I pensieri di una madre
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Era la
notte di capodanno. Fuori si intravedevano nel buio della notte i fuochi
artificiali che rallegravano i festeggiamenti della Corte per l’anno nuovo. Il
1756. Un altro anno che per i cortigiani, ne era certa, sarebbe passato come i
precedenti, tra un pettegolezzo, un ballo e un’avventura galante. Tutte cose
che non le erano mai interessate molto. Ora poi, con un’altra creatura di cui
occuparsi, erano davvero l’ultimo dei suoi pensieri.
Si voltò
verso l’elegante culla, ornata di fini merletti, che era stata sistemata
accanto al suo letto. La bambina dormiva, serena, i pugnetti serrati appoggiati
accanto ai ciuffi chiari che ricoprivano a malapena la graziosa testolina. La
donna sorrise. La gravidanza e il parto erano ormai una specie di abitudine,
anche se era certa che questa volta sarebbe stata l’ultima. Il medico era
stato tassativo; sarebbe stata un’imprudenza troppo grande.
Osservando
quel volto innocente, in cui viveva una parte di lei, si ritrovò senza neanche
volerlo a ripercorrere con la mente tutti gli eventi che, come in un sentiero
tracciato da una mano imperscrutabile, avevano portato alla sua nascita.
***
Ricordo
ancora vividamente il giorno delle mie nozze. Non avevo ancora compiuto sedici
anni. Ero talmente spaventata… Il mio futuro marito l’avevo intravisto solo
un paio di volte. Certo, era un giovane di bell’aspetto, alto, con gli occhi
chiari, e la divisa di colonnello delle guardie reali gli dava un’aria molto
elegante. Era più vecchio di me di una decina d’anni, e i miei genitori mi
avevano fatto presente che era un ottimo partito, unico erede di una famiglia di
antica nobiltà, con un’ingente fortuna, e una brillante carriera militare
davanti a sé. Nondimeno, mentre camminavo verso l’altare dove lui mi stava
aspettando, mi ero sentita un agnello sacrificale.
In
realtà i miei timori si rivelarono, almeno nel primo periodo del nostro
matrimonio, totalmente infondate. François era un uomo attraente, deciso e
volitivo e al tempo stesso con me dolce e gentile, e io mi sentivo felice. Non
so se fosse davvero amore quello che provavo, ma senz’altro in breve tempo mi
sentii molto legata a lui, e imparai a volergli bene.
Nel
giro di pochi mesi mi ritrovai incinta. La gioia mia e di François era davvero
grande. Nacque senza troppe complicazioni una bella bambina. Sapevo che mio
marito desiderava un maschio, ma la nascita di Eugenie sembrò renderlo comunque
molto felice. Quando la prese per la prima volta tra le braccia un ampio sorriso
gli illuminò il volto, come un raggio di sole che squarci le nubi. Come è
tradizione nelle famiglie nobili, mi portò un dono: un bellissimo collier di
oro e smeraldi, che mi porse lui stesso ringraziandomi. “So che speravate in
un erede maschio…” azzardai timidamente. Ma lui mi interruppe “Non
crucciatevi, il maschio verrà. E’ una bambina stupenda.”. E forse Eugenie
fu l’unica figlia che amò mai davvero. Passava ore e ore a contemplarla,
quasi non riuscendo a capacitarsi di aver partecipato alla creazione di quell’esserino.
Circa
due anni dopo diedi alla luce un’altra figlia. Stavolta François fu forse
meno entusiasta, ma si rallegrò comunque che la bambina fosse bella e in buona
salute. La nascita, di lì ad un anno, della terza femmina sembrò cambiarlo.
Divenne nervoso, e molto meno gentile con me. Pressato dall’urgenza di un
erede, mi cercava quasi ogni notte, e spesso mi prendeva in modo brusco, quasi
rabbioso, senza più traccia della tenerezza e delle attenzioni di prima. Altre
due femmine, malauguratamente, seguirono.
La
nascita di Hortense, la mia quinta bambina, era stata piuttosto difficile, e le
forti emorragie mi avevano notevolmente indebolita; il medico mi aveva
sconsigliato di avere altri figli. François aveva accolto la notizia con
apparente rassegnazione, ma nei suoi occhi leggevo il gelo. Ogni volta che mi
guardava, sentivo pesare su di me la colpa: il nome, la tradizione militare dei
Jarjayes sarebbero scomparsi per sempre, per la mia incapacità di partorire un
erede maschio.
Passarono
i mesi, passò lento un lungo anno. Le mie bambine crescevano belle e sane;
erano la mia gioia, la mia consolazione. Correvano per i giardini come uno
sciame di farfalle dai colori pastello, e le loro voci infantili riempivano i
corridoio di risa argentine.
François
trascorreva sempre meno tempo a casa. Non so dove andasse, se cercasse
consolazione tra le braccia di altre donne o nell’alcol. Ormai era un
estraneo, che mi porgeva un saluto di forma quando mi incontrava per caso per le
scale del palazzo o a qualche ricevimento a Corte.
Una
sera di marzo ero seduta nella mia stanza, di fronte allo specchio, preparandomi
per la notte. Fuori un pioggia che profumava già di primavera picchiettava sui
vetri, come a portare la promessa di gemme e fresca erba verde. Fissavo la mia
immagine nello specchio, senza vederla veramente. La mia mente era persa in
mondi remoti. Ripensavo alla mia infanzia, ai sogni di ragazzina, alla felicità
dei primi tempi del mio matrimonio. Volevo ritrovare quelle sensazioni, quel
benessere semplice eppure così raro che mi era stato concesso e poi strappato
dal fato. Mi sciolsi i capelli con un gesto deciso, che mi fece quasi male, e
dopo averli spazzolati con vigore vi passai le dita per farli cadere
graziosamente sulle spalle. Aprii un po’ la camicia da notte, a lasciar
intravedere il seno, più florido di un tempo ma ancora sodo e piacente. Non
poteva finire così. Non doveva.
***
Quella
sera François rientrò verso mezzanotte. Aveva bevuto, ed era piacevolmente
stordito. In passato era stato famoso a Corte per i suoi costumi morigerati, ma
ora nulla importava più. L’ebbrezza dei vini e dei liquori cancellava, anche
se momentaneamente, le sue preoccupazioni. Aprì piano la porta della sua
stanza, rischiarata dal fuoco scoppiettante del camino, che la governante
lasciava acceso per accoglierlo al suo ritorno. Nella penombra scorse una figura
sul letto, che lo fissava intensa. “Louise…” “Shh, non parlate.
Avvicinatevi.” Gli passò le dita tra i capelli, e avvicinò le labbra alle
sue. L’uomo, affascinato e stupefatto, si fermò un istante prima di baciarla.
“Ma…” “Sono certa che andrà tutto bene. Sono certa che questa volta sarà
un maschio…”.
***
E così tu sei qui, bambina mia. Ancora una volta, una femmina, un’altra creatura condannata ad una vita di sottomissione, di sforzi per piacere ed essere accettata dagli uomini. Tuo padre ora è come impazzito. Dice di volerti crescere come un uomo, ti ha anche dato questo assurdo nome di Oscar. Non importa, un giorno magari lo considererai un vezzo. Vedrai, presto cambierà idea. Quando ti guarderà meglio, non potrà fare a meno di notare quanto sei bella, quanto sei fragile. Come può fare di te un soldato, piccola mia? Un donna soldato… chissà come sarebbe la tua vita. Magari più libera di quella delle altre donne, ma quando il tuo cuore chiamasse, ricordando imperioso le sue ragioni, come faresti, mia creatura? Non si può far tacere il cuore di una donna…
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