Racconto amaranto

(Be my Wound)

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Acqua nel catino e vergogna sulle mani.

Questo hanno lasciato i sogni che si avverano sulla pelle delle gambe: sporco. Sangue e liquido appiccicoso.

Avrebbe creduto che i sogni avverati lascino nel cuore la voglia di respirare tutta l’aria del mondo e di correre nel vento. Invece è lì a tenersi su la gonna e a tentare di pulirsi, con l’impressione di non riuscirci mai, nonostante l’acqua sia finita e la pelle sia rossa per lo sfregare.

Forse è così che vanno le cose nella realtà, quando i sogni si avverano. Deve essere lei quella sbagliata, quella che si aspetta troppo. Non sa neanche sognare nel modo giusto.

“No… il corpetto no” le aveva detto. “Ci mettiamo troppo tempo”. Non era molto lucido. Lei lo sapeva quando si era allontanata con lui, sperando che succedesse quel che poi era successo.

I rumori della sala da ballo si erano spenti attraverso le camere buie e si era trovata con la schiena al muro e la gonna sollevata. Era stata felice in quel momento, anche se non era esattamente come lo aveva immaginato. I baci non bruciavano come aveva sempre creduto. Sapevano della saliva di un altro. E il poco piacere avviluppato al dolore non aveva significato più nulla dopo quel grido.

“Maria Antonietta… Maria Antonietta!”

 

Sono solo pensieri. Non è stato poi così brutto. È stato un errore. Non è detto che non pensasse a me. Forse domani mi sembrerà una cosa meravigliosa.

Proprio non è il caso di piangere. Il buon soldato perde e muore con onore. Le lacrime non servono a cambiare nulla. E poi l’esperimento a qualcosa servirà oltre che a questo dolore che non taglia solo la carne fra le gambe, ma che piega quel che rimane dell’anima come cera sotto la fiamma.

Perché, da quando ha visto il viso di André che la attendeva dietro la porta con il candeliere in mano e gli è passata davanti coprendosi il rossetto sbavato con il bavero del mantello, le sembra di dover tollerare un male fatto per due.

 

Ha provato voglia di schiaffeggiarla, mentre saliva al piano superiore dandogli a stento la buonanotte e dicendogli di andare a dormire. Ma sono i sospetti della mente di chi troppo desidera e sopporta la febbre melmosa che la notte lascia nel ventre.

Devo essere io che sono sbagliato. Non è così. È solo il mio peggior terrore e temo che si avveri mille volte per ogni istante che passa lontano da me.

Stanotte sarà intollerabile perché lei ha voluto essere donna per lo svedese.

Ma è sicuramente il sospetto malato di un cuore che ormai si è consumato e fra poco rimarrà solo un muscolo che si agita nel petto. Se la schiaffeggiasse morirebbe di rimorso un attimo dopo.

Deve essere lui quello sbagliato.

 

ΔΔΔΔ

 

Troppo difficile credere che la donna spettinata che la osserva da dietro il velo dello specchio sia innocente. Si sta aggiustando con la mano tremante dalle vene azzurrine una ciocca di capelli dietro l’orecchio, la sgualdrina.

 

La paura.

Sembra di toccarla, la paura. Ha qualcosa di diverso e violato negli occhi.

Non è più possibile limitarsi a parare stoccate e perdere con dignità. Affonda con rabbia e paura, come non ha mai fatto, la punta della lama che scintilla davanti agli occhi di Oscar che trasale.

La tira indietro più spaventato di prima e mormora “Scusa”.

 

“Di che ti scusi? Io con te lo faccio”.

“Lo so”.

“Ricominciamo?”

“Va bene”.

“Sei silenzioso oggi”.

“Ricominciamo?”

 

In guardia.

 

ΔΔΔ

 

Continua a lavarsi come se le macchie fossero tatuaggi sulla pelle, anche se sono andate via da giorni, ma si costringe a pensare a Fersen, perché non può smettere ora. Non adesso, non può rinunciare a tutto adesso. Lei lo ha sempre voluto. Desiderato.

André però la guarda come se le volesse scavare dentro senza pietà. E sarà tutto perduto se, anche lui che è il suo punto di riferimento, riuscirà a leggerle sul volto la colpa che vede riflessa tutte le mattine nello specchio. André non deve saperlo. Per non cambiare mai.

 

C’è qualcosa che mi nascondi Oscar. E che ho terrore e voglia di scoprire. Qualcosa sta cambiando: lo sento da come soffia il vento stanotte fra gli alberi. Qualcosa sta cambiando per sempre.

 

Il ceppo verde piange nel camino odore di resina. Lui versa un altro bicchiere. Lei abbassa lo sguardo.

 

“C’è la bufera fuori”.

“Già”.

“Vieni con me a Versailles domani?”

“Come sempre Oscar”.

“Sei così scontroso che temevo non ne avessi voglia”.

“Anche tu non sei molto socievole”.

“…”.

“È colpa della bufera o di cos’altro madamigella?”

“Non sei spiritoso. Versami dell’altro champagne”.

“A cosa brindiamo?”

“Non brindiamo”.

“Al dormire, al morire, al nulla!” dice lui alzando il calice e portandoselo alle labbra.

 

“Non ti sopporto quando fai così!” dice lei dopo un attimo.

 

ΔΔΔ

 

Ha fatto un gesto, come se si sentisse soffocare, e se n’è andato volgendole la schiena, senza ascoltarla mentre tentava di fermarlo. È sparito in fondo a uno dei tanti corridoi di Versailles nella luce del mezzogiorno.

L’ha vista, mentre Fersen tentava di toccarla di nuovo, schiacciata contro il muro. E lei tentava di essere felice e di non sentirsi sporca, e di non allontanarsi come il cuore e il corpo le dicevano in quel momento.

Adesso André lo sa. Forse è perso anche l’affetto di André si dice, mentre si rende conto che in lei di amore non c’è n’è quasi più. Ora che dovrebbe essercene.

Perché stare così male?

Non per Maria Antonietta. Fersen non la tradirà mai veramente, qualunque donna prenda.

Perché stare così male allora?

Per sé…

Per André…

Perché i sogni che si avverano distruggono la vita di chi li ha desiderati. Forse è meglio reciderli tutti prima che inizino a fiorire. È meglio trovarli fioriti per caso su uno stelo.

Ma in certi giardini di fiori non ne sbocciano.

 

Non è possibile. Non è possibile… Quello che si è illuso un giorno sarebbe stato solo suo è stato donato a un altro. Eppure ha sempre creduto che gli volesse un bene profondo. Ma non basta un bene profondo. Alcuni dicono che la strada per possedere un corpo è più breve di quella che porta al cuore. Se è così può smettere di sperare. La speranza è andata via, forse è per questo che non ha più senso alzarsi e respirare. Forse è per questo che la rabbia blocca ogni nervo e la lacrime non riescono a uscire dagli occhi di pietra.

Non è giusto. Non è giusto… Io che ho ingoiato veleno nell’ombra delle rose…

Non è giusto. Ora so anch’io come si deve fare per affondare la spada con leggerezza e furore. Adesso lo so anch’io… Ma per te so che non fa differenza. Mi vendicherò per vendicarmi di me stesso.

Tu non batterai ciglio perché lo ignorerai. Come ogni giorno mi ignori.

 

ΔΔΔ

 

In questo mondo è sbagliata anche l’aria che respiro.

È stata la fine di tutto. È stato come se crollasse tutto quello che era sempre stato immutabile e sicuro.

È stata veramente quella la fonte di questo dolore immenso e inarginabile?

È così freddo e lontano. Non è più la stessa persona. È un altro che non ha mai conosciuto.

Per uno sbaglio del genere è questo il prezzo? L’unica persona che avevo per me. È il prezzo per essersi dimostrata una sgualdrina. Perché deve negarmi la sua comprensione la persona più comprensiva del mondo, l’unico uomo che era mio e basta?

La stessa domanda fatta ossessivamente lasciando affogare la risposta mille e mille volte mentre il buio corre sul giardino cancellando il tramonto.

André serra le labbra e tace dall’altra parte della stanza. E le pieghe ai lati delle labbra si fanno dure come l’acciaio.

Se lei continua a lasciare affogare quella risposta, quella risposta non lascerà le labbra di André.

 

ΔΔΔ

 

Una puttana per un’altra! Voglio morire!

Me lo sta portando via! Ed io morirò senza sapere perché sto così e senza parlare con nessuno di cui mi importi. Perché ormai a lui di me non importa più nulla. Il ricordo cattivo dell’uomo che amo mi perseguita ed ho il dubbio che questo sia inferno e non vita.

La ragazza cammina tranquilla per il palazzo, felice, da qualche settimana, come se fosse una regina.  Lo sa, è sempre stata disinvolta e non l’ha mai biasimata. Ma adesso vuole ucciderla.

Lui le parla, si intendono, si mettono d’accordo. Lo ha capito. L’ha vista una notte dirigersi verso la camera di André. E poi un’altra notte, e un’altra ancora.

“Madamigella gradite dello zucchero nella cioccolata?”

“No. Vattene”. Bastarda.

André di spalle con le mani in tasca guarda oltre il parco.

 

Serve solo a non pensare per un’ora. O a pensarla come un’ossessione perché so che non è lei e tutte le volte mi chiedo com’è avere lei. E non guarisco mai.

 

ΔΔΔ

 

È scesa un’altra notte e l’insonnia alza la guardia.

Un’ombra cammina sulle punte dei piedi con una mantellina sulle spalle. Si muove incerta nel buio senza far rumore.

Eccola di nuovo. Non è un’impressione, un sospetto. È lei. E va verso quella camera. Lui l’aspetta. Come l’aspetta?

Non si può perdonare. Io sto male e lui non mi parla. Non mi parla perché sono una sgualdrina, ma sotto il nostro tetto si porta nel letto la puttana del palazzo.

 

“Che fai?”

La ragazza trasale sentendo sulla gola la mano fredda che la afferra e la spinge contro il muro nel buio.

“Oh… Madamigella… io… io”.

“Tu cosa? Che fai?” Ha la voce neutra e cattiva.

“Andavo a bere”.

“Le cucine sono dall’altra parte”.

“Ma…”

“Sta' zitta! Tu sei una ladra!”

Le posa una mano sulla bocca e le preme la testa contro il muro. Sa di averle fatto male, ma vorrebbe fargliene di più. Lei trattiene le lacrime da quella sera di sogni avverati e qualcun’altro deve provare il dolore.

“Devi stare zitta. Sei una ladra e basta!”

La ragazza sta tremando. 

“Non è vero…” tenta di ribellarsi.

“Sei una ladra” le sibila.

“Non sono una ladra! Andavo da…”

“Lo so dove andavi!”

“Io…”

“Se ti azzardi di nuovo ad andare da lui ti frusto nel parco… e se domani mattina non sei sparita da qui ti prendo per i capelli e ti sbatto per strada. Hai capito?” le grida contro soffocando la voce e la ragazza terrorizzata annuisce.

“Hai capito?”

Se continua così sverrà, si piegherà come un giunco sul pavimento. La lascia andare.

“Madamigella… di lui a me non importa… lui chiama sempre il vostro nome…”

“Sparisci! Sparisci! Non voglio più sentirti! Vattene!”

La ragazza sparisce col suo spavento nel buio della notte e lei pensa che è stata una fortuna che non avesse un’arma, altrimenti ora avrebbe le mani sporche di sangue.

 

Si è fatto molto tardi ed il buio è solido come la pece.

Apre piano la porta, senza ritegno.

Se ne sta steso su un fianco, di schiena alla porta. Forse si è addormentato.

No. Non si è addormentato, si muove un attimo appena sente il rumore della porta. Penserà che finalmente ce l’ha fatta ad arrivare la piccola puttana, ma non si volta. Indifferente non dice una parola.

Gli posa una mano sulla spalla per tendere la trappola. Accarezza la pelle nuda. È dolce sotto le mani. Scende piano lungo il braccio e le salgono le lacrime agli occhi.

Si accorge all’improvviso che qualcosa non va, perché lui conosce a memoria i contorni di quella mano, li potrebbe disegnare a occhi chiusi, anche se il tocco l’ha sempre solo immaginato. Si volta sperando di non sognare, mentre sente il respiro e poi le labbra sul collo.

Un colpo secco sul viso e un altro. Avvampano sulla pelle.

Le blocca il polso e sente il peso del ginocchio sullo stomaco.

Ha perso l’equilibrio. Si rialza e tenta di colpirlo di nuovo senza forza, a vuoto. Tenta di divincolare i polsi ancora bloccati.

“Sei impazzita? Che ti è saltato in mente?” riesce a chiedere senza fiato.

“Lasciami… animale! Ti sei guadagnato ogni colpo! Ogni colpo!”

“Io… mi sono guadagnato questo…? Chi ti ripagherà del tuo altruismo… brutta strega!” glielo urla in faccia nel buio e a lei sembra di vedere il luccichio delle lacrime negli occhi. Ma deve essersi sbagliata, anche se gli occhi sono abituati al buio non è possibile vedere.

Si è accorta che lo vuole come non ha mai desiderato nessuno, per questo con la mano libera lo deve colpire forte come non mai.

Lui schiva il colpo, che gli sfiora il viso con le unghie, e lei perde di nuovo l’equilibrio perché lui si è spostato. Continua la lotta senza parole. Solo suoni.

Cade di nuovo e si trova con la camicia di notte che la scopre fino alla vita, le gambe libere all’aria della notte. È nudo lo sente stringendolo sullo stomaco e lo avvinghia con le gambe, disperata. Lo guida, lui sa che deve fare e non si ferma. Quei graffi sulla schiena lo fanno morire ed è così umida e accogliente, anche se continua a dirgli che gli vuole fare solo del male. Lei gli fa capire cosa vuole, preme le labbra contro le sue e continua a serrare le gambe intorno ai fianchi da fargli male e comincia a chiedergli di non smettere.

Prega solo che nessuno li senta mentre combattono nel buio e le spegne la voce con un bacio.

 

È sorto il sole dietro le tende semichiuse illuminando la stanza..

Sente che lei al suo fianco si mette a sedere ed inizia a vestirsi. Fa per girarsi col cuore in gola.

“Per favore… per favore non ti girare...” gli chiede lei con la voce tremante.

“Va bene” le risponde piano rassegnato, posando di nuovo la testa sul cuscino.

“Preferisci che oggi non venga con te a Versailles?” le chiede con lo stesso tono, fissando il vuoto e aspettandosi un rifiuto.

Lei è vicino la porta e si sente dolorante nel corpo; l’anima è serena e respira. Razionalmente dovrebbe sentirsi immorale: esce dal letto dell’amico di sempre. Si dà la colpa perché non riesce a capire la gravità di quel che ha fatto. Non riesce a capire come sia potuto succedere.

“No… Vestiti. Accompagnami” riesce a dire prima di uscire.

André chiude gli occhi e si rifiuta di sognare.

 

ΔΔΔ

 

Il tramonto è già in agguato all’orizzonte.

Le candele tremano nell’ampio salone sul tavolo lungo e freddo.

Il generale si asciuga le labbra e fa le solite domande di rito a Oscar. Lei risponde precisa e sintetica, come sempre di fronte al padre.

I soliti discorsi. Turni. Doveri. Strategie. Armi.

André, in piedi alle sue spalle, si chiede se veramente a lei interessino tutte queste cose fredde e asettiche. Guarda il generale che annuisce soddisfatto a non sa quale discorso. Oscar è composta sulla sua sedia.

“Bene. Allora ci vai domani”.

“Sì padre”.

“André viene con te, vero?” aggiunge con noncuranza il generale, dandolo per scontato pur volendosene assicurare.

“Certo padre” risponde Oscar con lo stesso tono di voce.

Il generale lancia un’occhiata di assenso ad André che ricambia. Un fuggevole ultimo contatto con lo sguardo di Oscar.

Gli viene da sorridere. Il padre le consegna la figlia fiducioso. Se il padre sapesse cosa significa quello sguardo fra loro sarebbe meno tranquillo.

Faticherebbe a distinguerli la notte. Sempre allacciati nel buio. Non distinguerebbe neanche le voci; gli sembrerebbero lamenti di morenti. Non potrebbe immaginare quello che la figlia militare gli chiede in quei momenti. Quello che le chiede lui. Non può immaginare la notte il generale.

Non può immaginare nemmeno come mi sento io a volte, quando mi chiedo lei a cosa pensi. Perché mi accontenti. Se pensa ancora a quello là, nel chiamare il mio nome.

È successo dopo qualche giorno dalla prima volta. È successo a intervelli sempre più brevi e disperati, nel buio del palazzo senza molte parole.

Di giorno non se ne parla; gli occhi si cercano in silenzio quando il tramonto è in agguato all’orizzonte.

 

Perché lo fa come se dovesse morire un attimo dopo?

Si sta sentendo soffocare e non riesce a tenere il ritmo. Lui si muove come se in quei momenti non riuscisse a contenere una rabbia e un risentimento che le sembrano destinati a lei, nonostante le abbia sussurrato nell’orecchio che l’ama. Forse perché tutte le volte se ne sta zitta senza riuscire ad articolare le parole o forse perché immagina ancora di vederla nel corridoio con Fersen.

Ma tutta quella rabbia le fa male. Non al corpo. Al cuore. Così inizia a piangere in silenzio.

“Scusami… scusami… ti prego…” dice sentendo le lacrime sulla spalla contro cui lei nasconde il viso. Lo sente sospirare.

“Ti prego scusami… ti ho fatto male? Ti ho fatto male?” chiede, sollevandole il viso.

Come faccio a spiegartelo André che non è per quello…

“No… no…” gli risponde, scuotendo il viso in lacrime nel buio.

Non ricordo più da quanto tempo non piango.

Lo blocca quando tenta di allentare la stretta. “Per favore… per favore non muoverti… rimani così” gli chiede.

Rimane fermo. Poi si scosta portandosela sul petto, mentre lei continua a rimanergli aggrappata. Aspetta che si calmi giocherellando con il capelli e coccolandola.

Come sempre non gli spiegherà nulla.

Quando sente che il respiro è regolare le chiede di continuare. Lei lo bacia, si solleva pronta al gioco, ma lui la ferma.

“Non così… Oscar…”

“Come?” gli chiede stupita.

“Stringimi… stringimi forte…” le dice abbracciandola.

E Oscar si chiede perché stanotte deve piangere tutte le sue lacrime.     

 

Oscar, continuo a chiedermi senza risposta qual è il grado di pazzia che c’è nel tentare di guarire usando come medicina la malattia stessa. Tu sei la malattia. Tu sei la medicina.

Prendermi il piacere, mangiarti, accarezzare come una reliquia ognuno dei segni che mi lasci sulla pelle e sentire il tuo corpo scosso degli spasmi e sapere che sono stato io… Sì… ma non ha senso possederti così, senza averti mai.

 

Io credo che Nanny sappia tutto.

Tante volte non abbiamo badato a cancellare le tracce. Da un po’ di tempo ha iniziato a prendersi cura lei personalmente delle nostre camere e a non lasciar entrare nessun altro.

Non ha mai detto nulla.

L’altro giorno, mentre, nonostante le mie proteste si ostinava a pettinarmi i capelli, ha scoperto il segno che ho sul collo. Ha finto di non vedere, poi mi ha lasciato la spazzola ed ha preferito uscire dalla stanza.

Dovrei sentirmi in colpa tutte le volte che guardandomi svestita nello specchio vedo i segni lasciati dalla notte.

Non mi sento neanche un po’ in colpa.

Mi sento ancora sporca se penso a quegli incontri con l’altro nei corridoi di Versailles. E lo so che non tornerò mai più pulita.

Mi stringo ad André e mi illudo di esserlo. E lascio che rimangano i suoi segni, perché mi fanno sentire pulita. Anche se so che non è possibile, quando li vedo penso che sia così. E ne lascio sulla sua pelle perché si ricordi che non deve toccare più nessun’altra donna.

Io… lo so che dovrei sentirmi in colpa.

 

ΔΔΔ

 

“Tu credi che avrà la meglio l’uomo in calzamaglia perché te l’ha detto l’uccellaccio nero?”

“Non è esattamente così…”

“Non ti suggestionare. Non hai l’età per cominciare a credere a queste scemenze”.

“Ti stai divertendo troppo con questa storia, non vorrei che a furia di giocare facessi qualche stupidaggine”.

Appoggia la sella in un angolo e si ferma con una mano sul fianco ad osservarla senza sapere cosa rispondere. La paglia è illuminata dal sole e fuori si sentono i rumori dell’andirivieni delle carrozze nel parco.

“Hai capito cosa voglio dire?”

“Che sto facendo lo spaccone?”

Lei sbuffa abbandonando le mani sui fianchi e poi incrociandole sul petto. Vorrebbe dirgli che ha avuto paura dal momento in cui con quel colpo secco di pugnale ha tagliato i capelli, che sono scivolati a coprirgli i lati del viso, ma aggiunge spazientita: “Come preferisci… Ho detto questo se ti è gradito”.

André non replica e si avviano verso l’uscita.

Le posa una mano su un braccio. Oscar trasale, perché questi contatti non sono per la luce del giorno, appartengono alla notte e al buio, che li proteggono dagli errori.

Tenta ancora di convincersi alla luce del giorno che quegli incontri con un uomo che per anni ha reputato un consanguineo siano sbagliati. Non ci riesce perché torna sempre sui suoi passi; ma la notte è un alleato che ingoia ogni gesto e ogni parola. Per poche ore di luce si può fingere che non sia successo nulla e tornare a sbagliare poco dopo al buio.

“Che hai?”

“Niente”.

La stringe pericolosamente per pochi istanti e le labbra si incontrano. Lei lo allontana imbarazzata lasciandogli una carezza timida sul viso e se ne va dalla stalla.

 

ΔΔΔΔ

 

Continua a fissare i fogli zeppi di parole. Tutte parole che non significano nulla. Forse perché gliene importa sempre meno.

Le lettere ogni tanto si confondono nota, con la mano sulla fronte a reggere il capo. Non riesce a leggere una parola, senza trovare che non abbia senso.

“Esimio Colonnello… numero trecento baionette... la parata in occasione della sacra festività di… massimo decoro nonché…………. allorquando reputiate valente…”

Le gira di nuovo la testa, perché quel pensiero non la abbandona. Le gira la testa non appena si distrae un attimo e quel pensiero le toglie il respiro. Ogni giorno diventa sempre più insopportabile sola fra le armi, i soldati e le formalità da espletare.

Tutto quel sangue, un fiume di sangue. Le grida nel bosco. I giorni passati nel buio a stringergli la mano, quella mano che non era mai stata così debole e indifesa. Sentire che trasaliva dal dolore ad ogni più piccolo movimento. E chiedersi come abbia fatto ad arrivare fino al Palais Royal in quelle condizioni per salvarla dalla segreta.

Ma cos’hai fatto? Cosa ti ho lasciato fare?

Ieri il dottore le ha detto che possono scostare le tende e lasciar entrare un po’ di luce. Ormai l’occhio non vedrà mai più.

Lui continua a stare steso sul letto perché fa fatica a stare in piedi. È molto dimagrito ed ha le labbra pallide. Le è venuto da piangere quando l’ha visto nella poca luce che filtrava dalle tende, si è voltata ed è corsa a prendergli qualcosa da mangiare. È tornata con il vassoio e con le buone ha tentato di costringerlo a mangiare qualcosa. Lo ha anche sgridato perché le ha detto che era troppo e non è riuscito a mandare giù tutto.

Tu mi dici che sei felice che questa cosa orrenda sia capitata a te e non a me. Io con te riesco solo a fare un errore dietro l’altro André.

Le gira la testa per il dolore, come se anche lei portasse una ferita, sente il cuore contrarsi e annebbiarsi la vista tutte le volte che lo rivede, da solo, steso su quel letto. Più passano i minuti e più diventa un’ossessione il pensiero di lui e di quella lontananza forzata.

Girodel la guarda preoccupato e curioso, mentre si prende la testa fra le mani e si porta indietro i capelli sudati sulle tempie. Tenta di respirare di nuovo e riesce a sganciare gli occhi dal foglio sulla scrivania. Si alza e facendo un altro respiro profondo gli dice che non si sente bene, che deve andare a casa e che sarà meglio che di quei documenti se ne occupi lui.

Se ne va chiudendosi la porta alle spalle, senza aspettare una risposta.

 

ΔΔΔΔ

 

“Come ti senti?” gli chiede, posandogli la mano sulla fronte per controllare non abbia linee di febbre.

“E tu…? Non dovresti essere a Versailles?”

“Come ti senti?” gli ripete, come se non avesse sentito la domanda.

“Meglio” risponde lui, chiedendosi a cosa stia pensando. “Questo pomeriggio non ho nessuna intenzione di rimanere in questo letto” aggiunge mentre lei si allontana.

Lei non risponde, si avvicina nervosa alla finestra e apre un po’ di più la tenda. La stanza si colora di una dolce luce dorata.

“Ti dà fastidio così?”

“No… anzi lo preferisco” le risponde, chiedendosi perché sia così nervosa.

Se ne sta ferma vicino alla finestra con la mano sulla tenda. Gli sguardi indagatori la rendono ancora più suscettibile in situazioni del genere. Lui china il capo sulla spalla socchiudendo le palpebre e la lascia nei suoi pensieri, investita dalla luce del mattino.

Sembra che passi un’infinità di tempo, sbriciolata da qualche rumore sommesso. Gli sembra che il respiro di Oscar si stia facendo preoccupato e irregolare, riapre gli occhi per cercarla a la trova.

È il suo respiro che si spezza ora e le parole si polverizzano, alla vista del corpo bianco che si libera nella luce degli abiti. Lo fa tremando, con gli occhi bassi e le guance infuocate come se non avesse mai compiuto quei gesti.

Sono sempre scivolati l’uno nell’altra come clandestini nel buio complice. Nessuno ha mai visto il corpo che conosce a memoria, lo ha solo intuito nell’ombra e immaginato chiudendo gli occhi.

Lui si sente morire lì steso sul letto ed ha paura di chiedersi perché lo faccia.

Col viso arrossato e gli occhi lucidi scosta la coperta e gli si siede addosso a cavalcioni, vorrebbe dirgli qualcosa, ma riesce solo sollevare lo sguardo e a fissarlo negli occhi, perché le sue mani già la toccano come lei gli ha chiesto in tutte le lotte febbrili nel buio. La cicatrice che taglia la palpebra è ancora arrossata ed evidente.

Una pioggia di capelli e labbra morbide sulle sue. E sente che ha il viso bollente. La lingua che cerca la sua gli fa affluire il sangue nel capo e come una scarica scende nel ventre. La stringe di più senza chiedersi perché stia succedendo; perché si darebbe una risposta cattiva.

“Aiutami…” le chiede, tentando di sfilarsi la camicia, anche se ad ogni movimento l’occhio fa ancora un po’ male.

Lo aiuta a svestirsi, divorando ogni pezzo di pelle con gli occhi e con la bocca. Il cuore in gola, temendo di perdere i sensi, e lo sguardo alla porta: non ricorda se ha chiuso a chiave. Poi se ne dimentica perché gli lascia fare tutto quello che vuole.

 

ΔΔΔΔ

 

È troppo tempo che il rancore si è incardinato al cuore. A volte gli sembra che lei lo ami. A volte gli sembra che quell’amore lo travolga. Poi ricorda quel giorno che li ha visti a Versailles e gli sembra di affogare in una rabbia fatta solo di dolore.

Essere costretto a incontrare Fersen nei corridoi della reggia riapre tutte le volte la ferita.

Si scambiano parole cortesi e formali, lui è sempre inappuntabile e perso dietro la regina; Oscar si irrigidisce tutte le volte che lo vede.

André confonde il sapere con il sospetto. Il sospetto che lei sia entrata nel suo letto con quella incontenibile disperazione per dimenticare il suo amore per Fersen.

È come se dal cuore stilli una piccola goccia di veleno.

Ora, mentre la carrozza li conduce sobbalzando verso casa, lui le sta seduto di fronte in silenzio e continua a guardarla senza pietà.

Lei sa che qualcosa non va, ma, abbassando gli occhi, cala un velo sulla sua passione e sul suo amore senza parole.

André sta male. Anche se ora gli è concesso di farla tremare senza pudore alla luce del giorno. Non era questo che voleva più di tutto. Più di tutto voleva il suo cuore.

La piccola goccia di veleno che trema vicino al cuore sbiadisce i confini fra amore, passione e disperazione. André non riesce a vederli.                        

 

“André…”

“Era così?”

“.….”

“Se non mi rispondi me ne vado!” le dice con rabbia nell’orecchio, straziandola al limite fra il piacere e il dolore, mentre la luce schiaffeggia le tende del baldacchino.

“Rispondimi!”

“Ma cosa… cosa vuoi da me?” riesce ad articolare lei senza capire.

“Stai pensando a lui ora? Eri così bagnata?” le sibila, mentre lei grida e si gli aggrappa più forte.

“Smettila… smettila! La devi smettere André!” riesce ad esclamare. Non riesce a credere a quel che gli sente dire. Oscar si sente buttare in viso l’errore, come se non bastassero tutte le volte che si è maledetta da sola. Ma André vuole sapere solo se per lui c’è un po’ d’amore e lei non lo capisce. Sente solo accuse.

“Smettila, smettila! Ti portavi a letto quella… sotto questo tetto… quando sono entrata nel tuo letto c’era ancora l’impronta di quella… schifosa!” gli urla con la voce che si spezza.

Siamo impazziti e stiamo rovinando tutto. Abbiamo taciuto per troppo tempo. Tanto che ora è meglio continuare a tacere, per non dover morire sotto i fendenti di queste urla lancinanti.

 

Cosa posso rispondere? Che l’ho fatto solo dopo che ho visto come calpestavi il mio amore?

 

È seduto sul letto con le lacrime agli occhi, senza nascondersi, come se ne fosse fiero. Non lo ha mai visto piangere, forse una o due volta da bambino. Lei stesa senza forze e non riesce a trattenere le lacrime. Ma le mani sono strette e si accarezzano dolcemente.

 

ΔΔΔΔ

 

Mio padre mi assilla con un unico discorso. Matrimonio.

È diventata una litania che salta fuori all’improvviso fra un discorso e l’altro. Ogni giorno diventa più concreta e assillante. Il generale fa progetti a voce alta, senza curarsi del suo disgusto. Fa nomi, uno più ridicolo dell’altro. Lei dice che non vuole. Lui le risponde che cercheranno qualcuno che le piaccia. Non è giusto che lei passi la vita da sola.

Gli è venuto in mentre ora. Dopo più di trent’anni. E con la solita noncuranza ha preso a disfare e fare la trama della sua vita.

La paura di dovergli ubbidire le fa mancare il terreno sotto i piedi. La paura di non riuscire a disobbedirgli la sente pungere alla base della nuca. È frutto di una mancata disobbedienza questa vita a metà. Questo essere donna solo di nascosto. E di aver imparato di nascosto tutto quello che non rende una donna “ragazza da marito”.

Lo sapeva già allora a cosa porta la mancata disobbedienza, quando salì in sella al cavallo e scappò via; e André le urlava dietro di accettare la sua natura.

Non crederò nonostante la mia debolezza che tutto è perduto.

André…

 

“Cos’è successo? Hai discusso con tuo padre?” chiede André, versandole del vino mentre lei, le labbra serrate, giocherella con il bicchiere. “Sta' un po’ ferma!” le dice ridendo, quando i rivoli rossi  scivolano sul tavolo.

È così difficile da un po’ di tempo vedergli un sorriso sulle labbra e Oscar si sente morire nel non riuscire a ricambiarlo. Quel sorriso rimane un piccolo raggio sfuggito a nubi che si inseguono davanti al sole. Lampeggia e scompare.

Tocca col labbro il liquido rosso e, prima di berne un sorso, dice in un soffio “Vuole che io mi sposi”.

È stato come togliersi una freccia dal petto per conficcarla nel cuore di André. Sentirsi più leggera ed avere all’improvviso un dolore da condividere, inanimata, ferma sulla poltrona con le lacrime che lottano per fuggire dagli occhi.

André non dice una parola e abbandona il tentativo di versarsi da bere. Contiene l’istinto di schiantare al suolo la bottiglia. Si è spento ogni residuo del sorriso che per qualche istante, per sbaglio, gli ha illuminato il volto.

Oscar immagina la ferita che sanguina nascosta sotto la camicia, lui volge il capo in cerca di aria.

È stato meglio che me l’abbia detto lei.

Se lo avesse saputo da altri il colpo lo avrebbe trapassato da parte a parte. Ma anche così è come se il sangue nelle vene si sia scolorito lasciandolo esanime, mentre torna a fissarla negli occhi.

“Ho capito” mormora. Senza forza. “E tu?”

“No” riesce a sputare fuori senza piangere. L’unica cosa che riesce a dire.

Gli tende la mano tremante e lo reclama seduto al suo fianco. In silenzio, ma il pensiero sta urlando “Aiutami! Aiutami a disobbedire!”. Ed ha la sensazione che le parole che non dice le spellino la gola. Le stringe la mano e sente il calore del suo corpo accanto al suo: può bastare questo a calmarla. Gli posa il capo sulla spalla, gli avvicina il bicchiere alle labbra. Lui prende un sorso per farla contenta, deglutendo a fatica.

Nanny esce dalla camera senza farsi notare, con gli occhi bassi.

La stringe senza sapere che fare. L’aria continua a mancare, la cerca affondandole il viso fra i capelli.

È arrivata la bufera che gliela porterà via.

 

ΔΔΔΔ

 

Ogni istante che passa, da ora, ti porta un po’ via da me, fino a quel momento. Arrivato a quel momento tutta la vita si allontanerà da me, come il paesaggio in una corsa furibonda. Sto morendo dissanguato.

 

Un grido crudele e disumano.

E i libri, i bicchieri, il candelabro, tutto scivola sul legno per schiantarsi a terra inerte, in un colpo sordo, che blocca i nervi della schiena. Il calamaio polverizzato disegna uno sgorbio nero e raccapricciante sul pavimento.

Si piega in due e guarda la mano sporca di sangue, con le nocche tagliate dal vetro.

Un pugno feroce alla vetrata della libreria e poi spazzare via con la disperazione fra le braccia tutte le insulsaggini che giacciono sullo scrittoio.

“Il sangue che se ne va…” mormora, senza accorgersene. Si porta la mano ferita fra i capelli, senza saper più che cosa fare. Non potrà mai essere lui lo sposo. Non è nobile come il mondo richiede. Non è amato. No, né nobile, né amato, né desiderabile, nonostante l’abitudine di tenere lo sguardo alto.

Si copre gli occhi con una mano. Non serve. La vede ogni volta che le palpebre si abbassano.

Le guance arrossate e il collo riverso all’indietro mentre offre alla sua bocca la pelle bianca e schiude per lui le labbra e le gambe. Mentre gli crolla esausta sul petto fra respiri contratti e residui di brividi violenti. 

Non può continuare a pensare a questo, ora che la rabbia gli fa desiderare di distruggere la trappola che li tiene uniti beffandosi di loro, mentre quella macchia d’inchiostro si allarga a dismisura sul pavimento.

Andare da lei in queste condizioni significa farle male. Già altre volte è stato crudele, spietato e poi si è disprezzato per aver perso il controllo, ma lei si è difesa ed ha attaccato ed ha aperto altre piaghe. È una necessità maledetta e lei non lo ferma mai. La medicina che alimenta la malattia.

Ma così, con questa violenza in corpo, può solo distruggerla nel prenderla. Lei, che sta così male che gli pare possibile posarla sul palmo della mano per cullarla come un uccellino ferito.

Sì… Lei che amo infinitamente.

“Ancora un po’… altri cinque minuti e starò meglio… altri cinque minuti e saprò controllarmi… e verrò su da te, Oscar… sì…”

Le ombre si allungano voraci nella stanza, ma non è la sera.

 

ΔΔΔΔ

 

L’autunno sta spogliando gli alberi.

Ogni foglia si tinge di amaranto e di oro. Volteggia e muore.

Danzano nel vento, dietro i vetri della finestra e quello sfarfallare scandisce il ritorno dei pensieri coerenti dopo una piccola morte.

Mentre le segue il respiro si fa più lento e il sudore inizia a ghiacciarsi sulla pelle accaldata. Lascia scivolare le dita sottili fra i capelli bagnati del capo che le giace caldo sul ventre. Le braccia le circondano ancora i fianchi ed il respiro ora è regolare. Le viene in mente come le bloccava i fianchi poco prima. Si chiede se si sia addormentato e continua a giocare con le ciocche scure.

È la quiete lattiginosa che invade le ossa di chi giace nell’occhio del ciclone.

“Ti sei addormentato?”

La sua stessa voce suona dolciastra e roca. Solca l’aria che odora sempre più di desiderio.

Il contatto con le labbra calde sulla pelle del ventre e la stretta più decisa. È sveglio. Ed è come se sapesse. È come se sapesse…

Giorni disperati alle soglie dell’autunno.

Ogni foglia che si è staccata per morire le ha sussurrato, nella sua ultima danza al vento, di incatenarsi a lui.

Ogni tonalità più calda e bruna del paesaggio gli ha sussurrato di lasciarsi andare alla deriva dentro di lei. Come una di quelle foglie che giacciono, arrossate e vigili, sulla superficie dell’acqua della grande fontana.

Ogni volta fino alla fine. Ogni precauzione lasciata da parte coscientemente, ma senza mai farne parola, con un accanimento da fare male. Tutte le volte perché la catena li avviluppi fino a confonderli. Perché la disobbedienza sia suprema e atroce per chi sarà costretto a gustarla.

Ed è così. Ormai ne è sicura e glielo deve dire. Ma è come se lui, col capo perso sulla pelle morbida, fra le sue gambe, già lo sappia.

“André… devo dirti una cosa…”

Lo dice tremante e spaventata, anche se era quello che hanno cercato in due, coscientemente muti nei giorni disperati della danza delle foglie.

“Ti ascolto”.

“Io…”

Parole strane devono uscire dalla sua bocca. Strane perché devono uscire dalla sua bocca. E lei non ha mai sospettato di doverle pronunciare, per questo il silenzio continua ad allagare la stanza.

“Sei incinta”.

Non è una domanda. È un’affermazione.

Ho la sensazione, da giorni, che il tuo corpo sia diverso. Di sicuro è solo la mia immaginazione che anticipa il tempo. È troppo presto perché io senta già qualcosa.

“Sì” sollevata.

Poi una crudeltà impietosa verso se stessa, riflesso di vecchi sensi di colpa, le fa temere che le chieda “Di chi?”. Ma non accade.

La scalda, commosso e pensieroso.

“Tuo padre ci ammazzerà” le dice con un’espressione dolce e una strana luce negli occhi.

“Già…” mormora lei, ricambiandolo, con la sensazione di sciogliersi.

A cosa pensi, André, con la mano persa fra i miei capelli e lo sguardo lontano. Ora chiudi piano gli occhi… ed ho sempre paura che le tue palpebre scivolino sul dolore… per nasconderlo.

Io te lo devo chiedere, Oscar… non ho paura di lasciare questa stanza come uno di quei questuanti trafitti dal primo rifiuto. Vivo talmente al limite che non lo scorgo neanche più, il tuo rifiuto.

“Io vorrei che ti sposassi… ma con me. Con me. Lo voglio da anni, ogni giorno di più… e non mi fa più dormire questo desiderio… Se tu volessi, ti sposerei e ti porterei via da qui… ma più di tutto voglio che mi ami… voglio che mi ami, anche se non ho nulla da offrirti, non sono nobile… ed anche se non sono lui… non sono Fersen. Ma non fa nulla. Non fa nulla… Dimentica la mia pretesa d’amore.  Se tu lo vorrai, sarò tuo marito e ti porterò via da questa gabbia… e non importa il resto… dimentica quel che ho detto prima, non importa, perché se non sto con te io muoio”.

Rimane bloccata. Come se avesse visto l’orizzonte accartocciarsi per svelarle la verità che pulsa come carne viva, seccando tutte le parole e distruggendo tutti i pensieri.

Le labbra bianche e incredule. E un solo suono, un fil di voce “André…”.

“Non mi devi rispondere subito… Non pretendo che tu mi risponda subito”.

La copre con la coltre e ed esce, dopo essersi rivestito in un silenzio da impazzire.

 

ΔΔΔΔ

 

Ed era questo… era questo il tuo veleno? Il pensiero del mio amore per Fersen ed il mio silenzio sono stati il nostro veleno. Fersen che è meno di un’ombra nei miei pensieri.

Ed ora guardami qui… Scoprirlo e rimanere distrutta su questo letto, con tuo figlio dentro e il mio amore per te che è così violento che ho paura mi schianti se ne parlo… Io, che ho pensato fosse sufficiente darti il mio corpo senza nessuna regola perché lo capissi; io, che ho sempre creduto che il rancore fosse la moneta con cui mi ripagavi per quello sbaglio, che mi sono accorta a fatica di amarti, André, tormentandomi fra le tue braccia e fra i perché dovrei e i perché non dovrei; io che mi sono compiaciuta del fatto che mi avessi resa lasciva e pura.

E non sono più tanto sicura di non averti amato prima di tutti i nostri sbagli… e quest’idea che, da quando ho preso per la gola nel buio la piccola puttana, assume contorni sempre più nitidi, ha il sapore di fiele del tempo perso.

Il dolore e la vergogna che ho provato nel darmi a quell’uomo sono briciole di pane in confronto a quel che sto sopportando dopo la tua verità.

E le foglie che muoiono là fuori. Irrimediabilmente.

 

Si solleva, tende il braccio e afferra la seta della camicia gettata a terra nell’urgenza. Il seme scivola come una carezza all’interno delle cosce.

 

Credere che bastassero sudore, saliva e sperma. I segni impietosi sulla pelle e sospiri che nel buio virano in grida. A te bastava una parola.

 

ΔΔΔΔ

 

“Madamigella… Madamigella Oscar! Vostro padre vi cerca, c’è un ospite… Vi attendono da tanto! Non è per niente cortese e non vi fa onore non curarvi di lasciarli aspettare, poltrendo nel letto in pieno pomeriggio!” rimbrotta Nanny, tentando di fermarla sulla soglia di casa, mentre la osserva con sguardo supplice e mani che si torcono.

“Lasciali pure aspettare” e fa un passo per uscire.

“Ma Madamigella è…”.

“Non mi importa chi è. Può essere chiunque. Non mi importa” sibila, immaginando le intenzioni dell’ospite. Un pretendente. “Dov’è andato André?”

Nanny non sa che rispondere. Non sa se continuare a pregarla di recarsi dal padre e dall’ospite.

“Copriti bambina!” le chiede, osservando l’abbigliamento leggero.

“Nanny, dimmi dov’è André”.

Silenzio.

“Nanny, ti prego, dimmi che sei con noi… Dov’è andato dopo essere uscito dalle mie stanze? Non è né nella stalla, né in camera sua” la incalza, senza importarsene dell’imbarazzo che tinge il viso della donna.

Nanny per poco non sviene.

 

ΔΔΔΔ

 

Non so a cosa pensi ora. Fa’ la tua scelta.

Io mi sento come una di queste foglie rosse che precipitano dal cielo e seguono la traiettoria dei cerchi concentrici nella fontana. Prima le trascina il vento e poi le porta alla deriva l’acqua. Recise e accartocciate, con quel colore prepotente sembra ancora che sperino in qualcosa.

Mi ricordo che una volta le dissi “Al dormire, al morire, al nulla!”. Era come se sentissi già stormire le foglie nel vento.

Il cuore inizia a vibrare da spaccarsi in due, eppure ho sempre creduto di possedere solo la metà di un cuore.

Tutto è perduto. Fuorché il nulla.

 

È presso la fontana. Lui, che se n’è andato più solo che mai, come se su quel letto, bianco come neve sporca, non ci fosse una donna a morire d’amore per lui e non ci fosse un bambino, cercato disperatamente.

Lei pensa, nel guardarlo, avanzando fra le foglie morte e il vento sempre più freddo che le incolla sul seno che brucia la camicia leggera, che ogni passo verso di lui le dia, con un brivido, il senso della liberazione.

André l’ha vista e, in un sentimento di vuoto e distruzione, rimane lì, in piedi con la giacca al vento e le mani deboli nelle tasche dei pantaloni. I capelli tirati indietro dal vento, un segno verticale, ancora rosa e tenero, sull’occhio sinistro.

 

Ancora qualche passo.

Sul balcone che troneggia sul parco il signor padre e Girodel.

 

“Potevi metterti una giacca… con questo freddo…”

Nel vederla avanzare bianca a tremante, lui crede che il seno duro sotto la camicia sia opera del gelo incalzante della sera.

Gli si ferma davanti con le mani dietro la schiena e il respiro incerto.

“Tu… perché sei venuto qui?”

Si sfila la giacca e gliela posa sulle spalle. Sa che il generale e Girodel possono vederli, ma non può farne a meno.

“Devo spazzare via tutte queste foglie…”

“Con questo vento? Quanto sei stupido…” fa lei, aggiustandosi sulla spalla la giacca, con una lacrima fra le ciglia.

Lui si morde il labbro.

Gli si appoggia contro il petto e lo stringe. La abbraccia, senza chiedersi cosa stia succedendo, come se fosse l’ultima volta.

“Ci vedranno” le sussurra tremando.

Gli uomini con i calici in mano sul balcone hanno l’aria stupefatta di chi vede un particolare che turba un paesaggio perfetto.

“Te ne sei andato e ci hai lasciato sul letto… senza lasciarmi dire nulla…”

“Oscar…” esclama, sentendosi toccato da quel plurale, senza sapere come continuare.

“Non mi importa di loro” gli risponde, scuotendo il capo e cercando di inchiodare lo sguardo al suo. “Né di Fersen… Né di nessun altro. Hai detto che devi portarmi via… te lo ricordi, amore mio?”

Ad André sembra che il soffiare del vento abbia distorto il suono delle parole lasciandogli udire quel che desidera, ma copre con la sua mano la mano gelata e tremante che gli accarezza il viso.

“Se vuoi ti porto via, ti porto lontano da qui, ora” le sussurra.

Lei avvicina le sue labbra alle sue, come se avesse timore, come se non lo avesse fatto mai, ma si aggrappa con furia alla sua bocca, mentre sente che la afferra per la nuca e il bacio diventa profondo e arriva al cuore. Sente le sue lacrime sulle dita e l’abbraccio più stretto.

Un bicchiere incredulo si infrange, in alto, sul balcone, ma non spezza il bacio che diventa più dolce e lento e noncurante.

Forse ci sono pietre acuminate e ferri che luccicano al sole sulla strada per fuggire. O forse no.

 

Andiamo via.

 

La stagione delle foglie morte infiamma l’orizzonte del colore violento della disubbidienza.

A volte sembra carne scorticata. A volte si piange per le foglie sanguinolente mietute dal vento.

Non sono che sbagli che hanno sanguinato anni nell’ombra e ora scivolano dal cuore fra le nostre dita.

Li osserviamo un attimo, poi li lasciamo cadere, e le labbra si toccano ancora.

 

 

 

Nota

Sintomi da influenza d’immagini.

Quando ho concepito la scena finale, rigirandomela nella mente e definendola prima di scriverla, il pensiero è andato inevitabilmente a pescare fra le immagini nella mia testa due disegni di Laura: “Autumn leaves” e “Autumn leaves 2”.

Fine

Mail to sydreana@supereva.it

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