Cetera Desunt

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I.

 

Ho ricordato. L’ho ricordato… mentre gli alberi impazzivano nella bufera e ritornava in bocca il sapore delle notti dense dei Mesi Neri ed ogni immagine diventava tragica, magica e comica, come nel vecchio letto a scatola avvolto dall’odore della cera.

 

 

II.

 

“Un tempo… Molto tempo fa… uno stregone malvagio e feroce si impadronì di un regno e di ogni sua bellezza.  Strappò l’anima alla sua regina, ma, non essendo abbastanza potente da distruggerla, la relegò a vivere come un fantasma pauroso ai limiti dell’orizzonte, poco dopo la linea su cui tramonta il sole, dove l’occhio umano non riesce più  a vedere.

La regina senza anima, aveva la pelle bianca come i petali delle rose… ed aveva una terribile e infinita treccia, che al calar del tramonto oscillava nel vento come un serpente velenoso. Ad ogni calar del sole avanzava dall’orizzonte verso le mura del suo antico regno su un destriero di tenebra dalla narici fumanti… la spada brandita nella luce rossa. Alle sue spalle rilucevano, negli ultimi bagliori del sole, le corazze di un’armata silenziosa.

Gli abitanti del regno morivano di paura a quella visione ed ignoravano che quella donna dalla treccia terribile fosse la loro antica e giusta sovrana. Non immaginavano, con la mente soggiogata dallo stregone, che tentasse disperatamente di riconquistare quello che le era stato tolto. Ed ogni giorno la spaventosa armata compiva un passo in più verso le mura. Infatti chiunque tentasse di bloccare la sua avanzata, alla vista del bagliore sinistro della sua corazza e della treccia serpentina che vibrava minacciosa, vedeva ogni luce spegnersi e si dissolveva nel tramonto senza mai più tornare a casa.

Lo stregone ebbe paura di perdere il regno così faticosamente conquistato e si convinse che era necessario trovare un modo per difendersi. Nel riflesso dell’acqua della fonte magica cercò a lungo, visualizzando le vie, i palazzi, le valli di ogni paese del mondo, l’uomo che avrebbe potuto fermare quella donna senza anima. Quando finalmente ebbe trovato un cavaliere valoroso e indomito che viveva al di là dell’oceano, inviò i suoi corvi dagli artigli adunchi a rapirlo e a bucargli gli occhi. Gli occhi ciechi gli avrebbero impedito di vedere l’orrore e di rimanerne vittima, così l’avrebbe affrontata senza soccombere. Per costringerlo alla servitù gli strappò l’anima dal petto e la pose sotto una campana di vetro ricoperta di polvere, accanto a quella della regina, e gli promise che l’avrebbe avuta indietro e sarebbe potuto andare per la sua strada solo dopo aver liberato il regno dalla minaccia di quella donna malvagia.

Così il cavaliere dagli occhi bui al tramonto si spinse verso l’orizzonte con la spada sguainata.

L’armata luminescente e la regina dalla treccia assassina avanzarono nella luce rossa.

“Cosa credete di fare levando verso di me il vostro umile ferro?”.

“Quello che mi è stato chiesto signora: difendere da voi il regno”.

“È così semplice per voi, messere, comprendere con esattezza chi debba essere difeso e da chi?”.

“Non mi è stato chiesto di comprendere, ma di agire” disse a malincuore, sentendo che non era una cosa giusta.

“Lo immagino” disse la signora, vedendo che aveva gli occhi bui e sentendo che anche lui aveva perso l’anima.

Anche il cavaliere sentì che lei aveva perduto l’anima: nel percepire la sua presenza, avvertì lo stesso vuoto che ormai sentiva quando si guardava dentro e si sentì inspiegabilmente meno solo.

“Tornate da dove siete venuta signora, perché… se rimarrete sarò costretto a compiere il mio dovere”.

La regina, senza voglia di domandarsi perché, tirò le briglie del suo destriero e ritornò, seguita dalla sua armata luccicante, dietro l’orizzonte.

La sera successiva il cavaliere attese ancora sulla soglia dell’orizzonte. Sperava che lei tornasse ed allo stesso tempo che non tornasse.

Sentì il muoversi dell’aria e quella sensazione strana di vuoto che riempiva il vuoto. E si accorse che lei era lì di nuovo. Ma sentì che il luccichio delle corazze fantasma non era più nell’aria.

“E la vostra armata?”.

“Non avevo bisogno dell’armata per questo viaggio, non voglio sfidarvi. So che non avete l’anima e che non alzerete il ferro, ma non dovete fare neanche un passo verso di me oltre questa linea che delimita l’orizzonte”.

Il cavaliere con gli occhi bui le fece un sorriso e lei la trovò una cosa stranissima.

“Non lo farò” le promise.

E ad ogni crepuscolo si fermavano lungo quel confine ad ascoltare il vuoto che li univa.

In un tramonto la regina gli chiese della sua sofferenza per quegli occhi bui, senza parlare della propria, e lui le rispose che non soffriva. Non soffriva perché solo con quegli occhi bui aveva potuto vederla. Lei fece finta di non comprendere e lo invitò a passeggiare con sé nella luce evanescente del sole che muore.

Allo stregone questa storia non piaceva. Si adirò moltissimo e, scatenate le forze delle tenebre per intimorirlo, minacciò il cavaliere dagli occhi bui di non restituirgli mai più l’anima.

Il cavaliere immaginò le due anime diafane e leggere sotto la campana si vetro, oltre lo strato morbido di polvere, e rispose allo stregone che lui rispettava i patti: infatti la terribile dama dalla treccia serpentina si fermava all’orizzonte e non importunava più il suo regno. Gli era stato chiesto di fermare quella donna per proteggere la città, non di ucciderla. Lo stregone non seppe cosa replicare, perché era vero, ma si ostinò a riproporgli il ricatto: la sua anima in cambio della distruzione della regina.

Anche quel giorno il cavaliere avanzò verso l’orizzonte e fu la regina ad attenderlo.

“Oggi compirai il tuo dovere?”.

“Il mio dovere l’ho fatto ogni giorno”.

“Forse sarebbe meglio che facessi come lui ti dice”.

Il cavaliere non capì.

“Perché mi dici questo?”.

“Perché è impossibile continuare così… Non è giusto. La maledizione ci costringe a compiere ad ogni crepuscolo lo stesso tragitto, senza mai arrivare a nulla. Se tu facessi quello che ti è chiesto avresti indietro la tua anima ed io sarei libera, perché una volta trafitta mi perderei nel vento e il tormento della vita a metà avrebbe fine”.

Lui si sentì morire ed ebbe voglia di oltrepassare il confine sottile dell’orizzonte per gridarle in volto che non aveva capito nulla. Strinse l’elsa con forza ma, dopo un tremito da fiera ferita, si contenne e rimase ancora una volta al di là di quella linea. Chinò il capo, perché lei non si sentisse minacciata dalla rabbia violenta che lo aveva attraversato e non tremasse più come stava tremando ora nella sua corazza lucida, anche se era protetta dall’orribile treccia serpentina.

“Non lo farò comunque” le rispose.

Lei smise di tremare e rimase stupita ancora una volta.

“Vieni…” le disse il cavaliere “camminiamo ancora lungo l’orizzonte. Io rimarrò qui ad ogni tramonto per te”.

E continuarono a camminare insieme separati da quella linea sottile e lunga. E camminarono… ehm… dunque…”.

“E poi?”.

“Camminavano e… camminavano…”.

“Ci vuole una fine”.

“Sì… lo so Oscar… è che mi sono bloccato. Non so più cosa inventarmi…”.

“Pensaci… Non puoi inventarti una storia e lasciare che non abbia una fine… dai!” fu il commento di una Oscar delusa, con gli occhi rossi e languidi per il sonno, il fumo delle candele e il vino.

“Lasciami un po’ pensare” le rispose André, stendendosi sui cuscini che sprofondarono molli e bloccando con una mano una bottiglia di vino rosso che, semivuota, rotolava perigliosamente lungo il materasso.

Ma non gli veniva in mente veruna idea degna di essere narrata alla sedicenne che lo scrutava, prigioniera come lui del letto a scatola. “Pensaci anche tu però” le chiese.

Lei si stropicciò gli occhi ed assunse un’aria cogitabonda. “Non possono passeggiare tutto il tempo… hmm… Senti ma quali erano i loro nomi?”.

“Non hanno nomi… quando nel Mese Nero si raccontano storie non è mica necessario che i personaggi abbiano nomi… basta che funzionino…”

“Questi non hanno nome e per giunta non funzionano se non ti inventi anche la fine… per adesso dagli un nome almeno…”.

“Beh… allora facciamo… il Cavaliere del Sacro Meleto e la Signora dalla Pelle di Rosa… Ti vanno bene?” propose André, cedendo al senso pratico della compagna, che sembrava voler schedare i due in attesa di una fine dignitosa.

“Sì… Mi piacciono…”. Diede il suo assenso Oscar, con aria abbastanza soddisfatta.

André si concentrò, ma gli girava la testa per il sonno e la fantasia all’improvviso, dopo quell’esplosione inattesa, sembrava volerlo salutare agitando la manina, mentre si allontanava verso il seducente dio del sonno.

“Sarà stato tutto quel vino che ti ha fatto inventare tutta questa storia… che è bella… però…” disse la voce fievole di Oscar che si spegneva nel sonno alcolico rimandato nel fondo della notte; nel letto a scatola dalle alte pareti di legno che gli antichi abitanti della Bretagna avevano inventato per difendersi dai lupi che entravano nelle case e mangiavano i bambini addormentati; nella notte invernale di uno dei Mesi Neri, corridoio oscuro che porta al Natale, in cui nel buio ci si riunisce per raccontare storie terribili di uomini e donne misteriosi, di esseri strani e destini ingiusti, mentre il paesaggio fuori dalla finestra affila i denti per rendersi serio e pauroso e le ombre si allungano, magre e tremanti, dalle candele alla pareti.

Ed ancora ci si stendeva senza badare che i confini del proprio corpo toccassero i confini del corpo dell’altro. Perché così era. E non c’era nulla da dire. Era come parlare o respirare. O addormentarsi.

Ancora dovevano giungere gli inverni dai ghiacciati e inespressivi venti svedesi.

 

“DISGRAZIATI!!”.

Un risveglio traumatico come tanti, con la luce che dalla porticina scorrevole del letto ti pugnala gli occhi e una voce femminile nota che ti fende i timpani.

“Disgraziato!” perché dal plurale si passa sempre al singolare maschile e qualcuno dovrà pur pagare per la bottiglia di Bordeaux scomparsa nei meandri della notte, per la fragranza vinosa nell’aere, per le tracce di scarpe e la cera spalmata sulle lenzuola, per gli occhi gonfi e l’aria consumata della scatola.

Oscar in ginocchio sul materasso nella luce del mattino, con le palpebre appiccicate, che cerca di dire qualcosa. André che non si scompone di fronte al destino effimero. La bottiglia che si è svuotata miracolosamente da sola… giuriamo non siamo stati noi, nei Mesi Neri in questo castello bretone succede proprio di tutto!

 

 

III.

 

“In effetti non è facile…”.

“Vedi?”.

“Io… certo però che dovevi aver bevuto parecchio per tirar fuori quella valanga di cose, da sobrio non ti sarebbero venute… secondo me”.

“Sicuramente avevo bevuto meno di adesso” ho risposto ad Alain, ascoltando la mia voce come un’eco. È un evento per chi regge bene avvertire questa sensazione di ondulata tranquillità.

“No… hai creato un maledetto groviglio… non si può andare avanti… Se tu metti così le cose o passeggiano o passeggiano… e nella vita passeggiare non è tutto, consentimi di osservare!”.

Alain non era sicuramente più lucido di me. Stava prendendo decisamente a cuore quella vecchia storia e meditava sotto le stelle, col sedere sul lastricato, lasciando ruotare rumorosamente la base della bottiglia sulla pietra.

Ho sentito un minimo di amor proprio che scalpitava: la storia fa proseliti; non è poi così male, a parte il fatto che dopo diciassette anni non l’ho mai finita… ma in fondo è perché me ne sono ricordato solo ora.

 

È salita su da qualche posto nascosto in me. Un ripostiglio dell’anima in cui finiscono le cose che “forse” sono importanti. All’inizio ne ho riso, ricordando la faccia di Oscar che a bocca aperta con la bottiglia in mano cercava, fra le mie parole, di dare un’immagine ai protagonisti e incredulo ripercorrevo il fiume di frasi che erano uscite dalla mia bocca. Una parola portava a galla la successiva e sentivo viva la sensazione di quei racconti ascoltati avidamente, con una curiosità insaziabile. Era una specie di droga. Erano una droga le tenebre, il rotolare delle parole, la tensione nei nervi che aspettavano il finale. Lei era già la mia droga.

Ne avevamo ascoltate tante di storie di fronte al camino, raccontate da mia nonna e dagli altri servitori, ma a una certa età ci eravamo resi conto che erano sempre le stesse e, per non rinunciare al rito dei Mesi Neri, ci eravamo ripromessi di inventarne noi di nuovi e misteriosi.

E questo era uno. Era mio. E quando l’ho ricordato è stato così mio che mi ha fatto un male che non ho parole per esprimere. Ancora una volta… non ho parole.

Nel letto a scatola le avevo raccontato tutto quello che sarebbe successo fino a questi momenti: il momento in cui tremo di freddo nella notte di guardia, mi chiedo lei dove sia; i momenti in cui le sto accanto ogni giorno senza pretendere, pur di vederla solamente. A volte anche senza riuscire a parlarle e capire cosa la consuma. Lei non mi ha mandato via. Nonostante tutto. Nonostante……

Come il Cavaliere del Sacro Meleto e la Signora dalla Pelle di Rosa camminiamo fianco a fianco lungo il confine.

 

“Mi è venuta in mente una cosa…” fa Alain, risorgendo dalle sue valutazioni.

“Cioè?” chiedo, dissimulando il dolore che lui non sospetta.

“Ma lei ti piaceva già allora?”.

“Sì”. Non è corretto: l’amavo già allora.

“Entri nel suo letto in piena notte con una bottiglia di Bordeaux… e le racconti una favoletta??????”.

È la mia fine. Morirò di vergogna stanotte, schiacciato dal peso delle favole senza finale e di un certo tipo di attività lungamente rimandate. Sul mio epitaffio: André Grandier: affabulatore distratto e amante immaginario.

Dissimulo. “Alain!” sospiro con l’aria di chi vuole, col tono della voce, sottolineare la materialità delle osservazioni altrui.

“Sei troppo candido ragazzo mio” commenta, calandosi la visiera sugli occhi.

Non è vero. Non sono candido. I letti a scatola li costruivano per proteggere dai lupi. E Oscar non è mai realmente stata al sicuro con me là dentro al suo fianco. Io lo so come avrei fatto finire quella storia, ma non sarei mai riuscito a raccontarglielo e le parole mi sono all’improvviso morte sulla soglia delle labbra.

Tu saresti stata mia, ma il momento non era quello. Sarebbe arrivato. Invece è arrivato Fersen.

“Prendi un altro sorso di vino… Ma… Senti un po’: questo Cavaliere delle Mele…”.

“Del Sacro Meleto”. Non cominciamo a storpiare i nomi.

“Il Cavaliere del Sacro Meleto… quando si è imbestialito per quello che lei gli ha proposto, non ha oltrepassato il confine neanche per un attimo?”.

Muto chino il capo e la rivedo. La rivedo sul letto. Non il letto a scatola.

E sento i confini del suo corpo sotto di me. Non come nel letto a scatola.

E tanta paura. La sua. La mia. Mischiate e velenose.

“Scusami” dice. Ora lo sa, che non è una favoletta.

“Insomma… io vorrei che tu gli trovassi una fine a ‘sta cosa André. Sei così sicuro che la maledizione gli impedisca di fare altro che non sia una passeggiata? Lo stregone non mi sembra poi tanto potente. Se lo fosse stato li avrebbe stecchiti già tutti e due… credo. Potrebbero - mentre passeggiano sempre – fermarsi un attimo e…”.

“Sì ho capito… ho capito. Fai sempre tutto facile tu!” tento di glissare.

“Potrebbero parlare un po’. Che hai capito. Ci capirebbero qualcosa di tutta questa maledizione. Poi gli dai con calma il finale che preferisci no?”.

“In effetti io il finale ce l’avevo…”.

“Hai fatto bene a non raccontarglielo. Ti avrebbe crocifisso al letto col cavatappi”.

Mi scappa da ridere e rido.

“Lei non è come credete voi… non è gelida. Ma forse sì, mi avrebbe crocifisso o… non lo so più Alain… forse no…”.

Ripenso alla sua fronte appoggiata alla mia sullo stesso cuscino ed è come se, all’improvviso, la notte fosse meno fredda e quella luna in cielo scaldasse un po’.

 

 

IV.

 

È una notte gelata. Troppo fredda per resistere all’aperto. Troppo vuota per starmene qui dietro i vetri a guardare un paesaggio invisibile ammantato dal buio. Chiudo gli occhi un istante e all’oscurità si sostituisce un tramonto di un rosso immenso, su un orizzonte immaginario, netto come un taglio.

Mi chiedo se durante la guardia senti freddo. Se ti sei coperto bene.

Continuo a vedere il tramonto e due figure che camminano fianco a fianco. I passi cauti, sciolti e coordinanti.

Che scemo che eri. Eri un fiume di parole che mi ha lasciata senza il finale. Col sospetto che non me lo volessi raccontare, il finale.

Mi è tornata in mente questa storia per contrasto col tramonto grigio e violaceo che qualche ora fa ha lascito cadere il sole dietro gli alberi ed ha fatto male, perché non è una storia da Mese Nero e basta. Il sorriso che mi rianimava le labbra nel rivederti intento ad elaborare parole e a dipanare la trama è morto, perché sembrava la storia di due adolescenti felici abbattuti dagli eventi.

Custodirla senza potertene parlare è come sentir crescere la gramigna attorno al cuore, fra i ricordi di un’età dell’oro.

E l’ho raccontata a Nanny. Le ho detto che era un racconto trovato in un vecchio libro spaginato. Che le ultime pagine erano andate perdute e mi lasciavano in bocca l’amaro dell’incompiuto.

Nanny ha meditato un po’.

“Il Sacro Meleto? Io, bambina, non la conosco questa storia. Non so proprio quale possa essere il finale”.

“Non credo che la conosca molta gente”. È opera di tuo nipote, del vino, del letto a scatola e del Mese Nero. È nata in un mare di risate, ma ora fa solo piangere.

“Beh… però, se è una favola, il finale non potrà essere che e vissero tutti felici e contenti”.

“E vissero tutti passeggianti e contenti? Secondo te è possibile nonna?” le ho detto con un sorriso malinconico. Ho avuto paura che sulle mie labbra sembrasse deforme.

“Tutte le fiabe finiscono così piccola… ma chi è l’autore?”.

“Hm… un tale A.G…. non si leggevano bene le iniziali. E se non fosse una favola nonna?” le ho chiesto all’improvviso.

Si è sistemata gli occhiali sul naso, ha sospirato con le dita incrociate sul petto e mi ha detto: “Secondo me il Cavaliere del Sacro Meleto è un bravo ragazzo e la Signora dalla Pelle di Rosa ha un cuore grande che ha paura di ascoltare… Io spero che finisca bene, che non passeggino più e che capiscano cosa vogliono. Il mago e tutti gli incantesimi, secondo me, sono meno potenti di quello che credono loro”.

“Va bene!” ho detto alzando le sopracciglia con voce squillante, portandomi la tazza di cioccolata alle labbra e sorseggiando con aria indifferente quel fuoco liquido. Una colata di lava nella mia bocca. Quando Nanny è uscita mi sono messa una mano sulle labbra ustionate e mi è venuto da ridere, nonostante il bruciore.

Ora, di fronte al buio, oltre la finestra, ad occhi chiusi, rivedo i tuoi occhi nella luce della candela… E mi sembra che luccichino come le armature dell’esercito alle spalle della Signora dalla Pelle di Rosa; non so se lo erano per il vino o per altro, ma pensai, senza dirtelo, che erano troppo belli.

 

 

V.

 

… e Parsifal per troppo amore, troppo dolore, troppa purezza, troppa follia si perse nel rosso delle tre gocce di sangue sulla neve, cremisi come le labbra e le gote di Biancofiore dalla pelle candida. Così, perso e posseduto da quei colori, continuò a combattere incosciente e feroce contro i nemici, con la mente avvinghiata a quel ricordo… Sì è la stessa scena André. Cosa importa se te ne stai seduto vicino al fuoco con un libro sulle gambe invece che nel gelo col ferro brandito verso il cielo, e se invece di fissare tre gocce di sangue fissi lei? È la stesse scena, ora come in ogni istante del giorno che trascorri al suo fianco. È l’essere pazzi e savi nello stesso attimo. È l’essere puri ed essersi macchiati di colpa per troppo amore ed è l’attendere interminabile di tornare puri e degni.

Quel che resta dei tuoi occhi come gli occhi immobili di Parsifal di fronte al cremisi e al candore.

Lei è con gli occhi bassi su un libro, i tuoi occhi l’accarezzano mentre respiri l’aria che lei respira.

Libro più infausto non poteva scegliere Oscar… perché la Dama di Shalott morirà lentamente nel canto ancora una volta, dopo aver distolto lo sguardo dalla tela per contemplare l’incedere galante di Fersen verso Camelot… o era Lancillotto? Pensaci bene… io credo proprio che sia Lancillotto. Quello del libro intendo.

Meglio immaginare di non essere in questo salotto muto e porgere l’orecchio allo scalpiccio dei passi lungo l’orizzonte. Il Cavaliere del Sacro Meleto e la Signora dalla Pelle di Rosa sono ancora là.

Ti potrebbe essere di consolazione sapere che lei non legge, ma fissa le pagine per timore di non dire la cosa giusta, ora che sei qui e che non vorrebbe questo silenzio.

Ma, Oscar, nell’alternarsi del bianco e del nero lungo le pagine non ci sono meccanismi che possano aiutare a dissezionare un sentimento o un brivido inspiegato, ingoiato in fretta come se fosse un misfatto. È un continuo cercare fra parole scritte, che non leggi, parole giuste. E respiri la stessa aria che lui respira al tuo fianco.

Cedi. Ora ti sembra che non possa essere che così e ti accontenti di averlo seduto al tuo fianco, mentre cerca di liberarsi dal gelo che il buio gli sta agganciando contro il petto. Più tardi, quando sarai sola all’ombra del tuo baldacchino, il rumore di quei passi lungo l’orizzonte, che sembra finire ogni volta per ricominciate, sarà assordante e maledetto nella notte.

 

 

VI.

 

Il cuore fa una capriola, si avvita e crolla nel petto facendole sfuggire un urlo senza suono. All’improvviso è seduta sul materasso. Un minuto fa dormiva. Ora è di nuovo sveglia e sudata, con quella fitta che le brucia fra le costole. Un altro respiro e torna anche il dolore che cerchia il capo. Un altro ancora e sente quel livido ancora viola sul ginocchio.

Tutto sommato questa polifonia di dolori fisici, intermittenti o continui, ricorda quel che ora è più importante: la vita. Ancora una volta un mattino oltre i muri del palazzo.

Nel sonno volti deformati dall’ira della fame, coi denti marci e mani dure e sporche la ghermivano e la trascinavano. Sente ancora la sua voce urlare e urlare, violenta e spezzata, e André che scompare… che scompare ancora fra quelle mani… e tutte le volte che vede il nodo scorsoio sobbalza con un urlo e torna alla realtà, al benvenuto dei dolori. Mai tanto amati.

“André…” chiama, saltando maldestramente giù dal letto, come se la potesse sentire, steso nella sua camera.

Bisogna assicurarsi che questa sia proprio la realtà. Non come l’altra volta… che era rimasta incastrata in una scatola cinese fatta di sogni: fuori da St. Antoine c’erano le stanze del palazzo, ma le stanze del palazzo non erano fuori dal sogno. André era sfigurato e rigido e scompariva fra luci spettrali. Per fortuna si era svegliata, ma le era mancato il respiro per tutto il giorno, perché quando la paura affonda le unghie fra i dubbi rimane il segno.

Mio… mio… mio… mio… ad ogni passo, perché ora è più chiaro cosa questa parola significhi. Al bivio ha scelto il cuore, senza esitare un istante. Ma è così strano dovere ammettere che l’amore è il mare a volte tranquillo a volte tempestoso che ha sentito dentro per gran parte della sua vita.Per un’ora lo ha tenuto fra le braccia, nel tragitto da St. Antoine a casa. È stato terribile e meraviglioso.

Cosa stavano facendo in quell’istante il Cavaliere del Sacro Meleto e la Signora dalla Pelle di Rosa? Per un attimo, alle prime tenebre, si erano seduti lungo il confine, lui stanco col capo abbandonato sul petto di lei che gli accarezzava i capelli e gli baciava la fronte? Li avrà visti qualcuno?

 

Ha gli occhi chiusi e il capo reclinato. Le palpebre delicate venate d’azzurro. Le labbra socchiuse sono quasi vicine alle sue, la pelle è splendente come la cera e incorniciata da fili dorati. È tutta la bellezza e la gioia del mondo che splende fra le sue braccia e ora…

“ANDRÉ!”.

Ma perché, amore mio, mia Signora dalla Pelle di Rosa, in un momento del genere, invece di sussurrare dolcemente, urli da crepare i timpani? Il Cavaliere del Sacro Meleto già non ci vede, la sordità sarebbe un accessorio di troppo…

“Ehi… ANDRÉ!?”.

L’immagine abbandonata e flessuosa scompare al sollevarsi delle palpebre. La realtà, lentamente messa a fuoco, è Oscar che alza la voce a pochi centimetri dalla tua faccia per controllare che nel frattempo tu non abbia osato morire.

È bella. Bellissima. Più bella del sogno.

“Buongiorno… Oscar”.

“Come stai? Come va il braccio?”.

“Mi fa male un po’ ovunque… ma sto meglio di ieri. Tu come stai?” risponde, spostandosi faticosamente su un fianco, per contemplarla meglio.

“Meglio… Anch’io meglio… Posso rimanere ancora un po’ qui?” fa lei, raddrizzandosi sulla poltrona.

A volte muoio di paura.

“Certo… Non hai bisogno di chiedermelo”.

La mano di André copre un istante la sua, poi ritorna sulla coltre. Basta questo a rassicurare dagli incubi e a mantenere i fantasmi oltre la soglia.

La Signora dalla Pelle di Rosa sente un grande mare azzurro nel cuore, ma non ha le parole giuste, così sprofonda con un sorriso debole nella poltrona.

 

 

VII.

 

Non far vedere che piangi, allontanati da qui. Mi ha chiesto questo mentre eravamo in cima alla scalinata e mio padre dabbasso gioiva per la grazia che mi è stata concessa.

Ho disubbidito seguendo la mia coscienza ed oggi sarei morta per mano di chi mi ha generata per avere infangato il nome del casato. André mi ha salvato, offrendo la sua vita, ed io non sono riuscita a dirgli una parola. Ha detto a mio padre quello che già so da tempo del suo amore e che se potesse mi sposerebbe per portarmi via.

L’ultima volta che mi hanno parlato di matrimonio ho riso di cuore davanti allo specchio. Ora no. Mentre mio padre gioiva nell’atrio guardavo André con la coda dell’occhio, poi ho iniziato a piangere in silenzio e lui se n’è accorto. Ma io non piangevo per il sollievo di essere sfuggita alla morte.

Non far vedere che piangi. Allontanati da qui… mi ha detto.

 

Una volta il Cavaliere del Sacro Meleto chiese alla Signora dalla Pelle di Rosa di lasciarlo solo lungo l’orizzonte e di non concedere, allo stregone e ai suoi complici dietro le mura dell’amato regno, la soddisfazione di vedere le sue lacrime che scendevano giù per un’inarginabile tristezza.

 

Mi sono allontanata imboccando la penombra del corridoio. L’ho fatto perché me l’ha chiesto lui, ma non volevo farlo. Mi sono voltata un istante per chiedergli con lo sguardo di seguirmi, di venire con me, ma non ha compreso quel che gli domandavo, ed è rimasto con la sua aria stanca vicino alla balaustra.

 

La Signora dalla Pelle di Rosa, nel procedere verso il sole rosso dell’orizzonte, si voltò asciugando una lacrima. Le sue lacrime nella luce del tramonto diventavano piccoli cristalli brillanti che rimanevano accoccolati nel palmo della mano. Lo vide fermo e in fondo, alle sue spalle, le mura alte, dorate e turrite del suo antico regno. Stendardi e gargoyles. Gli chiesero, i suoi occhi pieni di lacrime, di seguirla oltre l’orizzonte, verso il suo eremo e verso il sole. Ma non ebbe risposta.

Chinò, triste, il capo. Sarebbero tornati a incontrarsi ancora una volta, nel tramonto successivo.

Aveva dimenticato che gli occhi del Cavaliere del Sacro Meleto non potevano vedere.

 

 

VIII.

 

Un moto di curiosità infantile o estemporaneo spirito avventuriero circoscritto a quattro mura? Quel che sarà, sarà.

Recessi inesplorati sono ovunque. Nelle anime e nei palazzi.

Le case dei nobili sono sempre tremendamente estese, egregiamente sproporzionate rispetto al numero degli abitanti… Si sa! C’è sempre un’ala del palazzo dalle porte e dalle finestre sprangate, in cui il buio si è sedimentato negli anni su drappi bianchi o meglio… grigiognolo – giallastri… che giacciono sui mobili come pletore di fantasmi pigri.

Perché addentrarsi in quel mondo abbandonato? Per recuperare un mondo migliore di quello che fra fame e sommosse infuria là fuori come il crepitio di un incendio?

È questa la domanda che si fanno, lasciandosi ferire gli occhi dalla luce che irrompe nelle stanze dopo un lugubre cigolio delle persiane sui cardini; luce che inonda quel che il passato ha abbandonato negli angoli.

Non è un gioco da piccoli esploratori, come hanno sognato quando non erano che pargoli che indugiavano dietro quelle porte chiuse. È un gioco da adulti soldati che cercano di riappropriarsi di un pezzo di passato chiuso col chiudersi di quelle serrature. Questa è la risposta ufficiale in cui esaurire un giorno di licenza e mettere da parte i dubbi sulla violenza.

La risposta ufficiosa, però, è sempre più interessante: forse cercare fra le rughe del tempo un mondo che non esiste, in cui rimanere da soli, lontani da tutti?

André è stupito che una proposta che era uno scherzo sia stata di buon grado accolta da Oscar, che al suo fianco osserva il vecchio mondo tornare a respirare nella luce, dopo mesi di silenzi esausti e di occhi che si chiudevano o si volgevano in là ogni volta che osservarli era come bere acqua pura.

La vista debole scivola famelica sui capelli incendiati dal sole, su ogni tratto della pelle chiara che con gli anni è un po’ cambiato e che lui ha amato sempre di più; si ferma nella luce che le riempie l’azzurro delle iridi. È uno di quei momenti in cui il lupo che si aggirava intorno al letto a scatola nella tenuta in Bretagna scalpita e preme; e forse sarà meglio distogliere lo sguardo prima che inizi a sentirsi pericoloso e sporco, come se, a cavalcioni sul quel corpo così dolce, stringesse ancora fra le mani quel pezzo di stoffa bianca.

 

Il Cavaliere del Sacro Meleto, lungo il confine immaginario, si strugge d’amore e desiderio, quando sente la luce del tramonto così forte da essere complementare alla tristezza di quei due vuoti.

 

Oscar continua con dissimulata noncuranza a seguire il suo passo lento, attenta a non allontanarsi mai troppo. E sente una strana eccitazione nell’esaminarlo mentre lui, incosciente dei suoi pensieri, la segue tranquillo. Qualcosa, nell’aria che prorompe nell’odore secolare di chiuso, le sussurra che non dovrebbero essere che là. E, come l’aria, qualcosa prorompe da un gesto, un modo di muoversi, da una frase o da un semplice cenno delle labbra. Dallo scorrere innocente delle mani su una tenda… Dal volgere le schiena per osservarsi intorno…

Si apre un’altra finestra. Altra luce spezza il buio e corre in un battito di ciglia sulle pareti di un’ampia sala, illuminando la polvere danzante. Oscar ruota su se stessa seguendo l’ondata splendente che s’abbatte su un numero imprecisato di quadri. Una marea, arrivano, in file continue, fino al soffitto. Si avvicina alle tele appese più in basso, guardandosi ancora intorno e cercando lo sguardo di André, esclama interdetta “Ma… chi è questa?”.

Lui mette lentamente a fuoco le immagini; prima un quadro poi l’altro abbandonano la loro forma ovattata per vestirsi di linee nette e sinuose. In ogni riquadro di tela si materializza sempre, su uno sfondo scuro, lo stesso volto di donna. Un’immagine ossessiva, sparsa a tutte le altezza dei muri. Come un esercito di specchi che riflettono inesorabilmente lo stesso volto.

“È sempre la stessa donna…” osserva.

Capelli rossicci tirati indietro che cadono sulle orecchie in piccoli boccoli, occhi piccoli e chiari, bocca sottile, fronte alta. Oltre a quell’immagine pochi mobili.

“Questa non sarà mica la sala…” insinua Oscar.

“Forse” la appoggia André, che sembra aver capito cosa sta per dire. “Forse è la sala del conte Donatien de Jarjayes…” dice, stupendosene. Oscar annuisce, spaesata.

Si erano convinti, crescendo, che quell’uomo non fosse mai esistito e che la storia che Nanny, fedele allo spirito di quei giorni freddi, raccontava loro durante le notti del Mese Nero non fosse che un’invenzione per spaventarli. I loro occhi corrono ancora sui quadri, incontrando sempre lo stesso sguardo, in pose diverse, apparentemente freddo e insignificante. Eppure quello sguardo aveva avvinto la ragione di un uomo fino alla sua fine.  Nei loro ricordi la voce tranquilla della nonna sussurrò più o meno così…

 

Il conte Donatien de Jarjayes visse fra il Quattrocento e il Cinquecento, ed era uno degli uomini più in vista alla Corte di Francia. Eloquente e colto, ambito dalle donne per la sua avvenenza eppure schivo. Aveva solo due grandi amori: la bella Chantal de Rochenoire e i viaggi in paesi vicini e lontani, durante i quali svolgeva abilmente il ruolo di ambasciatore del Re. La bella Chantal lo attendeva triste e paziente al ritorno da ogni suo viaggio, carico per lei di doni preziosi e inestimabili. Ogni volta Donatien le prometteva che l’avrebbe sposata, ma il re, ogni volta esigeva un servigio nuovo, così Chantal era costretta a chinare il capo ed a promettergli che l’avrebbe atteso ancora. E ancora… Così passarono quindici anni, fino a quel giorno; il giorno in cui Donatien, di ritorno da un lungo viaggio nella fredda Russia, venne a sapere la notizia che lo distrusse per sempre: Chantal era morta in un orribile incidente. Mentre la carrozza percorreva una strada alle pendici di un’altura, il terreno, molle per la pioggia, era franato e lei era morta, senza mai essere stata veramente sua, lontana dalle sue braccia. Donatien si odiò: con il suo comportamento aveva ignorato ed abbandonato la donna che amava alla follia; si rendeva conto solo ora di quando fosse viscerale quell’amore ed era sicuro che, se fosse stato al suo fianco, la disgrazia non sarebbe accaduta. Si chiuse nel palazzo per il dolore ed iniziò a comportarsi come un pazzo: fece dipingere dai più rinomati artisti del tempo un gran numero di quadri, ognuno dei quali raffigurava Chantal. Voleva follemente riavere vicino a sé quell’immagine tanto amata, come se potesse colmare il vuoto che sentiva. Ma nessun quadro era mai abbastanza somigliante e lui, mentre gli anni passavano inarrestabili, era sempre più disperato ed isolato dal mondo, ossessionato da quell’immagine che era ormai una mania. Così la sala del palazzo si riempì di quadri dipinti da mille mani. Le tele raggiungevano il soffitto e coprivano ogni centimetro della sala, ma non colmavano il vuoto. No… il vuoto non lo colmavano. Quando seppe che il grande pittore proveniente da Vinci era in Francia, dopo aver visto il quadro della donna beffarda e scrutatrice che aveva regalato al Re, cercò in ogni modo di avvicinarlo perché intuì che era l’unico che potesse imprimere sulla tela il volto dell’amata Chantal. Ma vide svanire ogni sua speranza quando, giunto presso il suo castello, seppe che Leonardo non era più. Gli sembrò di perdere ogni speranza – se quella che negli anni aveva cupidamente coltivato poteva dirsi una speranza – finché una notte nefasta… … …

 

“Non credo ci possa essere un’altra spiegazione. Dev’essere la sala che tappezzò con i ritratti di della bella Chantal… insomma, mica tanto bella… ma l’amava… conta questo…” medita André, riflettendo momentaneamente sulla difformità fra i suoi gusti e quelli del folle Donatien e dandosi subito dello sciocco.

“Ma se è quella sala… André” soggiunge Oscar, sentendo una strana inquietudine crescere, mentre il suo sguardo cerca ancora in quello spazio rubato al tempo,“… allora deve esserci anche…” e le parole si fermano, incrociando, con un pizzico di apprensione quello che lo sguardo di André le indica.

 

… finché una notte nefasta, in cui la burrasca ululava e forzava i chiavistelli, dimenando i vetri e i rami adunchi degli alberi, non vide la soluzione del suo folle desiderio di averla accanto in un’antica tradizione che da giovane aveva appreso viaggiando per i verdi e bui territori inglesi… … … Nella notte, impugnato e brandito alla luna un badile, disseppellì il corpo ormai consunto di Chantal dalla terra bruna e verminosa e lo privò del teschio, che portò con sé a palazzo Jarjayes… nell’orrore dei sani di mente, additato dal mondo, quello era l’unico modo per avere al suo fianco l’amata Chantal… … …

 

Su un mobile sobrio e disseccato dal tempo scorgono un piccolo teschio grigio, dalle piccole orbite scure che li fissa. Una sensazione veloce e intensa di paura infantile corre su per le loro schiene: quella storia del Mese Nero, ascoltata cento volte, fino alla nausea, fino e non averne più paura, allora è vera. Un’altra storia da Mese Nero vera. Solo che questa aveva avuto il suo finale. Ed era il finale che il Mese Nero pretendeva. 

 

E si narra che, quando anni dopo la morte di Donatien gli eredi, infastiditi da tutti quegli oggetti spaventosi e imbarazzanti, superando il terrore, tentarono di far sparire le tracce di quell’amore e di quel dolore folle, rimuovendo per primo il teschio… … … per i corridoi dei castello si udirono atroci urla… talmente atroci e disperate da ghiacciare il sangue delle vene… Chantal non voleva per nessun motivo abbandonare il suo posto… … …

 

Il finale che il Mese Nero si arrogava: tremendo e irreversibile.

 

Ma… pensa Oscar chinando il capo… anche se il finale non fosse questo, anche se Chantal non fosse stata un teschio urlante che reclamava il suo posto, la storia è terribile comunque e ricordarla ora ha un sapore tossico di sconfitta premeditata.

Non ci chiedevamo mai… non ci chiedevamo mai, nelle notti d’inverno in Bretagna, i significati delle storie… ascoltavamo e basta… ascoltavamo e basta. Non c’erano pianti inascoltati in eterno nelle nostre paure momentanee. Non c’erano pianti in agguato per noi stessi nelle storie che andavamo inventando… Ascoltavamo e basta.

 

“Usciamo da qui…?” gli chiede seria, posandogli impercettibilmente la mano sulla camicia e dissimulando le paure che l’assalgono e che sono sempre le stesse. Le stesse paure che riempiono il luccichio delle lacrime pietrose che la Signora dalla Pelle di Rosa nasconde abilmente nel palmo della mano, mentre la treccia viperina oscilla nel tramonto.

André la segue, mentre lei sparisce lungo il percorso seminato di finestre aperte e tende dondolanti, contenendo il disagio. Nel seguire i suoi passi pensa che, se Oscar non fosse com’è, magari gli sarebbe svenuta fra le braccia. Potrebbe contemplarla non visto e consumarla di baci. Gli sfugge un sorriso e ringrazia che sia diversa, anche se volta le spalle e imbocca la prima uscita con aria marziale.

 

Oscar si ferma su un vecchio balcone, la schiena contro lo stipite della porta, a cercare di riordinare il sangue che si affolla nel cuore, serrandole le labbra per la paura di piangere e non saper che fare.

 

La Signora dalla Pelle di Rosa stringe, triste, lungo l’orizzonte, nella mano dalle dita affilate, un mucchio di lacrime dure, sfaccettate e splendenti come diamanti.

 

André le si avvicina tranquillo con le braccia conserte. La fissa e quando l’immagine diventa nitida, con il viso pallido, l’azzurro fluido degli occhi dal taglio felino e i capelli fluttuanti, come nei suoi sogni da lupo, sente forte che capisce Donatien. Capisce a cosa si può arrivare pur di lasciarsi scivolare dentro, attraverso gli occhi, un’immagine.

Oscar lo fissa un attimo alla luce possente del giorno e si sente così viva da poterne morire. Non sa articolare le parole, ma solo un leggero sorriso.

“Paura?” le chiede, tentando di sdrammatizzare.

“Ma no…”.

André ripete a memoria la conclusione della storia di Nanny: “Chantal non voleva per nessun motivo abbandonare il suo posto, perché si dice che anche le ossa di Donatien giacciano, misteriosamente, vicino a lei… per sempre… Che dici… potrebbero essere nel mobile…”. 

“Tua nonna non ne inventava storie a quanto pare… ma erano raccapriccianti nonostante fossero vere”.

“Già…” commenta lui pensieroso, porgendole il profilo nel contemplare lo scorcio che si apre sul parco.

“Mica come te…” soggiunge lei senza accorgersene, persa nella linea del profilo.

André sente una piccola puntura, come di zanzara, al cuore.

 

Non ti ricorderai mica di quella vecchia storia sospesa nel tempo, del letto a scatola, del Bordeaux che rotolava sul materasso, delle mie scarpe sulle lenzuola, del fumo delle candele e del sonno traditore? Sai nulla del lupo con gli occhi teneri e il cuore spietato di quella notte, lo stesso che ti baciò senza pietà nella rabbia quando volesti mandarlo via, lo stesso che hai davanti?

 

Il Cavaliere del Sacro Meleto sente che lei gli tende il piccolo pugno pieno di lacrime splendenti e si chiede cosa stia per succedere.

 

Oscar sorride divertita, nello scorgere quell’espressione di stupore.

Per fortuna il Cavaliere del Sacro Meleto e la Signora dalla Pelle di Rosa aspettano ancora il loro finale lungo il solito orizzonte fantastico, fra il sanguinolento tramonto, le torri svettanti dagli stendardi colorati e i gargoyles raggomitolati nella pietra scura dell’antico regno perduto.

Lei giura a se stessa di sostenere quello sguardo, ma si accorge presto che uno sguardo a volte non è fatto solo di ciglia, iridi, pupille dilatate e palpebre socchiuse. C’è un baluginio che si rapprende e si fa carne e lo sente incontrollabile, sfuggire anche dai propri occhi. È come se lentamente le palpebre debbano combattere con il peso di una strana gioia.

“Oscar ascolta…” le chiede, posandole una mano sul fianco. Lei si sente male… e bene… non sa. Ed è possibile che tu non ti arrenda proprio mai Cavaliere che aspetta lungo l’orizzonte?…

“Oscar… sta’ tranquilla ti prego” dice, sentendo che lei si irrigidisce. “Posso darti un bacio? Uno solo… ti prego… anche se per te non è cambiato nulla da quella sera che volevi allontanarmi, io non ce la faccio a pensare di averti solo rubato baci in vita mia. Preferisco che tu mi dica di non farlo. Che tu mi dica che non lo vuoi”.

André le si è avvicinato troppo, seguendo la luce dei suoi occhi. Le scappa un gemito stupito dalle labbra e sente il sangue che le inonda il viso pulsando nelle tempie. Senza rispondere china il capo, spaventata. Sente che sta per allontanarsi, dannandosi per essersi illuso, ferito, per l’ennesima volta, a morte e, ancora col capo basso, gli afferra con le mani le braccia perché non la lasci. Sperando che capisca. Che non la deve lasciare.

La stringe forte, perché non c’è nulla da temere. La deve solo stringere forte per calmare il tremito incontrollabile del suo corpo e di quello di lei, anche se questo tremare è di una bellezza divina. Basta un abbraccio, il viso maldestramente premuto sul collo poi sulla guancia, perché così si è al sicuro in due e perché l’abbraccio diventi tutt’uno col gesto col lasciar scivolare le labbra le una sulle altre, perché rimangano così teneramente unite a lungo col respiro lieve e caldo sul volto e le palpebre brucino di gioia e scivolino sugli occhi umidi e ………………………………………...

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Cetera Desunt

(il resto manca)

 

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Il Cavaliere del Sacro Meleto racchiuse nelle sue mani il piccolo pugno tremante della Signora dalla Pelle di Rosa. Lei lo guardò commossa e, senza parole, aprì nelle sue palme la piccola mano regalandogli quel pugno di lacrime che luccicavano ancora, nonostante il sole fosse ormai basso.

Le gemme si sciolsero brillando nelle sue mani e lui si sentì infinitamente felice e triste per quello che ognuna di quelle pietre splendenti gli rivelava e la abbracciò, incurante di rompere la promessa di non oltrepassare l’orizzonte.

La campana polverosa sotto cui lo stregone aveva imprigionato le loro anime si lesionò e si ridusse in polvere lasciandole libere; allora le torri, i gargoyles e il crepuscolo iniziarono a perdere ogni forma ed ogni colore, perché scomparve quella sensazione di vuoto che li aveva tenuti vicini e lontani.

Benché non potesse vedere, il Cavaliere del Sacro Meleto la prese fra le braccia e la portò lontano da quel confine sottile e inutile.

Le sciolse la terribile treccia serpentina in morbide ciocche che le scivolarono sulla schiena bianca e lasciò che lei si abbandonasse sul suo petto.

Lei gli passò dolcemente le mani sugli occhi bui e sul profilo sottile, le intrecciò alle sue e lasciò che la cullasse ascoltandone il respiro. Udì il proprio diventare veloce e caldo nel mischiarsi al suo.

“La notte serena e blu sta per abbattersi sul mondo” le sussurrò a fior di pelle, sul viso.

“Ed io non ho mai affrontato nulla che non fosse un crepuscolo rosso acuminato come l’inferno” rispose lei, stringendogli le mani nelle sue. “Perché non hai mai ripreso quel che era tuo e non sei fuggito?” gli chiese dopo una piccola pausa per prendere fiato.

“Non sempre fuggendo si sfugge. Se fossi fuggito cosa sarebbe successo il giorno che mi avresti trovato dentro di te? A chi avresti consegnato quelle lacrime d’amore? Come avrei potuto vivere e respirare, giorno dopo giorno, senza?” rispose sulle sue labbra e la fece tremare.

Lei lo avvolse dentro di sé e lui sentì i suoi piccoli denti bianchi sulla spalla nuda, mentre tutto il resto perdeva ogni senso.

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Nota: l’idea di fare riferimento ad usanze della Bretagna e di inventarmi una tenuta dei Jarjayes in quella zona della Francia nasce dalla lettura di alcuni capitoli di “Possessione” di Antonia S. Byatt. Si ringraziano per la collaborazione i Cavalieri della Tavola Rotonda (Parsifal e Lancillotto), la Dama di Shalott, Leonardo da Vinci e i teschi urlanti.

 

Fine

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