Comfortably Numb

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La risposta forse è nel silenzio. Scelgo di tracciare un confine silenzioso e invisibile tutto attorno alla mia persona, attorno a questa scrivania, alle mie mani che stringono la piuma d’oca; lo faccio con l’inchiostro e mi isolo. Taglio fuori il mondo e appena taglio fuori il mondo nel silenzio immenso, qui nella mia testa e fra le mura di questa notte, attorno alle mie mani e nell’alone di questa lampada, le immagini e i ricordi riprendono a galleggiare come petali sull’acqua.

Oscar dorme nella sua stanza e ignora nel sonno quella sagoma nera sulla battigia. Vedi com’è facile? Tu dormi, io scrivo: la ignoriamo insieme.

Il falò divampava ed io correvo, tanto tempo fa. Tutto è confuso, ma lo era anche allora, e tutto aveva mille dimensioni. È successo allora oppure è un sogno che abbiamo fatto in due. Opzione che preferirei. Oppure era ubriachezza. Opzione che considererei.

Il falò divampava ed io ti correvo incontro. Tu, stanca e sudata, ti stendevi nella sabbia, nella luce, ed eri felice... o incosciente come una farfalla innamorata di una fiamma.

Le lampade dei pescatori le sentivo oscillare dietro di me, spostavano la luce e bucavano la notte. Ti ho inchiodata alla sabbia mentre ridevi. Stretta fra me e la sabbia. Il fuoco o, quello che era... l’impossibile rogo sul mare... ti illuminava il sudore sulla fronte, sulle tempie sul labbro superiore, come se all’improvviso il tuo corpo fosse solo febbre. Forse mentre ti fissavo, distrutto e senza fiato, hai capito qualcosa e il sorriso è diventato respiro regolare.

A quel punto c’era solo il crepitare sconfinato di una fiamma. E senza parlare, lentamente, mentre le barche dei pescatori popolavano le onde fra milioni di scintille e la luna si spogliava delle nuvole, iniziavamo a capire quanto quel rogo sull’acqua fosse impossibile e pericoloso.

E a distanza di secoli, sobrio, mentre concretizzo i ricordi in nude e precise parole, non so ancora dire cosa fosse. E temo di comprendere quello che sarà.

 

ΩΩΩΩΩ

 

“Non era un covone. C’era un rogo sull’acqua” le dice mentre, col vento freddo nei capelli, sistema il contenuto delle borse appese al dorso del cavallo.

Lei lo fissa senza dire una parola.

“Quella storia del covone... ricordi?” dice per spiegare le sue affermazioni e sollecitare reazioni.

“Non è possibile...”.

“Oh... io ricordo questo... e che tu volevi vederlo così da vicino, tanto da infilartici quasi dentro” afferma temerario.

Questa discussione sul covone incendiato è diventata patetico terreno di scontro da giorni.

“Non esistono roghi sull’acqua André” sentenzia, guardandolo perplessa come mai prima d’allora.

Si volta ad osservarla con una mano sul fianco.

“Be’... io ricordo questo. Ci ho pensato negli ultimi giorni”.

“Ricordo questo anch’io, ricordo un incendio, qui, molti anni fa, ma il fuoco non brucia in acqua Non riuscirai a farmi credere questo”.

“Però al di sopra dell’acqua sì” insiste lui.

Non gli importa che lei ricordi il rogo. Vuole che ricordi altro e trova quasi divertente farla innervosire schiodandola dal pensiero della tragedia della nave.

“Tanto non è più molto importante” fa lei poco convinta, scuotendo il capo, però rimane a fissarlo, come ad attendere nuove spiegazioni. “Qualunque cosa fosse non ha lasciato traccia quindi non possiamo dedurre dove fosse ed è inutile parlarne per ore”.

“Quindi era nell’acqua!” precisa lui.

Oscar apre le braccia come per dire “pensa quel che ti pare”, ma inizia a chiedersi perché sia così importante parlare di una cosa remota, che resta là , mezza sbiadita fra stralci di ricordi.

“Non voglio vincere a tutti i costi” ci tiene comunque a precisare lui. Molto poco convincente.

Ha intuito il corso dei suoi pensieri, col vento nei capelli e una mano appoggiata sul fianco di César.

“Voglio dire che fra i nostri ricordi ci sono cose preziose. Cose da recuperare per non scordare chi siamo.”.

“André… vuoi farmi inquietare con tutto questo sentimentalismo? Questo posto ti fa uno strano effetto” dice secca, montando in sella e fissandolo dall’alto.

“No. Come potrei…” risponde sardonico. Spericolato.

Oscar sprona il cavallo, lui balza in sella per starle dietro. “Vanamente” pensa però, schioccando pigro le redini.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Ti darò appuntamento in sogno ho pensato oggi mentre bisticciavamo sulla storia, per te inutile, del covone.

Come l’acqua sul fuoco, ho pensato.

Come schiere di stelle ammucchiate sulle nostre teste. Come le barche con le lampare in fila sul mare, puntate contro i nostri occhi increduli.

Forse era un appuntamento in sogno, ho pensato… Quello che esiste solo nei nostri ricordi e che non può incardinarsi a nessuna logica.

Stupendamente, stupidamente senza realtà.

Era un appuntamento in sogno, in cui, abbracciati senza motivo nella sabbia, dubitammo a lungo d’esser vivi.

Paradiso e salvezza: l’acqua sul fuoco.

André consegnò questa poesia al foglio di carta e, con la penna d’oca ancora sgocciolante d’inchiostro, rimase a fissare quel fiume di sentimentalismo che lo rendeva più forte di lei.

Il mare si accaniva in onde bianche e selvagge sulla scogliera.

“Non se ne stancherà mai” si disse André, senza allontanare lo sguardo da quello spettacolo. E la goccia d’inchiostro macchiò il foglio.

 

ΩΩΩΩΩ

 

“Odiata mi sento debole André. È tutto qui. L’astio di quella superstite in paese… Mi ha maledetta… Strega. Figlia di una biscia… Ho fatto quello che credevo giusto e lei mi odia come se l’avessi martoriata… uccisa…. Dovevo lasciare forse che annegasse? Senza di lui crede che sarebbe più felice in fondo al mare. Non fa che dirlo. E forse ha ragione” confessò nella penombra, di semiprofilo con la mano affusolata ed esile sullo stipite.

“Lo sospettavo” sussurrò, per non disturbarla con quella constatazione. Non era troppo abituato alle confessioni di Oscar. Andavano gestite con cautela.

Lei sospirò sconsolata e “Che mi succede?” chiese a mezza voce, badando poco alle constatazioni sommesse di lui

“Quello che deve succedere forse...” le rispose, confortante, in una penombra immobile.

“Che vuol dire?” chiese ancora, guardandolo negli occhi, ma gli occhi non si vedevano. Era densa la penombra. Però lei sapeva che la esaminavano.

“Vuol dire che ciclicamente arriva un momento in cui devi accettare di non essere piacevolmente insensibile. Di non essere quel che tu speri di essere o diventare”.

Seguì il silenzio. Era quasi sera e le candele erano ancora spente. E lei non sapeva perché s‘era confidata: ora aveva dato a chi la ascoltava il coltello dalla parte del manico.

“Questo non lo so...” volle smentirlo, ma non troppo. Stava commettendo, col favore delle tenebre, l’errore di non essere forte a tutti i costi.

“Ti è successo anni fa, quando andammo ad Arras e vedesti il piccolo Jean. Ti è successo quando hai tolto dalla strada Rosalie. Perfino Jeanne ti ha fatto pena. Ti succede più spesso di quel che credi: cedi, ti odi da sola, poi stringi i pugni ed alzi la testa, professando freddezza perché secondo te così fa un uomo”.

“Perché cosa dovrebbe fare un uomo?”

“Quello che farebbe una donna... di fronte a quel che ci travolge non siamo così diversi”.

“Non lo so....” disse dopo un lungo silenzio in cui parlò solo la luna oltre i vetri.

Fermi sulla soglia di una porta, il confine tra una camera e l’altra, un’intimità e l’altra, una vita e l’altra.

“Perché dovremmo esserlo?” chiese André. “Essere così radicalmente diversi da non avere punti di comunione né nel dolore né nella gioia. Che senso avrebbe? Perché ci cercheremmo?”

Le parole corrono da una soglia all’altra, da una vita all’altra, da un’intimità all’altra, mentre i corpi stanno fermi pensò Oscar.

Di cosa e di chi parliamo si chiese disorientata. Sospettò che tentasse di condurla da qualche altra parte con quelle parole. In un luogo non fisico.

Un servitore spuntò alle loro spalle per accendere i candelabri, ma, vedendoli immobili a parlare nel buio, optò per sgattaiolare via credendosi non visto.

“Io sono felice nella mia piacevole insensibilità” ribadì, arroccata nella sua fortezza. Molto infantile, molto infantile. Molto. Si disse da sola dopo aver pronunciato quelle stupide parole.

André sorrise. Avrebbe anche riso di gusto se lei fosse stata una persona ragionevole e meno permalosa.

“Che illusa...” mormorò, allontanandosi dallo stipite a cui era rimasto poggiato. Meglio andar via prima di essere travolto da quella cosa. Quella cosa che è rabbia o scoramento e che sopraggiunge quando lei non ragiona.

“Voglio la mia insensibilità André... mi difende” sussurrò a capo basso, chiudendo in parte la visuale offerta dall’anta della porta, mentre lui si allontanava ad ampi passi lenti nel buio, mani sui fianchi.

“E ti difendi chiudendo la porta?” pensò, ma non lo disse. La tentazione fu forte, ma la carta su cui scrivere avrebbe sopperito a quella privazione.

“E se invece ti difendessi io?” azzardò, sagoma nera nel buio con parole non scritte, voltandosi verso di lei.

Forse sembrava un ragazzino impaziente. Quello che aveva detto era ben più sfacciato di quello che aveva pensato e che più tardi avrebbe consegnato alla carta.

Lei lo guardò ammutolita. Finse un sorriso imbarazzato.

Buonanotte disse e la porta si chiuse del tutto.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Sono quasi stanco di scrivere, travolto dai mie ricordi. Questo riposo forzato, qui, lontano, in riva al mare fa di me uno smidollato pensatore. Uno che cerca il bandolo di una matassa inesistente. Fa di me una Pandora... curioso dirlo.

Un microscopico episodio mi apre una voragine fra testa e cuore. E me ne sto qui, come Pandora ad osservare mille demoni volare, senza sapere come fare a riacciuffarli tutti e seppellirmeli nell’anima.

Sono quasi all’odio.

Per me stesso, intendo, e per questi spazi interiori che mi devastano il sonno e la veglia.

L’immenso cadavere di una nave è lì a trasudare... non so cosa… Non solo. È lì a minacciarci di qualcosa col suo immenso silenzio. Incombe. Come se, carico delle vite che si è trascinato dietro, stesse tentando di farmi comprendere che un giorno avrà un ruolo nelle nostre.

Parlo sempre per due e non ne ho mai il diritto.

Non mi sopporto.

Temo che un giorno non avrò rispetto per me stesso.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Pone il punto dopo l’ultima frase. Quello che ha da dire non è esaurito, ma la carta sì. La carta è finita.

Non c’è più spazio per scrivere.

Non è troppo tardi, se ne chiederà alla servitù dell’altra potrà continuare. Se continuerà a sfogarsi questa notte dormirà invece di fissare nella luce lunare il soffitto affrescato della sua stanza da nobile.

Si aggira nei corridoi poco vissuti dell’imponente dimora in riva all’Atlantico. Sono freddi e umidi nonostante la cura del personale. I suoi passi risuonano secchi finché non spinge la porticina della sala comune della servitù che svela quattro facce perplesse, intente a giocare a carte attorno ad un invitante fuocherello.

“Buonasera…” saluta educatamente, senza sortire reazione alcuna negli occhi che lo fissano.

“Mi chiedevo se fosse possibile avere una nuova risma di carta… cortesemente” aggiunge, palpando la diffidenza di quei quattro sguardi.

“Anche solo qualche foglio…” si corregge, ma la faccia di pietra dei quattro e le loro mani levate a reggere mazzetti di carte da gioco non variano.

La governate sembra rendersi conto di dover dare almeno una risposta e, compita, spiega: “Sono spiacente signor André, ma per consegnarvi una nuova risma dovrei avere il permesso esplicito della padrona di casa. Non posso prendere e consegnare nulla a chiunque liberamente chieda…”, detto questo, fa una pausa, poi riprende fiato e continua “seppure si senta di diritto parte della famiglia del conte”.

André incassa senza batter ciglio: espressione marmorea fuori, tempesta dentro.

“Capisco. Grazie comunque e buonanotte” dice impeccabile e se ne va, richiudendosi la porta alle spalle.

Quanto lo capisce il mare che si sfoga sugli appuntiti scogli adesso.

Di nuovo passi secchi nel vuoto dei corridoi. Di nuovo i suoi passi nel vuoto della notte.

Di fronte alla porta della camera di lei pensa con le mani in tasca: “Ad Oscar avanzerà un po’ di carta… ma si è spaventata e non mi aprirà mai”.

China il capo, mani in tasca e resta lì nel buio. A che serve evocare estatici incendi sul mare, reminiscenze di un amore che poteva sbocciare e fiorire se sei destinato a vagare nella notte mendicando carta anziché sesso?

“Vabbe’” si dice da solo, sfilando le mani dalle tasche ed alternando la sua sequenza di passi pigri fino a sparire in fondo al corridoio.

Questo posto gli è estraneo, pensa steso sul letto vestito di tutto punto, caviglie incrociate e mani sul petto, a guardare il soffitto che esibisce ombre di affreschi.

“Mi hanno trattato come un concubino” constata. E ci sarebbe da ridere.

“No…!” esclama comprendendo a pieno quello che ha constatato.

Fissa simulacri di putti che ora, sul soffitto confuso dal buio,  appaiono più grotteschi.

 

Costretta a ricordare. O a sognare il passato.

Sono in una terra intermedia, schiena su sabbia umida e rovente, mentre il cielo mi ingoia gli occhi e le stelle mi precipitano dentro fino al cuore. E i tuoi occhi stanno in mezzo, fra me e loro.

Non so bene se il passato se n’è andato. Non so se questo istante è fuggito via e non è che un misero ricordo che nell’assurdità di questi giorni mi possiede. Non so bene se è un sogno liberatorio, creato dalla mia mente per rimuovere qualche evento terribile. Solo colpa di André che insiste a parlare di cose inutili.

Mi chiedo se questo momento, che ora rivedo, è a monte. Se precede, questo fuoco nell’acqua, tutti i nostri rimorsi e rimpianti, l’età della ragione e le schiavitù del pensiero.

Questo momento è il dopo sperato? Il dopo alla fine di una vita, dopo qualcosa di irreversibile?

E lo vorrei chiedere a te André, che mi guardi e non parli, mentre questo cielo stellato ci porterà via. Mentre fuoco e acqua scorrono insieme, orizzontali e silenziosi nel vento.

Vorrei sapere se sono un’adolescente ubriaca, stanotte, o un’adulta che ha perso ogni cosa ed è finita qui a guardar le stelle, dopo le mille pallottole che le sono fiorite in petto.

Poco importa ora. Mi sveglierò e sarà finito.

Però vorrei chiederlo a te.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Oggi scendiamo in paese. Devo saper a che punto sono i soccorsi. Ho dato l’ordine alla servitù di partecipare, hanno il compito nutrirli, di cucinare per loro. La nostra cuoca è eccellente e rapida, non che si possa parlare di fortuna in questo contesto ma…”

Queste parole ed altre sente André di sottofondo ai suoi pensieri, mentre assorto si morde una pellicina vicino all’unghia del medio.

“André!” stiletta la voce di Oscar, quella indignata da ordine perentorio. “Non mi stai ascoltando” constata contrariata.

“Sì ti sto ascoltando” mente, ma dopotutto il senso del discorso lo ha afferrato, è che non ricorda i particolari, ma può ancora salvarsi .

“Cosa stavo dicendo?”

“Che andremo in paese anche oggi a supervisionare i soccorsi” ripete, abbandonando le mani sui braccioli della sedia, ma lei è ancora sospettosa. Meglio dissimulare e bere il the. Un altro. Lo pensa ed agisce, portandosi alle labbra l’ennesima tazzona bollente, tentando di ingurgitare il liquido rovente per apparire molto occupato.

“Che hai?” gli chiede a bruciapelo.

Lui la osserva, fingendo di non capire la domanda.

“Non hai dormito?” indaga lei. “Hai delle occhiaie terribili”.

“No. Infatti. Non ho dormito” conferma sintetico per evitare di dare spiegazioni.

“Non dovresti bere tutto quel the…”, inizia a contestarlo lei.

“Senti Oscar” la interrompe prima che assurga definitivamente al ruolo predicatorio di sua nonna e prima di farlo innervosire ancora di più, “Avresti della carta da prestarmi?” chiede.

“Certo, ho ancora qualche foglio. Ma se chiedi alla governante ti darà l’intera risma…” dice tranquillamente Oscar, prima che le parole le si spengano in bocca alla vista dell’espressione di lui.

André la ferma, mostrandole i palmi delle mani, con le labbra serrate. Si alza in piedi. Educatamente depone il tovagliolo sul tavolo e, mentre lei lo osserva a bocca aperta e con la tazza fumante a mezz’aria, le dice con voce decisa e incolore:  “Facciamo una cosa Oscar, chiediglielo tu per me. Per favore”.

Detto ciò se ne va lasciandola sola alla tavola della colazione. Tavola riccamente imbandita con brioches, cioccolata, frutta e zollette di zucchero. Nel vaso da fiori garofani rosa bagnati dalla rugiada del mattino o da qualcosa che le cameriere hanno spruzzato sopra in cucina. Panoramica finestra che abbraccia l’Atlantico senza pace sotto il cielo plumbeo. Visione mozzafiato.

“È impazzito…” mormora Oscar e soffia sulla cioccolata bollente con lo sguardo perso di fronte a sé. Poi si riscuote e si augura che il cameriere non l’abbia udita.

 

ΩΩΩΩΩ

 

“Tanto sei bello uguale” commenta il cameriere, suadente, col capo vezzosamente inclinato, sorprendendolo a controllare lo stato delle proprie occhiaie violacee in uno specchio del corridoio.

André lo guarda, senza proferire fiato, gira sui tacchi e si dirige verso la sua camera.

“Andiamo a casa. Detesto questo posto”, confessa a se tesso.

 

ΩΩΩΩΩ

 

Il pomeriggio di quel giorno fu infernale.

Non esisteva parola più adatta.

Il cielo novembrino si era aperto lasciando filtrare timidi raggi di sole. Allora era sembrato che ci fosse speranza. Oscar aveva sorriso, laggiù in paese, volgendo il capo verso la luce fredda.

Era in un’infermeria improvvisata in una sorta di ospedale da campo. Tutto attorno a lei c’erano uomini e donne adagiati su lettini ed andirivieni di volontari. La vita tornava.

Finalmente André s’era degnato di tornare. Era riapparso con una risma di carta sotto il braccio ed un’espressione ancora più assurda di quella che aveva la mattina a colazione, quando l’aveva inspiegabilmente piantata in asso mentre parlavano di carta.

Lei guardò prima la risma che aveva sotto il suo braccio, poi alzò lo sguardo a fulminarlo.

“Oscar…” aveva mormorato lui con una voce strana, ignorando la sua espressione bellicosa, “C’è stato un problema…”

Lei lo aveva esortato a parlare con sguardo interrogativo, ma la questione risma di carta non l’avrebbe archiviata tanto presto.

André aprì bocca per raccontare, ma l’uomo accanto a lui, un pescatore del luogo, fu più veloce e meno delicato: “S’è impiccata” disse, come non fosse nulla.

Oscar guardò ancora più interrogativa André, che volse gli occhi al cielo, turbato dalla brutalità dell’uomo e infastidito per essersi fatte rubare le parole di bocca.

“La matta, quella della canzone sull’oceano che ci ammazza a tutti. Insomma quella che ti insulta e ti vuole pestare madamigella ” precisò l’uomo, agitando ritmicamente l‘indice mentre parlava..

André lo vide chiaramente: negli occhi di Oscar c’erano lacrime.

“Portatemi da lei!” ordinò, ma prima che le potessero farle strada era già fuori da quel posto.

La scena era inquietante. La donna sembrava in piedi sul molo rivolta verso l’oceano coi capelli scuri sciolti nel vento. In realtà i suoi piedi non toccavano terra. Gli spruzzi delle onde le avevano bagnato la veste che le rimaneva attaccata alle gambe.

Oscar aveva dato ordine di tirarla giù, di soccorrerla, nella speranza fosse ancora viva. Fra soccorritori e curiosi lì attorno c’era un capannello di gente mormorante.

La cosa peggiore era l’oceano, infuriato e rumoroso da assordare.

Oscar guardava e non sentiva, tutto era assorbito dal rombo della furia acquatica, come quando aveva cercato di condurla a forza fuori dall’acqua quella donna, ma lei no, lei si opponeva e rischiava di trascinarla a picco con sé.

André aveva capito che lei neanche si accorgeva delle lacrime che le rotolavano lungo le guance in silenzio.

“O si ammazzava a lei o ti ammazzava a te!” commentò una delle comari pettegole del porto., bocca a amara e pelle segnata dal sole.

“State zitta” la pregò André, ma Oscar non lo sentì.

“Voleva morire col marito nell’acqua, non voleva stare qua…” continuò la vecchia.

“Chiudi il becco e torna a tessere le tue reti” le intimò esasperato, con tono minaccioso. Cercò di allontanare Oscar, cingendola con un braccio sulle spalle.

”Ti porto via!” aveva pensato.

“Io sarta sono!” disse quella risentita. “Abito di gran classe faccio!”

André la ignorò e continuò a camminare, in qualche modo stretto ad Oscar che non diceva una sola parola.

 

Pubblicazione del sito Little Corner del settembre 2014

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