Inside -

Essere una donna

II

Warning!!!

 

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Ispirato a La cosa più semplice di Alessandra e Christine di Laura

 

Fu a quel punto che lei si divincolò e fuggì.

 

Chiuse la porta della camera da letto alle proprie spalle e vi si appoggiò contro, con un sospiro affaticato.

Era stata una giornata pesante: aveva dovuto passare in rassegna le truppe, per poi scortare la regina dal Trianon sino a Versailles, affinché riassumesse il suo ruolo e i suoi doveri all’interno della corte. Era stato Fersen a persuaderla in tal senso e Maria Antonietta gli aveva obbedito con gioia, rivelando una sete d’amore e una gratitudine nei suoi confronti che erano quasi commoventi nella loro innocenza.

Possibile che tutto fosse finito fra loro due?

No, non sarebbe mai finita. Avevano quasi bisogno di amarsi: quel sentimento si poneva alle basi delle reciproche esistenze ed identità, non avrebbero saputo pensarsi al di fuori di esso. Che fossero ancora amanti in senso fisico o no, poco importava. E come poteva pretendere, lei, di trovare il suo posto in quel quadro? Fra loro non c’era spazio per nessun altro.

Era quasi grottesco nutrire quell’invidia atroce verso due persone tanto infelici.

Si diresse verso lo specchio e, sfidandosi a non abbassare lo sguardo, iniziò a spogliarsi dell'uniforme. Tolte casacca e cintura con determinazione marziale, sbottonò l’ampia camicia bianca, gettò in mezzo alla stanza gli stivali, sfilò i calzoni e infine, dopo qualche esitazione, prese a dipanare anche le fasce che le comprimevano il seno, svolgendole ansa ad ansa fino a rimanere completamente nuda.

Ecco il suo corpo: l’unica cosa vera, sotto tutte le maschere.

Era trascorsa ormai una settimana dal ballo a cui si era recata con la speranza inconfessata di far innamorare Fersen (perché era stata questa, comicamente, la sua realistica intenzione: farlo innamorare, non sedurlo) e da cui era fuggita, mortificata dalla propria paura ed inesperienza. Si era aggirata per parecchio tempo fra le carrozze, quella notte, piangendo senza singhiozzi, finché si era imbattuta finalmente in André che, scrutandole il trucco sfatto e l’espressione sconvolta, aveva agganciato i cavalli in silenzio e l’aveva ricondotta a casa senza commentare.

Chissà cosa aveva pensato. Forse l’aveva compatita. Nel momento in cui, nella penombra accanto alla carrozza, aveva distolto lo sguardo da lei, con tatto e una sorta di incomoda pena, Oscar aveva provato il desiderio di schiaffeggiarlo: cosa pensava di sapere, lui? Lui che avrebbe potuto trovarsi una donna e essere felice, e nessuno l’avrebbe ritenuto strano? Forse l’aveva già, una donna. Quanto dovevano sembrargli tristemente ridicoli, i suoi tentativi alla cieca di essere felice!

Ormai doveva averlo capito da tempo, che lei amava Fersen. Ma non parlavano di cose come questa, lei e André. Da tanto non parlavano più di argomenti personali, come facevano da ragazzi, con fiducia e leggerezza al contempo. Non sapeva bene perché. Forse per non pesare ancora di più sulle rispettive vite. Non si potevano trascorrere intere giornate a stretto contatto senza essere uniti da una relazione di parentela o sentimentale: era soffocante, finiva che lo spazio per sé andava conquistato a strattoni, strappando via quasi con rancore brandelli di silenzio e solitudine. A volte aveva l'impressione che tutto ciò stesse rovinando completamente la complicità che avevano avuto in passato. Avrebbe dovuto fare qualcosa per allontanarli e ridare fiato a tutti e due: forse allora avrebbero recuperato un po’ dell’antica vicinanza.

Mio padre non capisce: devo allentare la corda, permettere ad André di avere una vita sua. Siamo adulti, dobbiamo lasciarci andare. Non può aspettarmi alle due di notte per riportarmi a casa dai miei appuntamenti. Avanti di questo passo, mi odierà. E anch’io... anch’io a volte lo odio.

A volte penso che mi piacerebbe continuare a soffocarlo per non fargli avere nulla, come non ho nulla io.

Sono una persona malata, non provo altro che invidia.

Mi sento così sola.

Si costrinse a guardarsi con attenzione allo specchio. Esaminò con cura clinica, quasi con ripulsa, le proprie gambe lunghe e magre, la peluria bionda che le adombrava il pube, le anche, che incorniciavano il ventre piatto, sovrastato da un seno piccolo, duro, dai capezzoli scuri. Appoggiò con cautela le mani sull’addome e provò a premere, attenta alle proprie reazioni, per poi scendere all’inguine con le dita della mano destra e affondare i polpastrelli, esitante, fra le pieghe nascoste. Chiuse gli occhi e si sforzò di continuare, tremando. Era un po’ umida. Raccolse il seno in un palmo, provò a stringerlo con cautela, inspirando con forza. Cosa sentiva...? Fastidio e imbarazzo, un vago senso di nausea. Vergogna.

Questo era il suo corpo, una delle sue poche certezze. E non lo accettava. Per anni si era sentita fragile, imperfetta, quasi immonda, e aveva cercato a lungo di evitare il proprio riflesso per non provare orrore davanti a quel fisico gracile, filiforme, aggraziato e sbagliato. Quante volte aveva sognato di tagliarsi il seno, come si vergognava, da adolescente, di quel vuoto inspiegabile fra le gambe...!

Ma se Fersen avesse saputo desiderarla, forse il suo corpo avrebbe acquisito un senso... forse il suo essere donna non sarebbe stato un irrimediabile peccato originale. Se l’avesse voluta, avrebbe capito perché era nata così: per lui. Per lui si sarebbe riappacificata con la vita e avrebbe ricominciato da capo, cancellando in un solo colpo tutti gli sbagli...

Fersen... io voglio che tu mi voglia. Se solo tu potessi desiderarlo, se tu potessi fartene qualcosa, di questo corpo che a me pare irrecuperabile, poco meno che disgustoso... Se sapessi spiegarmi a cosa serve, perché è mio... te lo donerei volentieri: non mi apparterrebbe nemmeno più, sarebbe solo tuo... e lo sfiorerei solo con il tuo permesso...

Portami via da me.

Con stupore, si accorse che, pensando a lui e a come l’aveva stretta, baciata, circuita... immaginando che ci fosse lui lì con lei, dietro di lei, ad accompagnarle cinicamente le dita a compiere quelle azioni ignobili... quasi forzandola a toccarsi, a svergognarsi... il liquido fra le gambe... aumentava.

Allontanò le mani, nauseata, come bruciata, e si trafisse di nuovo con lo sguardo freddo, sfidandosi con rabbia a essere se stessa.

Voleva averlo.

Eppure era scappata da lui, quella notte.

Perché?

Lei non sapeva quasi nulla di cosa fosse il sesso. A casa nessuno aveva mai provveduto a spiegarle i rudimenti della faccenda, anche perché non si riteneva fosse un argomento che dovesse riguardarla – e per fortuna lei aveva scampato almeno la sorte infelice delle sue povere sorelle, spedite al talamo della loro prima notte di nozze sprovvedute e ingenue almeno quanto lei, a sperimentare sulla loro pelle indifesa quanto potesse far male il desiderio di un uomo completamente sconosciuto, che tuttavia poteva rivendicare ogni diritto su di loro –. Il poco che conosceva l’aveva desunto dai discorsi della servitù di palazzo e dai pettegolezzi sconci dei soldati e delle dame di Versailles (e le seconde sapevano essere ben più esplicite dei primi), oltre che dai libelli pornografici che doveva requisire e distruggere su basi periodiche e che, ironicamente, il più delle volte ritraevano le contorsioni di Fersen e di Maria Antonietta.

Le era sempre parso qualcosa di poco meno che nauseante. Ma doveva procurar piacere, in qualche modo, visto che tutti lo cercavano. E univa uomini e donne che amavano. Era qualcosa di... normale. Di adulto e normale: due cose al di fuori della sua portata.

D’altro canto, lei ne conosceva così poco. Avrebbe dovuto essere un uomo, ma ignorava come fosse fatto un sesso maschile, ad esempio. Come poteva trasformarsi dal membro minuscolo delle statue greche nell’affare enorme abbozzato negli opuscoli pornografici? Erano veramente la stessa cosa? E come avrebbe dovuto toccarlo? Non sapeva neppure... come baciare. Fersen l’avrebbe trovata ridicola e maldestra. E poi... aveva un atavico terrore della penetrazione. Lei, che era coperta di cicatrici e che aveva subito frustate senza fiatare, era atterrita dall’idea di lasciarsi ferire nella parte più intima e indifesa di sé. Una volta aveva provato a scrutarsi fra le gambe con uno specchietto trafugato dalle stanze di sua madre, ma non aveva capito dove avrebbe dovuto introdursi il pene: non le sembrava ci fosse un’apertura abbastanza ampia. Avrebbe dovuto lacerarla, per entrare? Quanto male avrebbe fatto? E quanto umiliante sarebbe stato?

Si figurò di farlo con Fersen e non riuscì a reggerne l’idea. No. Non lui, no. Lui aveva avuto decine di donne, per lui non sarebbe stato nulla di importante. Non voleva che la vedesse nuda, inesperta... indifesa. Che la vedesse... sofferente. E vulnerabile come mai prima. Come poteva fidarsi di lui? In fondo, Fersen non la conosceva e non provava nulla per lei.

No!

Ecco perché era scappata: lo amava ma non avrebbe sopportato che fosse lui il primo.

Aveva paura. Aveva tanta paura.

 

Eppure aveva conosciuto il desiderio. Non ne era sicura, ma credeva fosse quello. E l’aveva provato anni prima, nelle lotte giovanili con André, fossero serie o per finta: per quel che si ricordava, era come una fitta dolorosa piacevole fra le gambe, un umidore, ma bruciante, che si tramutava in una tensione irrequieta in tutto il corpo... Era bello provarlo, tanto che a volte l’aveva ricercato di proposito, provocando il suo compagno, e non le piaceva mai tanto come quando lui la sconfiggeva, buttandola a terra e pesando su di lei.

Avrebbe voluto che non la lasciasse rialzarsi.

 

Lo trovò nella sua camera, steso sul letto a leggere un tomo. Rousseau, probabilmente: La nouvelle Eloïse per l’ennesima volta. Lo squadrò freddamente, mentre André si girava a osservarla con calmo fare interrogativo, un sopracciglio inarcato.

“Mi stavo chiedendo se non volessi venire in giardino ad allenarti con la spada con me,” lo apostrofò brusca, stringendo le dita sullo stipite della porta.

“Anche oggi?” si stupì lui, sorridendole quasi a fatica. “È giorno di licenza. Non puoi proprio prendertela con comodo?”

Era stanco. O forse era stufo. Stufo della solita routine, dei compiti assurdi imposti a forza, della sua laconica compagnia. Avrebbe voluto starsene un po’ in pace, e lo capiva anche. Le dispiaceva quasi disturbarlo.

“Per favore,” insistette con voce ammorbidita.

“Dammi un attimo per cambiarmi e arrivo, Oscar.”

 

Arrivò senza farsi attendere, i capelli ancora sciolti sulle spalle e la giacca non completamente abbottonata per la premura. Eppure, non aveva voglia di battersi e non si impegnò troppo: lo sconfisse senza fatica per tre volte di seguito. Normalmente una simile trasandatezza l’avrebbe irritata, ma era presa da altro.

“Forse non dovrei dirtelo, André,” esordì, mentre cercava di mettere a punto la strategia d’inchiesta e l’ennesimo fendente al contempo, incalzando l’avversario con un passo rapido e leggero, “ma tua nonna è preoccupata per te. È venuta a parlarmi, l’altra sera.”

“Preoccupata?” si stupì lui, schivando l’affondo e impegnando il fioretto fino a finire faccia a faccia con lei. Stavano parlando col fiatone. “E per cosa dovrebbe essere preoccupata?”

“Mi ha detto che ultimamente esci spesso la sera e che rincasi solo a tarda notte. E non ha idea di dove tu vada.”

Questo suscitò la sua ilarità. La mise in difficoltà con una serie di attacchi ben mirati, mentre replicava scanzonato: “Questa è bella! E a lei che interessa di dove vado? Non sono più un bambino, saranno affari miei! Avrò il diritto di fare quel che voglio quando non devo lavorare!”

L’ultima puntualizzazione la ferì – rendersi conto di essere veramente una specie di obbligo coatto per lui, capire che aveva diversivi che non la includevano e non la dovevano includere –, ma non lo diede a vedere. Del resto, lui aveva sempre saputo vivere meglio di lei: era una persona di temperamento abbastanza socievole, capace di mitigare le situazioni e mediare animi opposti, uno che si trovava a suo agio con le persone e che sapeva farsi benvolere. Il fatto che sembrasse essere diventato schivo con lei non significava fosse così in tutti i contesti: si era accorta di esercitare un influsso negativo sul suo carattere, ma si augurava fosse un effetto circoscritto. Era sempre stata lei, quella chiusa e solitaria: non aveva mai imparato come non tenere alla larga gli altri e la sua attuale solitudine ne era lo scotto. A volte le balenava in mente l’idea di essersi innamorata di Fersen soltanto perché era l’unico vero essere umano che avesse mai conosciuto nella vita e che il suo amore per lui, la sola cosa realmente bella che avesse provato, potesse essere paradossalmente anche il contrassegno più autentico della desolazione della sua esistenza separata da tutto.

“Credo che lei pensi che tu abbia trovato...” e qui esitò senza riuscire a formulare l’ipotesi e nell'esitazione si lasciò maldestramente portare via la spada. Ciò lo stupì. “Pensa che tu abbia trovato una donna e non sa se ti stai comportando... in modo responsabile.”

“E ha mandato te a farmi questo discorsetto? La immaginavo meno pavida!” replicò André allegramente, chinandosi a raccogliere l’arma per restituirgliela. “Vuoi la rivincita, Oscar?”

“Direi che potremmo considerare questa la tua rivincita e prenderci una pausa,” lo tranquillizzò, e di comune accordo, in perfetta sincronia, andarono a sdraiarsi sotto la quercia secolare che fungeva da usuale ricovero agli intervalli dei loro duelli. “Allora, che dici? Pensi di rispondermi o no?”

“Su cosa? Vuoi sapere anche tu se sono responsabile?” la canzonò, inarcando un sopracciglio.

“Più o meno. Ti stai comportando bene?”

L’aveva studiato e l’aveva visto uscire spesso, negli ultimi tempi, con fare al contempo assente e assorto. Era vero, dunque? C’era una donna?

Ho aspettato troppo?

La fitta di rabbia e dispiacere che provò la turbò: non era solo come se le fosse stata tolta la sua ultima speranza, ma anche come se qualcuno l’avesse defraudata di un diritto.

“Non sono un mascalzone, Oscar,” replicò André, una sfumatura triste nella voce. “Puoi star certa che, se avessi una donna, la tratterei come meriterebbe di essere trattata. Ma non è il caso di darsi questi pensieri ora.”

“Vuoi dire che la nonna può stare tranquilla?”

“Sì, potete stare tranquille,” le sorrise lui. “Sono solo, Oscar. Non preoccuparti, nessun pargolo in arrivo.”

 

Sono solo, Oscar.

Per quanto ci provasse, non riusciva a togliersi dalla mente quel tono rassegnato, le implicazioni insite in quelle parole. Quanta parte di responsabilità gravava su di lei, per quello stato di cose. E tuttavia, non riusciva a sentirsi completamente in colpa: una parte infantile e fragile di lei continuava a non saper concepire André se non come una sua estensione. Quello di cui si vergognava veramente, però, era che adesso lei stava deliberatamente assecondando quella parte soltanto perché le riusciva comoda.

 

Tentare con Fersen, paradossalmente, era stato facile: una follia. Realizzare il sogno inconfessato di una vita, quello che aveva covato dentro in segreto fin da bambina: per una sera, lasciar perdere l'uniforme e il fioretto, indossare uno splendido abito bianco e danzare in mille turbini col principe azzurro. Era finita in maniera diversa rispetto a quanto si era immaginata, ma almeno il copione l'aveva guidata senza neppure dover rifletterci sopra.

Ma André era la realtà. Era l’amico che la aspettava la mattina in giardino, assonnato, con le redini in mano, pronto ad accompagnarla al lavoro; era la compagnia laconica che la affiancava nelle lunghe, pesanti ore di sorveglianza, che sopportava con lei la fatica delle missioni e il tedio delle parate; era il complice che fendeva alle sue spalle i lunghi corridoi di Versailles, sempre al suo posto se occorreva scambiare occhiate partecipi per stemperare l’atmosfera malsana di quel nido di vipere. Era il compagno delle bevute in allegria e delle sbronze tristi. Condivideva la sua vita, a distanza di sicurezza, istante dopo istante: più concreto di così non si poteva.

Lo osservò, mentre discuteva con Girodel dei turni della settimana seguente. Lui se ne accorse e ricambiò lo sguardo, perplesso. Lo stava confondendo con la sua condotta. Con la frequenza con cui lo aveva cercato ultimamente, con le incertezze che palesava nel chiedergli di fermarsi più a lungo con lei la sera, col fatto che si era dimostrata più attenta e ben disposta verso di lui. Forse stava capendo o almeno iniziava a sospettare, senza peraltro crederci davvero. Ma non aveva reagito in modo scomposto, cosa che lei di primo acchito, irrazionalmente, aveva temuto. Non l’aveva affrontata oltraggiato, chiedendole cosa accidenti stesse combinando. Era rimasto a guardare, smarrito al punto da sembrare stupido, a volte.

Chissà se potrebbe volerlo anche lui. O chissà se invece, alla resa dei conti, si tirerà indietro, svergognandomi. Ma no, non credo che lo farebbe. In fondo, potrebbe sottrarsi anche adesso.

Continuò a guardarlo, intenta, intensa, senza distogliere gli occhi. 

Non li abbassò neanche lui.  

 

Se deve succedere, me ne rendo conto, può essere soltanto con te. Che mi conosci da sempre, che mi hai sempre fatto solo del bene. Avere paura di te sarebbe assurdo come avere paura di me stessa. Per te, e solo per te, io sono qualcosa di più di quel che mi sforzo di apparire. Tu sei l’unico al mondo a sapere che ho dovuto uccidere una donna per diventare un uomo. Hai anche cercato di difenderla. Ma non è morta. Vorrei poterla strangolare di nuovo, una volta per tutte, e cancellare con quest’atto di violenza squisitamente maschile le sue imperfezioni e le sue ingenuità femminee, di cui mi vergogno fino a rabbrividire. Ma è dura a morire e a volte ho il terrore che sia lei che mi fa vivere: il mio nucleo più intimo. La sento strisciare anche adesso dentro di me, a impossessarsi della mia testa traditrice: è un incubo lattiginoso e freddo come il fantasma di un assassinio, e geme affamata d’amore come il neonato abbandonato nella ruota di un convento.

Mi infesta, non so cosa fare! Non so se ce la faccio a farle ancora del male.

Aiutala, ti prego.

 

Sedeva in silenzio su una poltrona in veranda, rannicchiata, gli occhi chiusi, intenta a farsi inondare il viso dalla luce calda del sole al tramonto. I suoi pensieri si sparpagliavano e dissolvevano sotto il velo della stanchezza portata all’apice dall’ennesima interminabile giornata passata a corte: la contessa di Polignac e Rosalie, che in fondo le mancava... la regina, sempre più triste e sempre più in trappola... il Cavaliere nero, come catturarlo... lui lui lui, bello, malinconico, intravisto di sfuggita presso le fontane... e André...

Udì dei passi alle sue spalle e si trattenne dal sorridere, gli occhi ancora chiusi, rilassandosi impercettibilmente contro lo schienale mentre lo ascoltava sistemarsi sulla sedia al suo fianco con un sospiro di stanchezza. Chissà se sarebbe rimasto con lei o se sarebbe uscito, quella sera.

“Il Cavaliere nero ha colpito ancora,” la informò immediatamente. “Ieri notte, nella villa della marchesa de Guermantes.”

Spalancò gli occhi.

Addio serata tranquilla...

“Così non è possibile andare avanti,” fu il suo primo commento stizzito. “Questa faccenda prosegue da troppo tempo, ormai si sta facendo quasi ridicola! È ora di catturare quel Robin Hood[1] da quattro soldi.”

“Perché?” chiese lui con semplicità, dopo un attimo di silenzio.

“Come perché?” ribatté, aprendo gli occhi e fulminandolo con uno sguardo indignato. “Mi pare che il furto sia un reato, André!”

“Questo nessuno lo mette in dubbio,” commentò asciutto, finendo svogliatamente di sorseggiare le ultime gocce della bottiglia di bordeaux che si era portato dietro. “Però a volte mi domando se non sia reato anche portare via il pane alla povera gente, quella che si spezza la schiena ogni giorno senza sapere se potrà dare qualcosa da mangiare ai figli la sera. Lui non ruba a morti di fame, Oscar. Obiettivamente, nella Francia ci sono problemi ben più gravi di quel povero diavolo, che crea tanto scandalo solo perché cerca di risolvere delle difficoltà nel suo piccolo in discutibili modi.”

“Problemi come cosa?” lo provocò, la voce fattasi gelida.

Lui non si tirò indietro: “Lo sai anche tu: la povertà, le tasse esagerate, il malgoverno...”

“E poi?”

“Non ti sembra abbastanza?” tentò di buttarla sullo scherzo, svuotando in un solo sorso quel che restava del bicchiere.

“Perché non lo dici, André?” lo sfidò freddamente, alzandosi per affacciarsi alla vetrata. “La nobiltà, le disuguaglianze sociali... non era a questo che stavi pensando, anche?”

Un silenzio teso calò fra loro.

Non era la prima volta che ruotavano attorno a questo argomento, senza mai trovare la forza di sviscerarlo. Non era facile, per nessuno dei due. Lei, teoricamente, sapeva cosa ne pensava André: l'aveva seguito di nascosto in quelle riunioni di pubblicisti e sovversivi a cui talvolta si recava, nel tentativo di capire dove andasse, che vita facesse. Se avesse qualcuna. E sapeva, nell’intimo teorico del suo animo spontaneamente giusto, che in quegli ideali c’era ben poco di contestabile. Ma alcune cose erano più semplici da accettare di altre. Che André fosse un suo eguale, ad esempio: non avevano sempre vissuto come se fosse così? Non era forse così? Anche se non nella pratica. Anche se nessuno sembrava crederci e lui era costretto a pagare ogni giorno lo scotto di quella sua presunta inferiorità – come quella volta, quando era stato quasi condannato a morte... – Non voleva pensarci. Sì, cose come questa, e le relative ingiustizie, erano dure da sopportare e non da ammettere. Ma altre...

Mi spaventa, l’odio che i tuoi amici nutrono per l’aristocrazia. Mi porta a chiedermi se lo provi anche tu. Ne avresti ogni ragione. Ma allora disprezzi anche me?

Forse è vero che siamo dei parassiti e che per i nostri privilegi non c’è alcuna giustificazione. Ma io cosa posso farci? Che colpa ne ho io, di essere nata così? Non più di quanta ne abbia tu. Perché vuoi che provi questo senso di vergogna che mi divora nell’impotenza...?

André avvertì il suo senso di oppressione e cercò di alleggerire l’atmosfera: “Mi sembra che il tuo umore sia più boreale del solito stasera, cara Oscar. Credo che un po’ di questo elisir potrebbe aiutarti a scioglierti…”

“E tu ti stai dimostrando amabile come solo nei tuoi momenti migliori,” rintuzzò, rivolgendogli un pallido sorriso. “Un vero damerino! Inopportuno, oltretutto, dato che ti sei appena finito di scolare la bottiglia.”

“E non era affatto male!” valutò allegramente lui, reclinando la testa all’indietro e passandosi la lingua sulle labbra con fare gaudente, per poi indicarsi la bocca in una specie di invito scherzoso. “Ma non è ancora troppo tardi, vuoi assaggiare?”

“Perché no?” replicò lei lentamente, badando bene a trapassarlo con lo sguardo prima di andarsene in silenzio.

 

Doveva averlo capito, ormai. Doveva. Chissà come se lo spiegava.

Non che avesse molta importanza.

 

Avrebbe dovuto essere una delle solite serate di escursioni fra bettole, per cui nessuno dei due capì come fossero finiti assieme in riva alla Senna senza aver neppure messo piede in un’osteria. Dopo aver discusso a lungo del più e del meno, anche divertendosi, seppur in una strana atmosfera di tensione – quella di chi parlava per non portare a galla il nocciolo inespresso di tutta la questione –, ora se ne stavano immobili sul lungofiume deserto e buio, a osservare il lento ondulare delle luci riflesse dall’acqua scura. In silenzio. Le mani, appoggiate sul parapetto, si sfioravano ed entrambi si stavano costringendo a non scostarle, con le dita che tremavano nella calda notte di agosto.

Oscar lo studiava in tralice: il profilo di André era nervoso, teso, come assorto nel tentativo di procrastinare la mossa seguente. L’aveva assecondata fino ad allora, ma ora che erano giunti al dunque sembrava indeciso, insicuro, percorso da una tensione che tradiva lo spavento, se non il conflitto interiore. Non si era interrogata troppo sui motivi di lui, in effetti: dopo una fase di incertezza iniziale, aveva dato praticamente per scontato che André si sarebbe attenuto ai suoi programmi, tanto era assuefatta a essere quella che conduceva nella loro coppia. E poi lui era un uomo, un vero uomo (e nel suo tentativo di disprezzarlo per questo non si celava forse una sorta di livore, quasi di invidia...?), e gli uomini, come commentava cinicamente la regina, non sapevano proprio dire di no.

Si sentiva fredda, determinata; la sua ansia era intessuta di adrenalina. Aveva preso la sua decisione, aveva messo in atto il suo piano con metodologia quasi clinica, passo dopo passo, e ora non poteva, non doveva, fermarsi.

Doveva arrivare fino in fondo.

Lo afferrò per una spalla e lo voltò verso di sé, bruscamente, con impeto, come se cercasse lo scontro fisico, il giusto risarcimento per un’offesa subita, e non un bacio. Non sapeva neanche cosa stesse facendo. Il cuore non batteva. Cercò le sue labbra alla cieca, risoluta, per non potersi più fermare, per farla finita con l’incertezza, e in quella ruvidezza si celava il desiderio di assumere totalmente su di sé il dominio della situazione, per quanto essa fosse del tutto estranea al campo della sue esperienze: il controllo era per lei una condizione abituale, che le sapeva infondere la calma e la sicurezza di cui adesso, allo sbando, sentiva un cieco bisogno. Ma il suo impeto si scontrò contro la morsa di ferro delle mani di André, che le serrarono le braccia, tenendola distante da sé con fermezza. 

“Che cosa diavolo stai combinando...” sussurrò lui contro la sua fronte, il respiro così affannato da sembrare rabbioso mentre la serrava da farle male. “A che gioco stai giocando, da un po’ di tempo? Si può sapere...”

“Lasciami fare...” gli rispose con un bisbiglio implorante e contrariato, lottando alla cieca per liberarsi dalla sua stretta. “Lasciami, André...” 

“No, Oscar, ti prego... ferma...” lo udì balbettare, turbato, e la presa si allentava come se averla udita pronunciare il suo nome avesse intaccato la sua determinazione. “Cosa... Dio, Oscar... cosa vuoi fare...”

“Non parlare, ti prego...” sussurrò, rauca, tenace, sul suo mento, la sua guancia, la sua bocca. “Non dire nulla...”

 

Cominciò a piovere in un improvviso temporale estivo. Lui la afferrò imperiosamente per un braccio e la condusse al riparo sotto l’arcata di un portone, parandola con la giacca, usando gesti prepotenti e bruschi quanto prima erano stati dolci i baci delle sue labbra. Il contrasto la intimidì: ancora non conosceva il desiderio.

“Sei arrabbiato con me...?” mormorò spaventata, cercando istintivamente la sua vicinanza, quel suo abbraccio appena scoperto.

Fino ad allora non le aveva mai fatto mancare il suo sostegno, non si era mai adirato con lei e non era mai venuto meno al suo modo di fare dolce e scanzonato; ora, invece, lo scopriva strano, nuovo e potenzialmente pericoloso: all’improvviso si trovavano su lati opposti di una trincea e non capiva perché. Smarrita, iniziò a domandarsi confusamente quali avrebbero potuto essere le conseguenze del suo gesto, se avrebbero potuto non piacerle.

“Non sono arrabbiato...” le sussurrò contro la bocca, una voce che sembrava voler esprimere l'opposto. “Ma perché parli, adesso? Non dovevamo stare zitti...?”

“E allora cos’hai? André...” lo chiamò, stringendo fra i pugni la stoffa della sua camicia, imperiosa e al contempo supplichevole. “Non metterti contro di me...”

Aveva bisogno di tentare di dominarlo, di sapere di poterlo comandare come sempre: le infondeva una sicurezza infantile comportarsi dispoticamente verso di lui. Ma lui le sfuggiva, e per la prima volta Oscar si rese conto che il fatto che le obbedisse non dipendeva da lei, dai suoi ordini o dal suo atteggiamento: dipendeva da lui. Era una sua scelta. E questa percezione la gettò in uno smarrimento mai provato prima. Com’era possibile che non fosse lei a avere il potere? Quando l’aveva perso, perché? Non l’aveva mai avuto...?

“Mettermi contro di te?” la canzonò, con amarezza. “Io non so da che parte stai, Oscar...”

“André...” lo chiamò di nuovo, ansiosa.                                       

“Tu non sai cosa mi fai...” mormorò ruvido lui, stringendola. “Non lo sai...”

Continuarono a baciarsi per ore come due ragazzini.


 

[1] Non è un anacronismo menzionare in questa epoca il personaggio di Robin Hood, la cui prima citazione in un manoscritto ricorre in W. Langland, Pietro l'aratore, ca. 1377, epoca in cui le sue ballate sembrano quindi essere note. Successivamente, ancora nella Scottish Chronicle di Wynton, ca. 1420, poi, nel 1510, viene data alle stampe un’opera, A Lytell Geste of Robyn Hood, pari per importanza a quella che Sir Thomas Malory dedicò ad Artù, fino a giungere, a Sir Walter Scott, che, nel 1847,  recupera il mito in Ivanhoe. Fonti:

http://it.wikipedia.org/wiki/Robin_Hood

http://www.misterieleggende.com/leggende/robin_hood.php, http://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/letteratura-inglese/dalle_origini_al_quattrocento_/a2_il_periodo_middle_english/Gower--Langland--Wyclif.html

 

Continua

 

Sara, pubblicazione sul sito Little Corner aprile 2015

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