Gli anni che verranno parte II (1793-1794)
Parte III
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La sera dopo, un temporale fortissimo si abbatteva sulle case. Per pochi istanti, Parigi veniva riempita dalla luce stravolta dei lampi. L’acqua batteva rumorosamente sui vetri. Un tempo che mette voglia di parlare, di essere vicini. Oscar era seduta in silenzio, leggendo un libro, uno dei pochi che si poteva permettere di comprare.
- André… sai cosa mi piacerebbe?-
- Cosa?-
- Suonare… rileggere i miei libri e suonare. Sarà stato tutto distrutto, vero?-
- Beh… bisognerebbe…- André stava prendendo tempo: era stato al palazzo, e aveva visto poche cose intatte. Non ricordava la sorte del pianoforte di Oscar e preferiva non parlargliene, per evitare di darle un motivo di tristezza in più. Bussarono alla porta.
- Con questo tempo?!- Oscar fece per alzarsi.
- Vado io.- André la precedette con un sorriso felice sul volto. “Devo proprio avere un angelo custode che mi salva dai discorsi peggiori!” pensava. Aprì la porta al suo salvatore, il sorriso gli sparì dal volto e fu tentato di richiuderla.
Totalmente zuppo, avvolto penosamente in un cappotto troppo leggero per far fronte a tutta quell’acqua, c’era Bernard.
- Non mi fai entrare?- chiese timidamente.
- Cosa vuoi?-
Bernard entrò, in basso si formò una piccola pozza di pioggia.
- Parla a bassa voce: Pierre sta già dormendo.- sibilò André, con fermezza.
- Sì… io volevo… scusarmi. Ho detto delle cose terribili ieri sera, André. Non posso dire nulla a mia discolpa: parlo troppo e… insomma, mi dispiace…-
- Non so esattamente cosa sia successo- intervenne Oscar-, però intanto siediti, ti diamo qualcosa di caldo…- Oscar si voltò verso la cucina. Vuota, perché tutto ciò che si mangiava in casa loro veniva preparato da Rosalie, sposata Chatelet. - … da bere - glissò. Poi riprese - Piuttosto, pare che tu abbia fatto saltare i nervi a mio marito…. Inizi ad avere parecchi debiti con André, ma ti condono gli interessi…- Oscar sorrise, sedendosi comoda.[1]
- Ah, meno male.- rise nervosamente, guadandosi le punte dei piedi. I capelli zuppi di pioggia, attaccati alle guance, gli conferivano un aspetto indifeso.
- Bene, iniziamo con i risarcimenti. - Oscar poggiò il mento sulle mani giunte, gli occhi lampeggiavano di curiosità. - Voglio sapere qualcosa di più sui prodotti del 6 aprile…-[2]
- Oscar, che devo dirti? Sai che fini persegue il Comitato di salute pubblica… è ancora presto per dire come si orienterà la sua attività concreta in futuro. Non me la sento di azzardare una previsione, in questo caso. E’ un organo ambiguo, perché tende ad essere ideologizzato. E, si sa, l’ideologia cambia come le teste degli uomini. Quanto al Tribunale rivoluzionario… non darei troppo peso a certe esternazioni.[3]
- Non mi sembri fiducioso....-
- Non troppo, questa volta. Come ti ho detto, per ora non c’è da preoccuparsi ma… Oscar, ti ripeto per l’ennesima volta, fuggi se puoi. La Francia potrebbe andare a picco.-
- So nuotare.- rispose lei, con serafica decisione.
- Come ti pare…- Bernard era quasi amareggiato.
Com’era bella. La camicia azzurra e capelli raccolti la rendevano ancora più bella.
- Sei sicura di quello che hai deciso, Oscar?-
- Sì. Farò in modo che non succeda nulla. Non potrei mai perdonarmi se, per la mia impulsività, Pierre dovesse soffrire.-
- Non potresti aspettare…-
- No, voglio andare. Andremo domani nel tardo pomeriggio. Non so se, con il clima che si sta creando, sarebbe mai più possibile… A conti fatti, la libertà è nelle mani di pochi soggetti. Si preannunciano tempi duri.[4]. E poi… André…- Oscar si abbandonò sulle coperte- … perdonami. Non ho voglia di parlarne. Non mi chiedere il perché… non lo so. Davvero, non lo so…-
André non disse nulla, le strinse le mani e si addormentarono così.
Palazzo
Jarjayes
Era profondamente desolante. Non era come tornare a casa, come tanti anni prima: ora bisognava camminare di soppiatto come banditi, facendo attenzione a non inciampare. I pensieri si accavallavano: il bisogno di incontrare di nuovo il proprio passato, la preoccupazione per la propria incolumità ma, anche, il pensiero costante verso chi, da un loro errore, avrebbe patito di più. Passarono dalle stalle, il tetto non c’era più e il legno bruciato rendeva ancora più buia la notte senza luna. Le fiamme avevano divorato anche la parete dove Oscar e André, quando si erano appena incontrati, avevano segnato le loro altezze, nell’infantile gara a chi cresce di più. Ora, uno accanto all’altra, potevano rievocare quell’episodio, il luogo esatto… ma tutto era bruciato, fuorché che il ricordo.
“Stranieri in casa… non è più casa mia. Non la sento più tale…” pensava Oscar. “Tutto quello che mi apparteneva di questo posto, l’ho dentro me… me ne accorgo solo ora…”
Le porte forzate, i mobili rovesciati… cumuli di stracci dati alle fiamme un tempo erano stati vestiti da sera. Le statue erano state trafugate, le suppellettili anche… chissà per quale mercato nero erano passate, chissà a chi appartenevano, ora.
-
Che peccato…- Oscar era di fronte a quella che era stata la libreria paterna:
svuotata, le pagine dei libri strappate metodicamente e poi bruciate. I ritratti
degli antenati che tante volte, severi e patetici, parevano osservarla da quelle
mura, non c’erano più. Come spettri, ne restavano solo riquadri chiari sulle
pareti.
- … Oscar, io non avrei mai voluto mostrarti questo spettacolo…- lui, invece, era sinceramente coinvolto e desolato per lei.
- No, sono serena, André. Non è questo che mi fa male…- camminando piano, entrò nella sua stanza. Un cumulo di coperte in un angolo tradiva sporadici pernottamenti. Qualcosa sembrava essersi salvato, lì. Il pianoforte era stato azzoppato. André sistemò una sedia per supplire la gamba mancante. Così però non c’era neppure più dove sedersi.
- Mi spiace…- mormorò di nuovo André.
- Sh.- Oscar portò l’indice alle labbra e poi, con gli occhi pieni di luce, posò le mani sulla tastiera polverosa. Un attimo di esitazione, di tensione: se non fosse riuscita a suonare, se non avesse più ricordato la tecnica e il suono? Poi le note, iniziarono ad intrecciarsi. Oscar stava suonando ad orecchio, unendo frammenti delle melodie che ricordava meglio, forse perché legati a qualche momento della sua vita, a qualche parte di lei... nella stanza buia, spoglia, attaccata dalla muffa e dal nero fumo, sembravano ora esserci aria e luce, poi pioggia e vento… Suonava con tutta se stessa, sfogando ogni dolore, ogni ricordo. Metteva nelle note un trasporto struggente. André era in piedi, al suo fianco. Si sentiva vicinissimo ad Oscar, al suo mondo interiore, ma non voleva interrompere, profanare quel momento tutto di lei. Sembrava stesse lottando con i tasti, poi che li stesse accarezzando, la musica da delicata e allegra diveniva drammatica, dura… André, accostò il suo viso a quello di Oscar, le carezzò l’ovale del volto con una mano. Poi, delicatamente, l’abbracciò. La strinse forte, mentre Oscar tratteneva le lacrime. In quella stanza scura, abbracciati, in un silenzio che serbava la memoria della musica e dei ricordi, c’erano solo loro.
- André…perdonami per questo periodo… scusami se ti faccio soffrire… se non riesco a dire quello che provo…-
- Ti sono vicino, Oscar, in silenzio… Sono al tuo fianco… sono qui…-
- André, io… riesco a parlarne… ma… ma non è per te. Io ti voglio bene… ti amo… E’ per me che resto in silenzio… per ascoltarmi. Anche se mi sento... muta… Quanti problemi ti do… solo problemi!-
- No, Oscar. Quanta felicità… Se non ti avessi mai conosciuto, sarei stato un uomo “abbastanza felice.” Avrei vissuto una vita crudelmente tranquilla, non avrei mai pensato e mai pianto. Invece non sono mai stato “abbastanza felice”: sono totalmente felice. – Al dolore di non poter far nulla per lei, André sentiva aggiungersi la gioia di poter vivere accanto ad una persona complessa, ma eccezionale. Di poter condividere con lei anche i momenti bui e una vita diversa.
Lasciarono palazzo Jarjayes per l’ultima volta. Oscar aveva trovato qualche libro miracolosamente salvo, e una trottola colorata. Le prese con sé.
- Credo possa servire – disse, tendendo la mano ad André. Paradossalmente, Oscar sembrava non provare alcun dolore per lo stato del palazzo. Ormai la sua vita era un’altra, quella casa prossima alla rovina totale era parte del passato, un passato completamente superato. Anzi, stare lì le aveva dato un senso di sollievo. Come se avesse ricongiunto e riconosciuto due parti di sé. E, pur nel silenzio, col suo calore, André era al suo fianco.
<<Mi sono fatto coraggio ho scritto una lettera una lettera ad Alain. Non sapevo cosa dirgli… non so neppure se è vivo, se sta bene… Alain è una persona importante per me… ci sono amicizie diverse, dove non contano il tempo, le età, i luoghi… e… Alain mi manca… Con Oscar è diverso: ora io sono troppe cose per lei e lei è troppe cose per me… mai come in questo momento, però, la sento vicina. Vicina nel silenzio.>>
Normandia,
primi tempi d’estate, 1793
Quella busta aspettava alla locanda da una settimana, ma Alain non si era presentato ancora a ritirarla. Héctor, che sapeva leggere quel tanto che bastava per tenere i registri del locale, aveva una specie di repulsione per le missive con gli indirizzi scritti in maniera ordinata - da una grafia ordinata non si sapeva mai cosa aspettarsi -, e, così, scrutava sospettoso quel plico, rigirandolo tra le mani come se fosse una bestia strana. Alla fine aveva chiamato Joy, piuttosto seccato.
– Va' a portarla a quell’orso. - Poi continuò, come tra sé. - Sparisce sempre di questi tempi! Se qualcuno trova nella mia locanda una lettera inviata da Parigi e mi mette nei guai per colpa sua… le voci corrono in paese. Metti che c’è una soffiata, qualcosa di segreto… io che ne so, non posso certo aprire la corrispondenza degli altri!- ma, in realtà, era molto tentato in quel senso.
Joy portò la lettera vicino gli occhi, ma non riusciva a leggere perché le tremavano le mani. Era stata sugli scogli a raccogliere i frutti di mare, ma l’acqua era ancora molto fredda.
- Non si può aspettare che io mi cambi?-
- Se vai ora, ti pago…-
- Vado…- Dimenticò il freddo e corse fuori dal villaggio, dove era la casa di Alain.Un giorno sarebbe riuscita a raccogliere i soldi sufficienti per imbarcarsi.
Bussò più volte. – Alain, aprimi! Sono io! Ho posta!-
Nessuna risposta. C’era vento, Joy si sentiva intirizzita.
– Santo cielo, vuoi uccidermi lasciandomi qui fuori?!- urlò.
Dalle coperte disfatte, tremando, Alain si alzò aprendo faticosamente gli occhi. Aveva male alle ossa. C’era puzza di chiuso e di febbre, in quelle stanze strette. Da giorni aveva perso l’appetito, non mangiava quasi più. Quando inesorabile era giunta la settimana della morte di Diane, il lutto imposto non era trascorso con la solita, fluida monotonia. Il tanto lavoro, la quotidiana – ravvivante ma logorante- lotta col sole, la salsedine e la pioggia l’avevano indebolito più che negli anni precedenti, e gli era venuta una febbre alta, la luce gli dava fastidio… Arrivò barcollando alla porta, attraversata dagli spifferi, verso quel fastidioso rumore che gli batteva contro le tempie dolenti, e aprì.
Joy indietreggiò. – Alain!… Che ti è successo?-
Alain si strofinò gli occhi, la luce lo infastidiva. -Beh, anche tu non mi sembri un gran bello spettacolo…- Squadrò Joy che, silenziosa, con i capelli bagnati e l'aria infreddolita, lo fissava. -Comunque, mi sono ammalato.-
- Da quanti giorni non mangi?-
- … credo cinque…-
- … Cinque? Ma sei matto ? E perché?-
- Non avevo fame…-
Joy ebbe un moto di stizza. Ogni anno la stessa storia!
Alain ebbe una debole reazione, mentre Joy entrava di prepotenza in casa sua, infischiandosene del lutto e del ricordo. Si guardò attorno: quella casa che sembrava più abbandonata che abitata.
- Ma ti sei guardato allo specchio?! Sembri un morto che cammina… con tanto di barba da maniaco!!!- cercò di sdrammatizzare.[5]
Alain si portò una mano al viso. Il suo ultimo pensiero era sembrare maniaco… con la febbre alta, poi…
Joy avanzò verso la finestra chiusa, ma inciampò su una bottiglia che era rimasta per terra. Cadde, battendo un ginocchio.
- Ti sei fatta male?!- Alain si riscosse, si mosse per aiutarla ad alzarsi. Si chinò porgendole la mano, ma le ossa gli dolevano, era debole.
- No, no!…- lei si era già sollevata. Al contatto con le dita, il calore del sangue. Poco, solo una sbucciatura. Si ripulì con la manica della camicia, velocemente, come per non far vedere a nessuno ciò che lei stessa non vedeva chiaramente.
Alain notò e, pigramente, sorrise.
– Mi ricordi il mio amico…-
- Credo ti abbia scritto- disse, porgendogli la lettera.
- Chi?!- Alain sobbalzò, gli occhi, lucidi di febbre, presero un riflesso vivace. Teneva in mano la busta meccanicamente, senza capire.
- Il tuo amico. Non so quante persone tu conosca, ma sulla busta c’è una “A”. Quindi, andando per esclusione, se Alain è ricevente, chi può essere il mittente? Anne, Ange… no, - scosse la testa, scherzosa -, non col tuo caratteraccio… e, dunque, An…-
Gli occhi di Alain diventarono lucidi, batté le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. – André!- sussurrò, emozionato. Estrasse furiosamente la lettera. Ne sussurrò le parole.
“Caro
Alain,
siamo
tutti vivi e stiamo bene. Abitiamo a Parigi in rue **************. Ti
aspettiamo.
André.”
- Laconico, il tuo amico…-
- Ma tu dimmi…- Alain era incredulo. Se fosse stato in piena salute, avrebbe bagordato, per festeggiare. Invece, l’emozione che lo aveva assalito, si tramutò in rilassamento, e di nuovo in dolore. Che però era più delicato, meno cattivo…
- - Ma guardati, come sei cambiato, Alain.- Disse Joy provandogli la febbre.
Cercò delle lenzuola pulite, tolse quelle usate storcendo il naso senza troppi riguardi per le reazioni dell’occupante.
– Ora ti metti a letto. E mangi. Ti preparo qualcosa. Certo che sei ridotto davvero male… - ironizzò lei.
Alain non se la prese. Joy non aveva torto. Si coricò tra le lenzuola pulite mentre la sua amica sbrigava qualche faccenda.
Mentre Alain guardava – non visto- quella sagoma pallida ed energica, un senso di benessere, di leggerezza gli si diffondeva nel corpo. Avrebbe voluto piangere, ma di gioia… quel giorno, si era sentito all’improvviso scuotere , richiamare alla vita.
- Li andrai a trovare? Dico i tuoi amici di Parigi…-
Joy arrancò, stanca. Si sedette accanto al letto di Alain, cercando di metterlo a fuoco, mentre gli porgeva una ciotola piena di liquido denso e caldo dalla dubbia identificazione.
- Appena avrò una buona occasione, andrò. Voglio rivederli ma… in fondo, non mi va di tornare lì…-
- Ora sembri diverso, Alain. Sono felice… per te.- Si sedette. - Facciamo un patto: io mi impegno a trovarti l’occasione giusta per andare a Parigi e tu mi paghi l’imbarco! Così, in un colpo solo realizzeremo i nostri sogni! Patto tra amici?-
- Va bene, Joy. Patto tra amici!- Alain le strinse la mano. Le scostò dal viso le ciocche bionde, indurite dalla salsedine. Aveva quasi paura di farle male, tanto si era disabituato ai gesti gentili. E Joy, che vedeva poco, era così indifesa e così forte, mentre lui pareva quasi annegare nel passato.
- Mi devi dire, però, che schifezza mi hai fatto bere…-
- Non lo so… ma dovevo farti pur mangiare qualcosa!! E comunque, se non ti piace, com’è che l’hai bevuto?-
Alain rise. Joy gli posò nuovamente la mano sulla fronte. Lui si sentiva sulla nuvole. Le ossa dolenti erano vuole, leggere, come se fossero piene d’aria pura.
“Perché sono un vigliacco… perché… non bisogna farsi vincere… E sono così fortunato da avere qualcuno a ricordarmelo. Mi dispiacerà quando ti imbarcherai, Joy…”
Continua...
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sonia_78@virgilio.it
[1] Un po’ come nel manga, quando decide di liberarlo.
[2] Il 6 aprile 1793 nacquero i Tribunali rivoluzionari e il Comitato di Salute pubblica.
[3] "All’ordine del giorno è il terrore" fu l'espressione che Danton avrebbe usato qualche tempo dopo, il 9 settembre.
[4] Per il Père Duchesne di Hébert, all'epoca del processo a Maria Antonietta (al quale la Ikeda vuole un mondo di bene) si veda Schama, Cittadini, Mondadori, 1999, p. 824.
[5] ispirata ad un'immagine del maga ed. Granata (vol. 13 p. 23)