…”

Mentre si dirigeva verso il salotto gli osservai le spalle, poi lo seguii. Rimasi qualche passo indietro,

osservandolo mentre osservava il quadro. Poi si girò a guardarmi.

“E’ il tuo ritratto.”

“No… non è mio… è un quadro del Settecento. L’ho comprato qualche anno fa perché lei mi somiglia.”

“Ritratta come Marte…”

Poi si voltò a guardarmi. Posò lo sguardo su di me indugiando, tanto che ebbi quasi la sensazione di non avere più gli abiti addosso e mi sentii a disagio. Forse se ne accorse, perché rivolse ancora un’occhiata al quadro e si diresse verso la porta dell’ingresso.

“E’ molto bello… davvero” mi disse tornando a guardarmi.

“E’ piaciuto subito anche a me… così… così l’ho comprato”

Non trovavo le parole, ma continuavo a cercarle dal pomeriggio.

“Arrivederci allora?”

Perché questa ora mi sembrava una domanda? Non sapevo che dire.

“E grazie per la scarpa” gli risposi stringendo la sua mano tesa.

Indugiò un attimo e sentii scivolare il suo pollice sul dorso della mia mano. Tremai .

Mi sorrise un po’ deluso e mi rispose “Prego”.

La porta si chiuse. Abbassai il capo e mi portai una mano sul viso. Avrei voluto sprofondare.

Che cretina e che figura. Altro che Marlene Dietrich. Avevo il batticuore e rimanevo ferma nell’ingresso, davanti ad una porta chiusa, mentre tentavo di ricordare quale impulso il cervello dovesse mandare alle gambe perché si muovessero, e non lo ricordavo. Non lo ricordavo, perché era ancora troppo forte la sensazione che qualcosa si stesse faticosamente staccando dal fondo della memoria ed offuscava anche necessità di correre via e buttarmi sul letto e tentare di piangere.

Due colpi sul legno della porta mi distrassero.

Quanto tempo era che vegetavo come una scema davanti alla porta chiusa? Forse pochi secondi che mi erano sembrati un eternità. Abbassai automaticamente la maniglia, senza svegliarmi del tutto, né pensare minimamente a chi potesse essere.

Ma mi svegliai subito. Mi svegliai appena sentii le sue labbra sulle mie, e mi accorsi che mi stringeva il viso fra le mani. Credevo che mi bruciasse la bocca. E capii che volevo bruciare.

“André…”

Inspiegabilmente pronunciai quel nome. Era un pezzo di memoria tornato a galla?

“Sì” mi disse e mi strinse. Poi mi sussurrò in un orecchio: “Ti devo chiedere una cosa. Ma non mi rispondere subito, lo so che mi diresti di no, pensaci un poco… per favore”

 

 

Solo nebbia e freddo; non si vedeva a un palmo dal naso, ma tornai in redazione il giorno dopo.

Si sentiva la voce di Alain che canticchiava, sembrava che ci fosse solo lui, ed io ero lì solo per parlare con lui.

Entrai nella tipografia e lo trovai chino con la penna in mano su alcune carte. Al rumore dei tacchi delle mie scarpe smise di cantare ed alzò lo sguardo.

“Buondì, hai visto che sei tornata?”

Poggiai una spalla allo stipite della porta e guardai in giro per la stanza piena solo di macchine fredde. Sembra un obitorio pensai.

“Già… ma non per cambiare idea su come la penso”

“Senti un po’… secondo te è normale che il responsabile della tipografia corregga le bozze?”

“Non è poi così strano…”

“Guardati intorno allora”

“Che vuoi dire?”

“Se vuoi i soldati per una tua personale battaglia… beh guarda… qui non c’è ne sono quasi più”

Gli tolsi la penna dalla mano.

“Vuoi dire che è inutile…”

“E’ inutile così, Oscar. Chi leggerebbe quello che vuoi scrivere? La gente stenta a campare, chi se ne importa di leggere un giornale. Guarda qui” mi disse indicandomi una tazza di caffè “questo me lo chiamano caffè, ma ormai è una cosa nera, acqua colorata. Li ho visti macinare legumi e stranezze varie. Poi io chiedo ehi amico dammi un caffè, mi danno ‘sta porcheria. Ma che possono farci, mi danno quello che possono.”

“Alain, io queste cose le so. Lo so che non serviamo più a niente. Ma non voglio comunque che un verme debba dirci cosa fare e, al contrario di quello che credi tu, voglio che qui nessuno dimentichi cos’è giusto e cos’è sbagliato…”

“Vuoi la resistenza passiva?”

“Sì… lo so… non è che mi piaccia un granché… ma sempre meglio della fuga attiva.”

Riprese la penna e continuò a tracciare dei segni sulle bozze.

“Comunque ti ho detto che non sono qui per parlare di questo.”

“Allora parliamo d’altro”

Esitai un poco, poi sputai fuori la mia domanda.

“Conosci uno che si chiama André?”

Continuò a scrivere e si mise a canticchiare quella vecchia canzone (4):

“Avevo un compagno, il migliore, non c’è più. Nella pace e nella guerra andavamo come due fratelli, marciando allo stesso passo…”

“Ehi Alain, se non te ne sei accorto ti ho fatto una domanda…”

“… Ma una pallottola soffia nell’aria, chi di noi sarà ferito?…”

Che canzone orrenda. Mi faceva stare male, non ci avevo mai pensato.

“… Ecco chi cade a terra. Lui è nella polvere ed il mio cuore è straziato…”

“Alain!”

“… Vuole prendermi la mano, ma io carico il fucile. Addio dunque, addio fratello mio, in cielo e

in terra saremo sempre uniti.”

“ALAIN!”

“Non ti è piaciuta?”

“Proprio no! Mi rispondi?”

Lasciò la penna sul tavolo e mi guardò stendendo le gambe e massaggiandosi la nuca.

“Certo che conosco André.”

“E’ un pittore?”

“Sì, è lui. Stai prendendo informazioni?” mi punse.

Che fastidio e che imbarazzo. Mi allontanai per non tirargli un pizzicotto e perché sentii di essere diventata viola.

“No, che c’entra…” risposi affacciandomi alla finestra, come se con quel muro di nebbia fosse logico stare lì a guardare il panorama. “Ci ho parlato ieri. Ci sono stati degli incidenti in città, non so se hai sentito…”

“Sì, ho saputo… merda!”

“Ero fuori di me… e mi ha detto di stare calma…”

“Sì era André. Ma lui è molto più di un pittore…”

“Non mi frega di altro…” troncai bruscamente il discorso mentendo, perché ormai ero troppo a disagio e pensavo al momento in cui le sue labbra erano state sulle mie, temendo che Alain vi scorgesse l’impronta. Avrei voluto chiedergli “Com’è che gli hai mostrato dove abito?” Poi pentita aggiunsi “Ma me ne avevi già parlato?”

Tutta la notte mi aveva tormentata il fatto di aver intuito il suo nome, e di aver provato una sorta di liberazione nel pronunciarlo.

“No, no ricordo… ma non credo!”

“Va bene… nient’altro Alain” risposi dirigendomi verso la porta strofinandomi le mani e facendo l’indifferente.

Alain riprese la penna.

“Te ne vai?”

“Sì, ci vediamo domani. Ah… un consiglio non cantare più quello schifo di canzone!”

“Guarda che la conosce anche André” mi rispose sardonico.

“Non me ne frega niente Alain e non so come ti sopporti la tua signora!”

“Diane è una buongustaia!” sentii dire all’eco della sua voce mentre percorrevo l’atrio.

 

Camminavo guardando le mattonelle dell’atrio irregolari e scheggiate, di colori diversi. Un solo pensiero nella testa: “Che ti risponderò? Qual è la risposta giusta André?”

 

Ma presto lui mi avrebbe insegnato ad ascoltare senza paura il suono della risposta giusta.

 

 

 

(1)   Mi riferisco alla colomba che Oscar vede volare in cielo mentre è sta per morire.

(2)   Un verso della Marsigliese.

(3)   L’ispirazione per questa frase viene da «Piccolo testamento» di E. Montale (La bufera): "Solo quest’iride posso lasciarti a testimonianza d’una fede che fu combattuta, d’una speranza che bruciò più lenta di un duro ceppo nel focolare."

(4)    «J’avais un camarade» è un canto tradizionale.

 

Continua...

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