Bees and Flowers

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È una giornata importante a palazzo Jarjayes. Per le stanze e i corridoi c’è un’eccitazione da evento. Oggi l’ultimo uccellino abbandonerà il nido.

Una delle sue sorelle oggi si sposerà, pensa Ginèvre, chiudendo i ganci degli orecchini. Sono così pesanti che le tirano giù i lobi. Il corpetto stringe, strizza, senza pietà, il seno fuori dalla scollatura. Per essere belle si accetta di buon grado la tortura. Lo ha sempre detto e non lo ha mai pensato. Il giro vita a diciotto anni non è più quello di una volta: tre parti e sei centimetri in più. Quando si è sposata aveva una vita così sottile che bastava una mano a stringerla.

Da oggi toccherà anche a Marie Victoire.

L’unica che non se ne preoccuperà mai sarà la piccola Oscar, pensa, mentre con una smorfia amara manda via la cameriera e si passa la cipria sul volto.

Già… Lei no.

Lei, che è ancora troppo piccola per capire cosa questo significhi, va a cavallo gridando come un’indemoniata, fa volteggiare pericolosamente la spada e sfida con l’incoscienza della sua età chiunque le sbarri il passo.

Già… Lei no.

Sarà un bene o un male? Ginèvre questo non lo sa. Sa che fino ad ora lei, sua madre e le sue sorelle, pur tacendo, l’hanno vissuta come una follia del Generale. Sua madre una volta aveva gridato al Generale padre “Che cosa farai François, quando si accorgerà da sola di essere una donna? Che farai se un uomo, un giorno, la vorrà e la desidererà come una donna?”

Lei e le altre sorelle erano nella camera accanto. La voce del Generale non aveva risposto. Si era sentito il rumore inconfondibile di uno schiaffo, simile a quelli che prendeva così facilmente la piccola Oscar quando replicava o quando, anche lontanamente, assumeva un atteggiamento femminile. A quel suono tutte e cinque avevano chinato il capo sul ricamo e lei ricorda di essersi punto un dito.

Ora, davanti allo specchio, madre di tre figli e moglie di un quarantenne da quando aveva tredici anni, si chiede cosa significhi quella frase che aveva detto sua madre otto anni prima: che vuol dire essere volute e desiderate come donne? Sua madre lo sapeva? L’aveva mai fatta sentire così l’uomo che quella sera l’aveva schiaffeggiata senza proferir sillaba? Sarebbe stata solo Oscar a non saperlo mai?

Mentre allontana il dito dal viso incipriato di bianco, dopo avere appiccicato il neo di velluto vicino al labbro, chiedendosi se quella macchia nera sia proprio necessaria, sente la porta della sua camera aprirsi pigra ed un passo incerto scivolare sui tappeti, fra i mobili dorati.

“Oscar!”

“Ciao”.

“Piccola… che fai qui? Ma sei un amore! Quell’abito verde scuro fa risaltare la tua carnagione!” si complimenta con un sorriso Ginèvre, guardando riflessa nello specchio la bambina bionda che avanza svogliata attraverso la stanza. Ha circa dieci anni ed uno sguardo troppo serio e duro per la sua età. Non indossa un abito di pizzi e trine con sbuffi e drappeggi, come quelli delle sua coetanee attaccate alle gonne delle madri nel parco. È vestita come un maschio e dalla vita, sul fianco, le ciondola uno spadino.

Assurdo! Pensa Ginèvre, che quegli aggeggi li odia, ruotando su se stessa nell’impalcatura della gonna.

“Hm…” le risponde con aria di sufficienza la piccola Oscar. Ginèvre dimentica sempre che a sua sorella questi commenti non interessano. Non le interessa essere agghindata di verde per il matrimonio dell’ennesima sorella. Non importa neanche a Ginèvre, ma si rende conto che sa imboccare solo discussioni frivole. A volte ha la sensazione che quello che la sua voce articola affettatamente, come si fa nei salotti eleganti, non ha il senso che lei vorrebbe dargli. Non si può parlare così ad una bambina.

E quella è una strana bambina. Abituata ad essere additata e scrutata. Abituata a restituire disprezzo a chi, per via della curiosità che suscita, le si avvicini troppo. E pensare che di tutte e sei sarà la più bella fra qualche anno, pensa Ginèvre, osservando l’ovale del volto. E pensare che è vicino il giorno in cui il Generale le farà strizzare il seno nella stoffa pesante dell’uniforme militare, anziché in un corpetto che ti toglie il fiato e ti fa svenire ogni volta che si muove una foglia.

I padri ed i mariti mettono le donne nei corpetti per bloccarle, le aveva detto un giorno la piccola Oscar, senza guardarla, con la sua aria di sufficienza. Lei era stata zitta perché aveva pensato che era vero, ed aveva avuto timore di sua sorella.

“Posso stare qui con te mentre Nanny finisce di bardare Marie Victoire?” le chiede la piccola, sedendosi in poltrona e posando le manine bianche ed affusolata sui braccioli scolpiti, senza smettere di fissarla.

“Sì tesoro… ma Oscar!…Scostumata! Marie Victoire non è bardata… È tua sorella! Non è mica uno dei tuoi cavalli!”.

“Io di là mi annoio… la mamma piange e Marie Victoire fa i capricci. Dice che quel vestito da torta alla panna è troppo stretto e lei dentro soffoca”.

Ginèvre sospira, sedendosi di fronte alla sorella. La fissa nel verde scuro degli abiti maschili, seduta sulla poltrona con la schiena dritta ed il mento alto, come un re. Pensa che le vuole bene.

La luce illumina il viso della bambina; ha la guancia destra arrossata.

“Ti annoi?… Cosa ti è successo in viso, piccola peste?” Le chiede sconsolata, ma non più di tanto, perché Oscar è sempre piena di ecchimosi e graffi, e li esibisce sulla pelle come medaglie.

“Marie Victoire si è arrabbiata e mi dato una sberla. È sempre isterica”.

“Ma tu cosa le hai fatto?”.

“Voleva che le mettessero il neo finto. Io gliel’ho fatto in mezzo alla fronte con la matita per gli occhi e lei è diventata isterica. Poi Nanny voleva farmi vestire come una stupida femminuccia, allora sono venuta da te”.

Ginèvre trova tutto molto divertente solo in superficie. In realtà è tutto di una tristezza abissale.

“Oh!… Sono contenta. André dov’è? Come mai non è con te?” chiede Ginèvre, pensando che qualcosa non quadra, qualcuno manca, nel vedere la sorella minore da sola in camera sua; lei che evita le postazioni d’imbellettamento e il fruscio delle sete come se fossero peste.

“André è un brutto deficiente ed io con lui non ci parlo da ieri”.

“Oscar… Cosa ti prende? Stai litigando con tutti… perfino con André!”

“E’ deficiente”. Ripete la piccola, perché il concetto non sfugga alla sorella maggiore, che non si capacita di quel che sente.

“Non fare così. André è un bravo bambino…”

In realtà lei non ha mai pensato che André fosse un bambino. Da quando è andato a vivere a palazzo Jarjayes come attendente della sfortunata sorellina, ha notato lo sguardo serio di una persona grande. Ma non simile alla serietà rancorosa della piccola Oscar, che negli anni però sta scemando, mentre si aggira per i boschi e le stanze vuote del palazzo con l’amico alle spalle. Serio come saggio. Più di certi adulti. Misurato e gentile, anche se sicuro di quello che pensa e di quello che fa. No… ci pensa Ginèvre, non è remissivo come sembra nel cedere ai capricci della sorella, è paziente. Forse è così perché è figlio di genitori umili, ha li ha visti morire ed è come se sapesse che i dolori si devono sopportare… Non lo sa.

Ma vederli insieme le fa impressione: due grandi solitudini in due piccoli corpi che trotterellano fra le pareti del palazzo, maneggiando pistole e spade da quando le mani ne hanno avuto la forza. È qualcosa che strige il cuore, perché non ha una sua collocazione nei ruoli che la vita assegna: le donne a bucarsi le dita sui merletti e ad accogliere i mariti freddi nel letto, per sfornare più maschi possibile; i servi ad indurirsi le dita delle mani nella puzza di sterco delle stalle, fra le battute volgari ed il disprezzo dei padroni.

“Che ti ha fatto?” chiede Ginèvre, che non crede molto alla potenza delle ire di Oscar verso quel bambino che la segue come un'ombra.

“Mi ha detto delle cose brutte… io mi sono offesa e non gli parlerò più” dice la piccola, chinando il capo per nascondere l’umiliazione.

Ginèvre non sa che dire, ma vorrebbe dire qualcosa. Non è facile parlare con quella sorella, ma lei sente il bisogno di avvicinarsi a quella piccola solitudine che ora parla male della sua metà.

Un po’ di silenzio. La testolina bionda sembra meditare, sta elaborando una domanda.

“Ginèvre… ti devo chiedere delle cose. Però tu non devi dire mai a nessuno che te le ho chieste… mai! Va bene? Mi aiuti?”

“Piccola…” esclama Ginèvre, senza credere a quel che sente “ Puoi chiedermi tutto quello che vuoi! Non lo dirò mai a nessuno. Cosa è successo? Raccontami”.

Sta succedendo qualcosa di strano ed ovvio. Qualcosa cui non era preparata, ma che ha bisogno di affrontare per fare un passo verso quella sorella amata e distante. E, sospetta, per comprendere bene qualcosa che riguarda anche se stessa.

“André mi ha fatto arrabbiare… Mi ha detto che non sono un maschio ed io gli ho detto che non è vero. Poi lui invece ha detto che è vero, perché quando andiamo nei boschi e ci scappa la pipì lui riesce a farla in piedi dietro gli alberi ed io invece no e mi devo cercare un posto nascosto”.

Ginèvre deglutisce. Lei questi discorsi non li sa fare.

“E ti sei arrabbiata per questo?”

“Gli ho detto che io come maschio sono molto migliore di lui, anche se non riesco a far pipì in piedi dietro gli alberi, perché con la spada lo batto sempre. Allora lui mi detto che quello è perché sono femmina e sfuggo meglio. Mi sono veramente arrabbiata e gli ho morso una mano, poi ha iniziato ad arrabbiarsi anche lui e mi ha detto che fra qualche anno, quando sarà estate e farà un caldo micidiale, non potrò più togliermi la camicia, perché mi verranno quei gonfiori che avete tu, nostra madre e le altre femmine, solo che i miei saranno bruttissimi da vedersi perché io penso di essere maschio e sono cattiva…”

“Oddio Oscar…” mormora Ginèvre. Non è più imbarazzata come all’inizio. Quello che la signora madre temeva sta già succedendo e lei ne è la testimone. Mettere quel bambino di fianco alla sorella non servirà a persuaderla di essere un maschio. Lei forse, come ora, tenterà di convincersi per anni che è vero quello che il padre le ha imposto. Ma è già caduto un seme che darà vita a qualcos’altro. E c’è qualcosa di incredibile, perché sente che quando la sorella arriverà con le sue domande dove vuole lei, dall’alto delle sue tre gravidanze, non saprà dirle molto.

“Continua… cos’altro ti ha detto?”

Oscar sta zitta. Forse non le va più di parlare. Ma poi, giocherellando con i bottoni della giacca, riprende a far domande.

“Ginèvre… però è vero che André è diverso da me. Io l’ho visto… So perché per fare pipì non deve sedersi per terra… perché?”

Ora sì che Ginèvre ha perso il dono della parola. Sente anche un rivoletto di sudore che sfugge dalla parrucca e corre lungo la schiena, fermandosi dove il corpetto le blocca il fiato. Se svenisse ora non sarebbe costretta a subire fino in fondo l’interrogatorio, ma il corpetto non collabora.

Già perché? Cosa risponderle? Lei che ha sempre pensato che gli uomini siano fatti così per svegliarti di notte e torturarti. Perché dalla tortura notturna devono nascere figli, possibilmente maschi. Le femmine sono costi superflui. E a volte, ha sentito dire, quando nella famiglie povere nascono delle bambine, la nutrice le manda all’altro mondo con dei metodi segreti che solo lei conosce. Poi si dice in giro che la bambina era debole ed è morta. I nobili se le tengono studiando il modo migliore per liberarsene, sperando che non siano troppo brutte, così da contrattare sull’entità della dote.

Perché la natura ha deciso che ci debba una cosa così brutta; così brutta da dover pensar ad altro per sopportarla, ad esempio ad un romanzo o agli ultimi pettegolezzi di Versailles, finché il marito non finisce. Lei non ha nemmeno visto com’è fatto suo marito, sa solo quello che vuole la notte. E non riesce a capire che vita bisogna fare per provare quella cosa che nei romanzi chiamano amore e che fa sussurrare agli uomini “Dio, toglimi tutto, ma lasciami l’amore che fa soffrire!” Perché chiedono con insistenza di soffrire?

Tenta di raccogliere le idee e di non mostrarsi turbata. Farà alla piccola Oscar lo stesso discorso che Nanny, come delegata dei suoi genitori, le fece fra mille sudori la notte prima che sposasse il suo marito quarantenne. Coraggio. Fra qualche anno lo farà anche con i suoi figli.

“Hm… ecco… vedi Oscar… il fatto è che ci sono le api e poi ci sono anche i fiori…” Lunga pausa destinata alla deglutizione. Ma come deglutire se la lingua si è seccata?

“Le api… Le api volano…” continua Ginèvre.

“Sì, lo so ce ne sono tante nel parco…” ribatte Oscar all’ovvietà della rivelazione.

Ginèvre si rende conto che la sorella non ci capirà nulla, come quella sera non ci capì nulla lei, per poi trovarsi la notte dopo nuda e dolorante con i lividi fra le gambe sulle lenzuola macchiate. Bisogna essere più chiari.

“Beh… tesoro... non è poi tanto importante che volino… le api vanno sui fiori… per… per… e così…”

Diciamoci la verità: che c’entrano le api? Che cavolo fanno le api sui fiori? Questo risulta poco chiaro nonostante le tre gravidanze. Cosa c’entrano le magnifiche api e lo splendore dei fiori con quelle notti di sopportazione. E che intendeva sua madre quando parlava dell’essere desiderate come donne? Ed è possibile sospettare che qualcuno già desideri come una donna la bambina destinata a crescere come un maschio?

No, questo forse no. Sta fantasticando troppo. André sa semplicemente bene quello che fa agitare Oscar e lo ha usato una volta tanto come un’arma per difendersi.

“Dunque Oscar… le api volano… e le donne fanno i figli perché sono fatte in modo diverso dagli uomini… mi sembra che hai già visto di persona e quindi non scendo nei particolari”. Taglia corto, tentando di essere più esplicita e vergognandosi molto.

Oscar la fissa con aria interrogativa dalla sua poltrona.

“No… Ginèvre, non ho capito”.

Ginèvre si chiede quale atroce peccato abbia commesso, per essere condannata ad espiarlo in quel modo. Oramai non è possibile tornare indietro, né negare spiegazioni.

“Hai presente la serratura e la chiave?” sputa fuori, per liberarsi da quel discorso che dura da troppo tempo e la sta facendo sudare freddo.

La piccola rimane un po’ a bocca aperta e sta già avanzando un’altra domanda che lei la tronca.

“Oscar… Oscar… basta così… se ci pensi un po’ vedi che capisci!”

Oscar richiude la bocca, ma non dice nulla.

“Senti… Ora dov’è André?”

Fa questa domanda, chiedendosi se sia un bene o un male, che quel ragazzino che ragiona come un grande, passi tutto il suo tempo con sua sorella. Si chiede se sia giusto nominarglielo proprio ora che, passando attraverso la placidità dei tradizionali api e fiori, ammanniti a lei e altre sorelle come vademecum per le vita coniugale, è arrivata alla metafora ardita di chiavi e serrature, proprio con la sorella che doveva rimanerne ignara.

“È nel parco. Tanto neanche lui mi parla più”. Commenta Oscar che, sconsolata, fa girare i bottoni della giacca su se stessi.

È logico, sta per replicare Ginèvre, gli hai morso la mano; ma la piccola riesce ad infilare la sua domanda come una delle stoccate che assesta con lo spadino.

“Ma tu intendevi che André ha una chiave…”

“Basta… Basta Oscar! Smettila! Non va bene parlare di queste cose. E non devi parlarne nemmeno con André! Capito!?”

Non crede neanche lei alla frase che le esce dalla bocca, ma non ce la fa più. L’ha detta ormai. Ed è un miracolo che alla fine non abbia aggiunto: “Andrete all’inferno se parlate di queste cose!”

“Ma io non voglio parlare per niente con André. A me André non piace. È brutto e scemo… e mi contraddice sempre”.

Menomale! Vorrebbe dire Ginèvre, ma non lo pensa. E sa che mente anche Oscar, che non sa fare a meno di quell’unica compagnia che la completa. Oscar che ora in quella stanza piena di belletti e roba da donna si sente sola e fuori posto.

Ginèvre comincia a sospettare che tutto non sia poi così sbagliato come si sussurra dietro i ventagli al passaggio della bellezza efebica della sorella.

“Ma mi sono arrabbiata di più perché anche lui si arrabbiato con me dopo…”

Discorso dalla consequenzialità ineccepibile, non c’è che dire. Ginèvre ci mette un po’ ad afferrare quel linguaggio infantile.

“Avanti, cos’altro è successo?” si rassegna a chiedere, perché intuisce che le rivelazioni non sono finite. André non sì inquieta facilmente.

“Siccome mi ero arrabbiata molto perché non volevo sentire quelle cose e lui me le diceva, ho preso le forbici e gli ho tagliato una ciocca di capelli… Però non pensavo che si arrabbiasse ed invece si è arrabbiato… e mi ha detto che siccome sono femmina fra qualche tempo inizierò a perdere sangue… così mi imparo…”

“Beh… questo te lo spiega Nanny!” fa Ginèvre, saltando in piedi esasperata e ricordando che la vecchia governante con quell’argomento se la cavava meglio di quanto non facesse con la bucolicità di api e fiori.

Prende la sorella per mano e la invita a scendere nel parco con sé. Oscar acconsente e le fa giurare che nessuno mai saprà del discorso che hanno fatto mentre il palazzo era in subbuglio per la nuova fortunata vestita di bianco. Per la quinta vergine che usciva dalla casa per diventare donna nel letto di un duca, visto al massimo due volte prima d’allora.

 

Per le scale Ginèvre si chiede se è questo il prezzo per la dignità e la considerazione degli altri. Lei è molto rispettata da tutti: è figlia del Generale, moglie di un ministro ed ha partorito tre maschi. E perché allora, dopo quel discorso, inizia a sentire che c’è qualcosa che non va?

 

È quasi ora. Nella cappella di famiglia e nel parco è pronta ogni cosa. Gli invitati sotto gli ombrellini chiari lasciano ondeggiare le piume dei ventagli e si lamentano del caldo. Lamentarsi è sempre tanto signorile!

Scene viste e riviste. Per ogni matrimonio un trambusto, l’illusione dell’evento, ma alla fine sono tutti uguali e noiosi. Anche la sposa nel suo abito carico di pizzi e  trine sembra sempre la stessa.

André si aggira per il parco con le braccia conserte e la ciocca sfregiata che sfugge dal nastro azzurro. Fa del suo meglio, a pochi metri da loro, per avere un atteggiamento distante, ma non è molto convincente. Nemmeno quando distoglie lo sguardo. Oscar è accigliata, ma non lo manda via quando lui si siede al suo fianco.

Ginèvre li guarda. Sono buffissimi. Lui con le braccia conserte e lei con le ciglia cattive.

André dopo un po’ le parla, come se nulla fosse successo. Chissà cosa le dice? La osserva in un modo che Ginèvre non sa definire. Continua a parlare, anche se Oscar guarda dritto davanti a sé e risponde a monosillabi. Ma è contenta che lui si sia riavvicinato, anche se continua la recita.

Che darebbe lei perché un uomo nella sua vita possa mai guardarla come quel ragazzino sta guardando sua sorella! Che darebbe per sapere cosa si dicono!

Si rende conto che sta invidiando la sua sorella disgraziata. Lo strano essere dal futuro incerto che tutti additano per poi tornare a far finta di nulla e sorridere al Generale. Si rende conto, nel guardarli, che non le fa più male il vederli soli ed isolati dal mondo, perché ha afferrato qualcosa che prima le sfuggiva. Non le sembrano più fuori posto. È tutto il resto ad essere fuori posto.

Guarda in su verso suo marito. Lui non la degna di attenzione. È molto più alto di lei e, nell’osservarlo dal basso verso l’alto, vede le sue narici annerite dal tabacco da fiuto. Distoglie lo sguardo con disgusto, ma nel naso, a ricordarle che lui le sta accanto, rimare l’odore del tabacco.

Mentre il sacerdote sciorina parole in latino, si scorge a stento Marie Victoire nell’abito bianco dalla gonna gigante. Ha un visino sparuto e due occhietti cerulei ed acquosi. I capelli color cenere, sottili come piume d’oca, sono spariti nel parruccone bianco e lanoso. Il marito è grasso ed insignificante. Ginèvre non riesce a guardarlo. Pensa a quello che farà la notte.

Oscar e André ora stanno confabulando. Hanno fatto pace senza bisogno di chiedersi scusa. È ricominciato il loro magnifico isolamento dalle regole che costringono trecento e passa persone a stare ferme come salami impettiti, col trucco che si squaglia, sotto il sole assassino di fine giugno.

Se la ridono. Ha l’impressione che prendano di mira ora il naso bitorzoluto di un conte, ora il baffo di una duchessa o la parrucca spelacchiata di un dignitario poco dignitoso. Vorrebbe farlo anche lei che ha diciotto anni.

Oscar fa una cosa strana, deve aver dimenticato la sua parte di offesa: ferma la ciocca monca dietro l’orecchio di André e continua a ridacchiare degli invitati. André è felice, anche se per un secondo distoglie lo sguardo intimidito. Torna a guardarla… Mio Dio come l’ha guardata…

Ginèvre immagina che, fra qualche anno, ci sarà in quello sguardo aperto e verde un desiderio più forte e consapevole, e spera che prima o poi lo capisca anche la sorella, che ora ridacchia ignara.

André dà una gomitata all’amica, quando il tal barone tira fuori un fazzoletto ricamato per strombazzarci dentro il nasone, coprendo l’omelia del celebrante e svegliando molti invitati.

Se continuano così li prenderanno per orecchie; già il Generale li ha localizzati e minaccia vendetta con lo sguardo. Ora tacciono, ma non serve, perché Ginèvre ha la sensazione che possano capirsi anche senza parlare.

 

Provare invidia per una bambina di dieci anni dall’alto della sua rispettabilità? No, non è questo.

È la sensazione di aver sbagliato ogni cosa lasciandosi trasportare dagli eventi a bruciare come sale su una ferita.

Ma può una bambina di tredici anni puntare i piedi come un mulo e dire al Generale che deciderà per sé della sua vita?

Ci ha pensato Marie Victoire, che ora siede davanti all’altare, sprofondata nella gonna?

Ci ha pensato Josephine, che non riesce ad avere figli e mangia per dimenticare che il marito non solo non l’ama, ma la disprezza?

Gisèle, dai capelli crespi e dalla risata sguaiata e contagiosa, ci aveva pensato, prima di imparare a stare muta e composta di fianco al suo consorte sessantenne?

E Isabeau, innamorata pazza di quel giovane conte dalle chiome rosse, ci ha pensato quando l’hanno costretta a sposare il cugino trentenne di Nantes? Lei forse ci aveva pensato, mentre tentava di posare la lama sui polsi, prima che il Generale le facesse sanguinare la bocca con un ceffone.

Sembriamo tutte uguali, noi sorelle Jarjayes. Tutte lo stesso sguardo inerte e gli angoli della bocca piegati verso il basso in un’espressione d’irrimediabile noia.

 

Il rito è finito. Gli invitati si disperdono sul prato, verso il banchetto, dove ostenteranno inappetenza perché - tanto si sa - si sono già ingozzati a casa loro. Spiluccheranno qualcosa di minuscolo, perché mangiare in pubblico non è fine.

Viva la sposa! Si è sistemata finalmente! Commentano le dame. Le ha sistemate tutte il conte Generale.

Tutte tranne una che, con passo marziale e scudiero al seguito, si aggira fra i tavoli guardando la gente negli occhi come non hanno mai potuto fare le sue sorelle.

Lei non è mai stata sola in fondo, pensa Ginèvre fissandoli, mentre fanno provvista di vettovaglie.

Dal modo in cui il ragazzino la segue e le dà suggerimenti, che lei sembra non cogliere nella sua alterezza, ma che mette sempre in pratica, percepisce che è come se André, che a volte sembra troppo vecchio, se ne stia nell’ombra a pretenderla con più testardaggine di quanto non farebbe uno di quei seduttori di professione che infestano i corridoi delle case eleganti.

Ora se ne stanno sotto l’ombra della chioma di un albero a divorare dolci, in mezzo al tedio e alla noia degli altri.

Chissà se Oscar ci pensa adesso al mestruo, alle chiavi e alle serrature…? Si chiede Ginèvre, senza riuscire a credere di aver fatto un discorso del genere con la sorella maschiaccio, e le sfugge una lacrima nel vedere André che, furtivo, per un secondo, le stringe una mano e lei che si ritrae orgogliosa. Chissà di cosa parlano? Chissà di cosa si parla con un compagno che sia anche un amico? Si chiede Ginèvre, pensando che c’è più amore in un gesto furtivo di un secondo, che in un rito matrimoniale che dura tre giorni di festeggiamenti.

 

Il sole è ancora alto nel cielo e le api lavorano sui campi. I fiori ogni tanto si piegano sotto un alito di vento.

Ginèvre si dice che forse ha fantasticato troppo, sconvolta dalla stanchezza e dallo stupore per essere riuscita a parlare da donna a donna con la sorella che dovrebbe vivere da uomo.

Li cerca di nuovo con lo sguardo, mostrandosi villana e disattenta, durante una frivola conversazione con l’ennesima baldracca che si spaccia per donna rispettabile.

Li scorge sotto lo stesso albero, addormentati come due gattini sazi.

Vede un piccolo barlume di speranza. Non è per lei, ma non importa.

Forse Oscar sarà l’unica a capire che senso ha tutta quella storia sulle api e i fiori, pensa, avvicinandosi ai due mocciosi dormienti, inzaccherati di fango e crema chantilly.

E mentre scorge la ciocca di capelli amputata, che non ne vuol saper di rimanere nel confine del nastro azzurro, e le piccole mani che appena si sfiorano sull’erba, comincia ad avere una certezza: forse Oscar saprà anche cos’è quell’amore con cui gli scrittori sporcano le pagine, i pittori i quadri ed i musicisti il silenzio.

Quell’amore di cui i grandi, troppo impegnati a spiegarti la storia delle api e dei fiori senza averla mai capita, non ti parlano mai, perché confuta le loro gerarchie perfette e tenui come castelli di carta.

 

 

ЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖ

 

 

È buio. E non si può dormire.

Non è stata rose e fiori la vita di nessuno. Alla fine nessuno ha avuto una briciola di felicità, pensa Ginèvre, mentre la luce della luna trabocca sul tappeto della camera da letto. La vedovanza l’ha sollevata e i figli sono andati via. E successo solo questo.

E chi avrebbe potuto essere felice ingoia parole e pensieri. Facendo a pezzi i sentimenti giorno per giorno, come in un piano di guerra contro se stessa.

La rabbia le fa tremare le dita se ci pensa, perché fa tremare vedere qualcuno che lascia andare quel che noi possiamo solo guardare da lontano.

L’atmosfera di palazzo Jarjayes è opprimente. Nei corridoi non rimbombano più le risate argentine di un tempo. Il silenzio è come una ragnatela gigante che soffoca le stanze e dormire non è più possibile…

Sono cresciuti i bambini. E non è successo quel che lei aveva sperato. Non è successo quello per cui tante volte, odiandosi, ha invidiato Oscar.

È diventata così bella e così sola. Ed, ora che ha il viso così pallido e scavato, sembra che abbia appeso al chiodo l’anima. Lo ha pensato tante volte Ginèvre durante il suo soggiorno in casa dei genitori e non ne capisce il perché. Non capisce perché abbia lo sguardo di chi si lascia morire di quello che la fa vivere.

È cambiato anche André. Non ha più il passo veloce e il sorriso pronto di un tempo. Conta i passi perché non vede e si limita ad un cenno cortese del capo. E si lascia vivere a pochi passi da Oscar.

Sono successe cose a cui lei non avrebbe mai creduto. Oscar e André sono distanti, come mai lei li avrebbe immaginati. Per mesi la breve distanza fra loro è sembrata di ghiaccio. Silenzi e pause laddove lei ricordava scambi di battute e sguardi complici. Lo ha sentito sulla pelle che la ragnatela soffocante che blocca l’aria del palazzo è tessuta delle parole non dette fra quei due.

Nessuno sa cosa sia successo prima che Oscar cambiasse incarico. E nessuno sa perché avesse voluto allontanare André. È successo e basta.

Ma è successo anche quello che lei aveva immaginato scrutando lo sguardo di André tanti anni prima.

Sono voci di corridoio, sussurri della servitù. Sono vere: c’è chi ha visto con i suoi occhi e sentito con le sue orecchie.

Un giorno André ha puntato la pistola contro il Generale. Ha detto che lo avrebbe ucciso se avesse toccato Oscar. Ha offerto la sua vita per Oscar e ha detto che se avesse potuto sarebbe fuggito via con lei e l’avrebbe sposata. Oscar non ha detto niente. Nemmeno una parola.

Oscar lo controlla da lontano con la coda dell’occhio, quando crede di non essere vista. Ma Ginèvre l’ha vista tante volte, pensa mentre si alza dal letto per osservare la luna rotonda e anemica nel cielo di luglio.

Quando ascolta le parole misurate di André e lo vede compiere quei gesti che compie da quasi trent’anni, Oscar è felice. Sembra che quei gesti e quelle parole la dissetino, ma rimane ferma sulla sedia ad osservarlo mentre si allontana. E non lo ferma.

André ha smesso di aspettare che lei gli dica qualcosa.

Ginèvre calpesta il chiarore della luna sul tappeto, in piedi in mezzo alla notte.

Ma il tormento di quel finto ignorarsi sta diventando inarginabile, lo ha visto negli occhi di Oscar, come un lampo. E prega che quel lampo la spezzi in due, per il suo bene.

 

Una volta erano in veranda lei, Oscar e Gisèle.

Il marito di Gisèle è vecchissimo e lei guarda i giovani. E i giovani entrano ed escono dal suo letto, ma lei non ha mai pace. La sfacciataggine di quando era giovane non è mai andata via, con l’età e le frustrazioni è diventata patetica.

 Sorseggiano del the.

André dalle scuderie si dirige verso casa. Con il cappello in mano si ravvia i capelli, badando che non scoprano la cicatrice sull’occhio e nel caldo di giugno si slaccia i primi bottoni dell’uniforme blu scuro.

Le api saccheggiano i fiori al centro del tavolo. Oscar le fissa un attimo.

Gisèle urla sguaiata, agitando le braccia: “Eccolo! È tornato! Forza… Nudo… Nudo! Ma quello quand’è diventato così?”

André fa un cenno di saluto con la mano ed entra in casa senza dire nulla. Oscar non saluta.

Gli occhi di Oscar stanno incenerendo a fuoco lento la faccia tosta di Gisèle, che china il capo e sorbisce il the facendosi sfuggire un gorgoglio di troppo, poi si allontana pavida per raggiungere il Generale in fondo al giardino.

“Qualcosa non va Oscar?” le chiede Ginèvre.

“No. Va tutto bene”.

“È tanto che mi chiedo se tu e André avete litigato?”

“No… Siamo solo stanchi della vita che facciamo. È massacrante… i turni…”

“Ma per favore! Quante balle che racconti!”

Le parole hanno bruciato la velocità del pensiero.

“Non credo ti riguardi” saetta la voce stizzita di Oscar.

Ginèvre non fa in tempo a pentirsi che Oscar è già rientrata in casa e quel che teme è che non raggiungerà André, ma si chiuderà in camera a tormentare i tasti del pianoforte.

 

Nelle notti in cui la luna è tonda come la traccia di un compasso Ginèvre ha sempre immaginato che gli innamorati si ritrovino più facilmente. Ma nel suo abito immacolato la luna governa le maree, il fluire dei mestrui, il volo dei pipistrelli, il passo dei vampiri e dei licantropi. Tutto ha poco senso. Come questo continuo sprecarsi di vita.

Ma oggi… oggi è accaduta una cosa… mentre lui guardava quel ritratto senza vederlo lei piangeva senza farsi sentire, nascondendo le lacrime nelle mani. Gli è andata accanto ed ha desiderato. Le braccia si sono tese ed hanno esitato; e quell’abbraccio è diventato un tocco leggero sulla manica della camicia. Poi la paura ha vinto di nuovo e sono tornate composte lungo i fianchi. André non lo ha immaginato, mentre continuava a fissare il quadro, e lei gli è rimasta accanto con un groppo in gola.

Li ha visti fermi lì davanti al quadro, attraverso la porta socchiusa ed ora crede che tutto quell’amore forse non andrà sprecato. E li ha visti anche il Generale, ma ha taciuto. Si è voltato ed è andato via.

 

È necessario che non vada sprecato un solo battito di cuore.

Il corridoio porta da Oscar. E la cercherà, come quel giorno lontano Oscar ha cercato lei per parlare del proibito. Anche se le intimerà con sguardo sprezzante che non le deve interessare, lei glielo dirà. Lacerati la maschera dal volto. Questo amore fa male come una coltellata, finché lo serri nella stoffa dell’uniforme. André lo sa e vive solo di questo.

La luna segna il cammino finestra per finestra. E non busserà, perché stasera è disposta a prendere per i capelli quella sorella disgraziata.

 

I piedi si bloccano sulla soglia della porta.

Dall’anticamera si vede Oscar al chiarore d’una candela. È in piedi è sta dicendo qualcosa. Con la schiena e i gomiti poggiati sul comò c’è André. Distante e con il capo chino.

Oscar continua a parlare, ma Ginèvre non capisce una parola. Non sa se perché è troppo lontana per sentire o perché ha paura.

André solleva il capo e dice qualcosa. Parla piano.

Oscar che si porta le mani al viso sgretola il silenzio con un singhiozzo. I capelli le scivolano sul volto. Ginèvre rimane pietrificata sulla porta, perché sta per accadere qualcosa.

André esita un attimo, poi la stringe fra le braccia. La avvolge e le affonda il viso fra i capelli. Le parla sommesso e la culla, accarezzandole i capelli. E Oscar rimane su quel petto con gli occhi chiusi.

Ginèvre fa un passo indietro, respinta da quei sussurri e le manca il fiato quando si accorge che le labbra si cercano e i due profili si perdono in un bacio; e l’abbraccio diventa convulso e i sospiri spezzano parole incomprensibili. Oscar gli sfila la camicia dai pantaloni, mentre la sua scivola sulla spalla a scoprire un seno fra le mani di André. Lei gli passa le mani fra i capelli e la bocca di André scende sempre più in basso e la fa gemere.

Sente le parole “Ti amo”. Le sente distinte fra il suono dei baci e i sospiri, mentre le mani scivolano verso il basso, sui fianchi della sorella… e corre via… corre per il tragitto segnato dalla luce della luna dietro le finestre, lungo le scalinate di marmo che gelano i piedi nudi, in quella ragnatela di silenzio che sembra si stia sgretolando fra i suoni di quelle voci. Corre il più lontano possibile, perché ha paura… ma non se ne sarebbe mai andata, pensa chiudendosi alle spalle la porta ed appoggiandovi la schiena tremante.

Chi sa nulla di api e fiori? È gioia o dolore quello strapparsi le vesti come se bruciassero sulla pelle? E i romanzi cosa insinuano? E le notti di terrore, diventato fastidio con gli anni… quelle non sono destinate a tutti? E veramente sotto lo sguardo della luna rotonda sta succedendo quello che lei tanti anni fa aveva immaginato?

Non dormirà. Lo sa. E le mani stringono la maniglia d’ottone senza sapere più che cosa fare.

 

È tornata sui suoi passi anche se non è giusto. Ma cos’è giusto ancora lo deve capire.

È giusto che la luce della luna le riveli quello che a lei non è stato destinato.

L’indecenza delle mani di Oscar che lasciano carezze tremanti fra le gambe di lui e la bocca che si schiude per emettere suoni disarticolati. E il volto di André che le si perde nel ventre. La sconcezza di quell’annodarsi di membra smaniose sul bianco del lenzuolo. L’oscenità delle mani di lui che le si serrano in una morsa sui fianchi  impazienti. E quel parlare d’amore che dà la nausea, in quello spegnersi di voci. Quel continuare a domandare il tormento. Perché non è un supplizio. Per loro.

Così si faranno scoprire e saranno nei guai. No, domani se ne andranno, perché i disordini della storia reclamano le loro vittime. Sente questo Ginèvre, ma questa volta è sicura di sbagliarsi. Deve sbagliarsi. Nessun battito di cuore deve andare sprecato. Non ne devono sprecare più, pensa mentre si cullano con parole da bambini e la luna se la ride dietro i vetri.

 

 

ЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖЖ

 

 

“È qui”.

Il muschio ha quasi coperto la pietra e le rose, turgide nei boccioli, aspettano di esplodere sui rami spinosi, altre già lasciano andare i petali bianchi.

“Ne siete sicuro?”

“Come se ne sono sicuro, Madame? Li ho seppelliti qua io…”

“Mio Dio…” e gli occhi le si riempiono di lacrime. “È passato tanto tempo…” sussurra, leggendo i nomi sulle lapidi. Negli anni trascorsi in Spagna si è illusa che non fosse vero.

È passato tanto tempo, è vero.

La libertà si è spenta come una scintilla nel vento. Il terrore ha scavalcato l’uguaglianza. E la fraternità è solo una parola.

Ora il Corso stringe le redini del cavallo che s’impenna nel vento e l’Europa china il capo davanti alla grandeur.

“Vi sentite bene, madame?”

“Sì… certo” mormora in un francese ormai macchiato da una lieve inflessione spagnola.

Il vento accarezza l’erba alta. Qualche ape sparuta va a caccia di nettare alle soglie dell’autunno.

“Li ho invidiati… ed ho pregato che la vita desse loro tutto quello che mi aveva negato… Non queste lapidi…”

L’uomo col pollice solleva leggermente la visiera del cappello. Certi dolori non passano.

“Somigliate molto a vostra sorella”.

“Era bella vero?”

“Sì”.

“Ed era anche dolce come il miele…” risponde lei, sommersa dalle immagini e dal ricordo di quelle parole sussurrate nel buio.

“Questo però lo sapeva solo lui”.

“Sì… l’aveva capito solo lui…”

“L’ha amata da morirne”.

“Anche lei lo ha amato da morirne”.

Il brusio della campagna all’imbrunire.

“Sì. Ho sempre saputo anche questo” risponde Alain, chinando il capo.

Un’ape si posa su una rosa socchiusa.

“Insieme in eterno…” sussurra la voce di Ginèvre, soprappensiero.

“Venite Madame. Si sta alzando il vento e fra poco sarà buio”. E le offre il braccio.

Ginèvre trema per un attimo ed accetta. Lui la guarda per un po’ con un sorriso silenzioso.

Si allontanano. E nel tramonto che allaga il cielo si svela il cerchio della luna.

 

 

Nota

Sento che Ginèvre, anche se a distanza di anni da quella lettura, è nata dalla Marianna Ucrìa di Dacia Maraini. L’immagine del Corso (Napoleone) sul cavallo che si impenna è il ritratto che ne fece David.

 

Fine

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