Autore: Stellato

Il gioco dei sensi (parte A)

Warning!!!

 

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Della loro infanzia e poi adolescenza vissute in simbiosi, in parallelo, di quei pomeriggi estivi infiniti e pieni di noia in cui il mondo sembrava soccombere alla calura e fermarsi, non aveva memoria precisa.

Ogni tanto riemergevano ricordi confusi di giochi proibiti, giochi che con il metro delle loro vite adulte avrebbero giudicato… sbagliati.

Indecenti.

Qualcosa di cui vergognarsi.

 

Forse per questo i ricordi erano così labili, pericolosamente vicini all’essere rimossi.

Forse per questo non ne avevano mai riparlato.

 

Era quasi certa di essere stata lei a cominciare: non poteva dirlo con certezza, ma aveva questo ragionevole sospetto legato al fatto di essere sempre stata lei a trascinarlo dove non si doveva.

Lui era ubbidiente e rispettoso, puntuale e preciso nell’eseguire ciò che gli veniva richiesto, forse in misura direttamente proporzionale al suo senso di colpa per aver superato il primo di tutti i tabù della loro condizione: innamorarsi di lei.

Certo, questo Oscar all’epoca non lo sapeva.

Rivedeva lui allo scrittoio, la coda di capelli neri legata col nastro blu, il profilo delle spalle già così diverso dal proprio, intento a compilare qualcosa, una lettera, una composizione per il loro precettore forse.

Una scena che si era ripetuta molte volte, un rituale studiato.

Solleticargli l’orecchio con le labbra e spaventarlo, cogliendolo di sorpresa. Riderne insieme per poi sfidarsi a resistere, intrappolarsi a vicenda le braccia, stringersi e divincolarsi senza fretta. A far finta che quelle sensazioni non significassero nulla.

Quasi solo con il fiato, era il gioco. Un contatto più immaginato che ricevuto per davvero. L’attesa estatica di un errore della bocca, di sentire la pressione delle labbra che sfioravano soltanto, un marchio di fuoco che non arrivava mai sul collo accaldato.

Sincronizzare i respiri in quell’ascolto reciproco.

 

Un’altra variante era lasciarsi percorrere l’interno dell’avambraccio, quasi un solletico, la pelle sottile e chiarissima vibrava sotto i polpastrelli di lui macchiati d’inchiostro, le dita indurite da lavori che a lei non toccavano. La accarezzava leggero e insistente nella conca d’alabastro del gomito, per tutto il tempo che desiderava. Quel brivido che socchiude gli occhi e immobilizza; lo ricordava, ma quanti anni erano passati?

 

Lo ricordava adesso, scorgendo la sagoma di André a quello stesso scrittoio, intatto nel ricordo e - allo stesso tempo - ogni giorno nuovo, ogni giorno più caro.

I capelli corti, adesso, ribelli come i suoi. Le spalle ancora più grandi, rassicuranti e piene nella camicia bianca che indossava, per non parlare di come le sottolineava l’uniforme dei soldati della guardia. L’udito era ormai troppo affinato perché lei potesse sorprenderlo come allora, e quando si voltò verso di lei quell’unica iride verde la avvolse con tutta la dolcezza di cui era capace.

Non avrebbe mai smesso.

“Sempre” era l’unico tempo che sapeva dedicarle.

Sempre e senza la minima incertezza, con una costanza che poteva spaventare.

Ma non più, non lei.

 

“Ehi.”

“Ehi.”

 

***

 

Oscar si avvicinò più del solito e un sorriso timido, appena accennato, di cui non capiva il significato, fece capolino sul suo volto. Enigmatica. Bellissima. Ritagliata nella luce dorata del pomeriggio estivo.

Rimase seduto e paralizzato quando la vide chinarsi su di lui. Incredulo, l’osservò fermargli la guancia con la punta delle dita e poi scostare la chioma bionda e selvaggia piovuta tra loro, tenendolo fermo mentre avvicinava il proprio viso al suo.

Quando ricordò come si facesse a respirare, aspirò forte il profumo buono e familiare di lei, l’aroma di sapone e fiori che ogni primavera sua nonna preparava in sacchetti per la loro biancheria; quello più del resto lo convinse che stava accadendo davvero, che Oscar era veramente lì, che come in quel tempo lontano stava sfiorandogli con labbra impalpabili il lobo dell’orecchio, senza produrre suono, tremando come lui, più tesa di una corda di violino.

La sentì percorrere l’angolo della mandibola, lentissima, risvegliare un tatto che non credeva di avere ancora, saggiare l’iniziale asperità della sua barba pomeridiana, invisibile agli occhi, ma ipersensibile al suo tocco. Ne seguì la linea dai tendini in spasmodica tensione fino al collo, per poi tornare al profilo dell’orecchio, in cui con un sospiro riversò la domanda: “Ricordi?”

Lui annuì appena, spaventato all’idea che quel momento potesse finire, immobile e soggiogato.

E ancora, quasi con timore, con il volume dei fiori che si aprono, lei aggiunse: “Forse ti amavo già.”

 

Solo allora si riscosse dall’incanto e la strinse tra le braccia in un riflesso di meraviglia. In piedi contro lo scrittoio, vestiti allo stesso modo, al punto che persino i pantaloni che indossavano sotto la classica camicia bianca erano dello stesso tono di terra di Siena, potevano sembrare una squadra. Un unico essere a due teste, un unico essere felice.

 

Cercò conferma in quegli occhi emozionati e divertiti, seri e giocosi, in possesso della verità che sognava da tutta la vita.

“Tu mi ami, Oscar?”

Si rifugiò più stretta nell’abbraccio, col cuore a mille che sentiva fin nella testa.

“Perché se tu mi ami, io…”

“Tu cosa, André?”

“Non lo so, non lo so. Aspetta, sto farneticando, in tutte le mie fantasie sono io a dirti che ti amo… non… non riesco a crederci. Mi ami?”

“Ma tu me l’hai già detto.” Osò lei sorridente, ma ancora affondata nel suo petto, incredula.

“E da com’è andata male capisci quanto non sia capace di fare progetti in merito a dichiarazioni.”

A quel punto lo osservò, spaventata dall’amarezza nella sua voce.

Erano passati anni. Non ne avevano mai riparlato.

Il loro era stato un riavvicinamento graduale e senza clamore, più lento della crescita dei rami degli alberi.

“Non è stato poi così terribile.” Offrì ai suoi tormenti.

 

Nella mente di entrambi, riecheggiava il suono della stoffa lacerata. Dei suoi singhiozzi.

Nel silenzio mortificato che seguì, sul volto di André di dipinse un’espressione di pura sofferenza. Fermò a mezz’aria la carezza ai capelli biondi, ritirò piano la mano sospesa, stringendo gli occhi.

 

“D’accordo, sì, avresti potuto essere più delicato” provò.

Era stata l’unica volta che aveva avuto paura di lui. Non poteva sminuirlo senza sentirsi sciocca, ma lui avrebbe mai smesso di sentirsi in colpa? Cosa poteva dirgli?

“Ascoltami bene, André: io ora quella tua disperazione, quel gesto… adesso riesco a capirlo molto bene. Anzi, per quello che vale dopo tanto tempo, perdonami tu per essere stata così insensibile.”

La prese per le spalle, di stucco.

“Dio santo, sono io che non mi perdonerò mai…”

Il bacio con cui lo fermò fu casto e delicato, ma imperativo.

A farsela venire in mente prima questa tecnica…

 

Spense le sue invettive e accese tutto il resto, a cominciare dai sensi che un giorno di tanti anni fa avevano risvegliato per gioco e che aspettavano da allora, nella stessa stanza, dove il tempo aveva continuato a scorrere scandito dallo stesso orologio a pendolo, il sole ad andare su e giù nella cornice bianca della finestra, di fronte a quello stesso scrittoio dove adesso si divoravano le labbra, si cercavano con le mani, frenetici, principianti dall’ottimo istinto e ansiosi di scoprirsi.

 

Pelle sconosciuta, inesplorata al tatto ancor più che alla vista, al gusto, offerta e reclamata.

Pelle del collo sottile di lei; lui non resisté a non morderlo, mentre con le mani saggiava la schiena asciutta di cui sentiva ogni movimento guizzante sotto la stoffa leggera. Quegli ingranaggi perfetti che sembravano volersi fondere con lui, cercarlo mentre gli si spingeva contro e apriva la camicia, le mani fresche sul suo petto, quelle dita affusolate lo accarezzavano, trovavano i suoi contorni nella peluria da ragazzino, mai diventata più fitta.

Le sue labbra. Come poteva essere così bello baciarla? Era la cosa più naturale del mondo, avvolgere quelle labbra con le sue, lasciarla fare lo stesso, prenderla con la lingua e lasciarsi prendere a sua volta, così, per ore. Come scoprire il modo giusto di respirare, dopo aver boccheggiato per tutta la vita.

Si arrese alla realtà quando sentì le mani di lei armeggiare alla sua cintura.

 

“Aspetta, Oscar, aspetta.” Disse facendo appello a tutta la sua forza di volontà, con uno sforzo sovraumano.

Ma lei non aspettava. Si riappropriò della sua bocca inebriata dal suo stesso potere, dall’effetto esplosivo che aveva su di lui e continuò nei suoi tentativi da scassinatrice.

“Oscar… ti prego… andiamo almeno in camera tua” disse, cedendo, com’era prevedibile.

 

***

 

Alla sua stanza c’erano arrivati quasi di corsa e se avessero incontrato uno qualsiasi degli abitanti della casa sarebbe stato impossibile nascondere ciò che stava accadendo tra loro. Ma la fortuna aiuta gli audaci e si sa: non c’è maggiore audacia che negli innamorati.

La spinse contro la porta per ricoprirla di baci, liberandola dalla camicia con furia, come aveva fatto lei per prima, l’istante dopo aver girato la chiave nella serratura.

 

Guardandola da lontano, aveva sempre pensato che Oscar fosse fatta di luce. O anche, in un modo meno poetico e da osservazioni più vicine e attente, che il suo incarnato, i suoi capelli, tutto, in lei concorresse a creare un equilibrio angelico di forme e colori impossibile da ripetersi nel genere umano. Un’opera mirabile che qualche dio esteta aveva scolpito per poi buttare il calco soddisfatto, e ancora oggi quella sensazione lo accompagnava; vederla svolgere la fascia attorno al suo seno lo ridusse a uno stato di adorazione sacrilega, con le ginocchia molli dal desiderio, quasi spaventato di non reggere alla visione del resto.

 

Mezza nuda, nella cornice delle sue braccia contro la porta, Oscar attendeva un commento, la rassicurazione che stesse andando tutto bene e che fossero ancora sulla stessa linea d’onda, adesso che lui si era fermato all’improvviso, come un carillon senza carica.

Ma lui non disse nulla, continuò solo a guardarla, con la bocca gonfia dei suoi baci e l’occhio verde annebbiato dallo stesso suo trasporto. La pregustava.

Trattenne il fiato, sentendosi per la prima volta in assoluto preda e cacciatrice, e incatenata allo sguardo ammirato di André lo osservò scendere su di lei, avvicinarsi piano alla punta rosea di un suo seno e racchiuderlo nelle sue labbra. Bruciava. La lingua di André sulla sua carne bruciava.

Le sfuggì un gemito, un suono femminile e rauco che ridusse in poltiglia la razionalità di lui, i buoni propositi con cui si diceva che dovevano andarci piano, che voleva darle tutto, ma un passo alla volta, godendosi ogni cosa coi suoi tempi.

“Amore” La chiamò. E per entrambi fu meraviglioso. “Se fai così non capisco più nulla, sai?”

Lei annuì, gli occhi scuri dal desiderio, stringendo la testa bruna al petto, ancora nella posa plastica di prima, contro la porta.

“Ma non c’è nulla da capire, André. Solo che ti amo. E ti voglio” concluse col cuore in gola.

 

E aveva ragione, naturalmente, perché era l’unica cosa che contasse.

 

L’avvolse nelle braccia, e senza più argini alle sue voglie cominciò a morderla, a succhiare i suoi seni duri per sentirla ancora gemere, scoprire i suoi punti deboli; sfuggì alle sue mani per sentirla del tutto in suo potere, farla cedere, eccitarla ancora di più.

Sembrò una lotta corpo a corpo, la loro - abitudini dure a morire - ma fu lui ad avere la meglio.

Si divincolò dal suo ennesimo tentativo di spogliarlo, la fece girare tra le sue braccia e se la assicurò addosso, salda, stretta. Le sue spalle contro il suo petto, ancorati l’una all’altro e alla porta, ogni deliziosa curva di lei contro il suo corpo impazzito.

Ansimante dall’assalto non andato a buon fine, Oscar provò a protestare.

“Lascia… lascia che ti spogli…”

Era così che si avveravano i sogni? Uno dopo l’altro, ad effetto domino?

Cominciò a spingerglisi addosso. Lo sentiva eccitato contro le sue natiche e l’istinto la guidò nel ritmo languido con cui seguire quella forma, la pressione da applicare. Era divino.

La prese per i fianchi e accompagnò col bacino quella danza, spingendo anche lui una, due, tre volte, prima di fermarsi e ricordare a se stesso di come voleva che fosse prima lei a cedere. Voleva si concentrasse su se stessa, provare a darle piacere, lui che in questa folle situazione da sempre sognata era già così vicino a perdere la testa. Già solo l’idea di ciò che stava accadendo, il suo odore eccitato a bruciargli le narici, tutto sembrava troppo, oltre la misura delle sue fantasie. Era come far bere una bottiglia di brandy a un astemio sperando non si ubriacasse.

Lei continuò a contorcersi contro di lui in una dolce, acutissima tortura.

“No, Oscar. Amore, ferma così. Ecco. Adesso voglio che ti lasci andare, voglio che tu mi dica se qualcosa ti piace o meno, voglio scoprirti…”

Disse, e le sue mani già la percorrevano, le afferravano i seni, scendevano verso il suo sesso.

“Ma anche io… anche io ti voglio, André…” articolò a stento, perdendo convinzione e controllo mentre sentiva per la prima volta le sue mani stringerla, attraverso il pantalone.

“Dopo.” La voce era così bassa, vicina al suo collo, quasi la sentì vibrare e diventare desiderio, liquida, scendere su di lei e entrarle dentro, allargarsi nel suo ventre. “Ora… lasciami fare…”

 

Quando la sfiorò la prima volta divenne chiaro che il non farsi scoprire sarebbe stato un problema. Un verso estatico non proprio silenzioso accompagnò la punta delle dita di André alla sua ricerca, segnalando in modo inequivocabile che ciò che cercava era proprio lì o quantomeno vicino, nel calore umido e vellutato in cui immerse le dita, e quasi lo sciolse. La voglia di possederla così, di farla venire con le sue mani, gli dava alla testa come una droga potente, quasi quanto l’idea di affondare se stesso in lei.

“Shhht, amore, shhht. Ti sento, sei meravigliosa. Sei così morbida, così bella…”

E lei era in estasi, completamente soggiogata da una tempesta di sensazioni fortissime, a cui da sola sapeva dare una direzione, ma non in questo modo: questo era un nuovo mondo fatto di vertigini, che non rispondeva alla sua volontà, spudorato nei suoi eccessi. Selvatica, cercava l’inclinazione da offrire alle dita che seguivano i suoi sospiri, risalivano implacabili tra le sue pieghe delicate procurandole lunghe onde di piacere, al ritmo che pareva dettare coi suoi versi.

Come avevano potuto negarsi tutto questo per tutto quel tempo? Cosa poteva esserci di più importante, di più fondamentale che darsi a vicenda quelle sensazioni?

Lo sentiva gemere con lei, contro di lei, e la sola idea di avere un simile ascendente la inebriava, le inibizioni si sgretolavano come castelli di carte.

“Voglio fare l’amore con te” disse lei, ancora sotto il controllo delle sue carezze, ricevendo in risposta un un languido assenso gutturale, un suono che ricordava le fusa di un gatto, seguito da un semplice: “Anche io voglio fare l’amore con te, Oscar”. La voce stravolta dal piacere con cui le rispose non l’aveva mai sentita prima. Quanto c’era da scoprire, quanto era bello dirselo.

“Voglio sentirti… entrare dentro di me” aggiunse, con un effetto devastante per entrambi.

André sembrò accartocciarsi sulle sue spalle in una specie di ruggito, stringendole la punta di un seno fino a fale male, ma più bene che male.

Poi le coprì la bocca con una mano al momento in cui aumentò la pressione; lei non se lo aspettava. Le parve che il corpo avesse un accordo segreto con André, che solo a lui avesse aperto quelle strade lastricate di piacere, e su quelle dita il suo corpo traditore si sciolse nell’orgasmo più forte che avesse mai provato; morse la mano che le copriva la bocca e soffocò l’urlo dei suoi sensi, mentre la mano che l’aveva vinta stringeva il suo sesso pulsante, massaggiandolo nel palmo fino all’ultimo fremito, sostenendola come una bambola di pezza, senza più forze e con la mente completamente vuota.

 

Lui aveva goduto come un ragazzino, nei pantaloni, quasi non poteva crederci. Sentiva le gambe molli e la voglia non ancora appagata di averla lottare con il resto, la gioia di quel momento arreso, sentirsela addosso, gli odori primordiali del piacere, di loro due insieme. Con il naso contro la guancia sudata di lei, che tornava sulla terra tra qualche brivido. Pensò che quello era solo l’inizio, e gli venne voglia di urlare al mondo che l’amava. Che era sua.

La portò sul letto, infine. Si osservarono a vicenda per un tempo che parve infinito, stupefatti, rapiti, imbarazzati, coi capelli più spettinati del solito e un sorriso tenero sul volto.

“Quello che non mi spiego è perché siamo rimasti contro la porta” disse lei con la voce ancora rotta e nuovamente timida. “Il letto era qui.”

Le rubò un bacio prima di risponderle.

“Non so… forse per il bisogno inconscio di controllare che non arrivasse nessuno?”

“Perché ce ne saremmo certamente accorti, vero? Eravamo proprio in ascolto, André.” Gli fece sarcastica. Disarmante e bellissima, sul panneggio sfatto del copriletto azzurro.

Lui rise e lei pure, a ruota. Di quel momento, della meraviglia che stavano appena imparando a realizzare.

“Ho intenzione di continuare a fare molte cose simili: qui sul letto, sulla tua scrivania e ovunque altro desidererai, Oscar. Credimi, devi solo chiedere e puoi avermi dove vuoi e quando vuoi!”

“Molto bene” rispose lei pratica, sorridendo felina. Il piglio del comandante della guardia di nuovo nella sua voce mentre si metteva a sedere, un’uniforme immaginaria sulla sua pelle nuda.

“Da dove cominciamo?”

 

 

 

Pubblicazione del sito Little corner maggio 2020

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