Inside -

Essere una donna

I

Warning!!!

 

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Ispirato a La cosa più semplice di Alessandra e Christine di Laura

 

“Ormai credo di essere riuscito a dimenticare Maria Antonietta.”

Il cuore le scoppiò nel petto. Dovette trattenersi dal girarsi di scatto per sondare il suo sguardo: aveva paura che, se avesse incrociato i suoi occhi, Fersen non avrebbe potuto che capire tutto. Fece finta di nulla e accarezzò impassibile il suo cavallo, che aveva iniziato a innervosirsi e scalpitare, sentendola agitata e non comprendendone il motivo.

“Era una storia che non poteva farvi felice, Hans,” osservò pacata, mentre almeno una parte di sé riusciva a disprezzarsi per la propria ipocrisia.

“Non è questo l’importante,” commentò Fersen, continuando a trottare al suo fianco. Contemplava l’orizzonte, malinconico, come affaticato, e non le era mai parso così bello, così desiderabile. “Io non ho mai chiesto la felicità dalla vita. Essere infelice per lei, almeno, aveva un senso. Ora niente sembra averne. Ma non potevo continuare a danneggiarla e a farla soffrire: c’è un limite d’onore allo strapotere del vizio e dell’egoismo.”

Si morse le labbra, con un sentimento simile all’imbarazzo. Non sapeva cosa dire. Dovete guardare avanti, Fersen. Siete ancora giovane. Ci sono altre donne che potranno rendervi felice... Frasi di mondana circostanza, discorsi a dir poco stonati sulla bocca dell’essere asessuato e privo di passioni che si trovava a impersonare da una vita. Non poteva parlare: qualsiasi intervento lo avrebbe indotto a guardarla con uno stupore che l’avrebbe ferita o a rivolgerle domande scomode, a cui non avrebbe saputo né voluto rispondere.

Ma ci pensò lui da sé a ghiacciarle ogni speranza.

“A volte vi invidio, Oscar. Voi non conoscerete mai la sofferenza che ho provato io.”

Come se si fosse reso conto un attimo troppo tardi di poter sembrare indelicato, Fersen sussultò e si affrettò a cercare di porre rimedio al danno commesso: “Perdonatemi Oscar. Non intendo dire che voi non sapete amare: vedo quale affetto portate per la regina, quanto rispettate vostro padre... e vedo anche...”

“Certo, Hans. Capisco benissimo. Vi prego, non aggiungete altro,” tagliò corto imperturbabile, continuando a fissare avanti a sé con un freddo, cortese sorriso.

 

Come avrebbe potuto considerarla se non come una specie di orologio, uno sterile congegno di precisione che ruotava alla perfezione, a vuoto? Il dolore le mordeva il cuore e avrebbe voluto piangere, ma era un ingranaggio e farlo non avrebbe avuto senso: si sarebbe solo arrugginita, ma la sofferenza non sarebbe diminuita.

Lo amava da morire e quelle fitte al petto erano l’unica misura ed espressione di quell’inutile sentimento, oltre che della sua umanità.

 

Accanto alla Senna, imbrattata di carminio da un tramonto sanguigno, uno stuolo allegro di bambini stava giocando a rincorrersi, fra spruzzi e urla indignate. Oscar li osservava distrattamente, rientrando a Versailles seguita da André, che al solito stava assecondando col silenzio il suo bisogno di silenzio.

Il caldo estivo le aveva impregnato di sudore le fasce che le pressavano il petto, rendendole difficoltoso il respiro. Com’era buffo che, in fondo, qualcosa di femminile lei ce l’avesse: doveva indossare un corsetto, proprio come tutte le altre, solo che il suo non serviva a evidenziare il seno. E, a proposito di torture muliebri, l’aveva appena colta di sorpresa il ciclo mensile dopo più di due settimane di ritardo: una tenue nausea la stordì all’avvertire l’aroma acre del sangue che le impregnava i tamponi di stoffa fra le gambe, rendendoli ruvidi e appiccicosi. Non si era mai chiesta se anche altri riuscissero a sentire quell’odore; se André, ad esempio, lo sentisse. Forse sì. E forse tutti facevano cortesemente finta di nulla per reggerle il gioco. 

Viveva una farsa che faceva acqua da tutte le parti e riusciva a sostenere il suo ruolo soltanto perché nessuno aveva il cuore o l’interesse di smascherarla. Era un’attrazione di Versailles, nient’altro che una delle innumerevoli stranezze e curiosità dell’eccentrico mondo aristocratico, come il pavone bianco della regina o i quadri di madame Le Brun. La donna vestita da uomo. Ma sarà una donna o sarà un uomo? O nessuno dei due? Li aveva sentiti spesso, questi discorsi, intonati da voci morbosamente divertite e fintamente scandalizzate. E chissà cosa rispondeva Fersen, col suo tono beffardo da intrattenitore salottiero, quando gli domandavano la sua opinione in proposito.

Per un attimo le sembrò di stare per svenire.

“Oscar, vuoi che ci fermiamo un attimo? Andiamo a rinfrescarci vicino alla Senna, questo caldo mi sta uccidendo!”

André le stava rivolgendo un sorriso tirato. Anche lui doveva essere stanco: dopo l’ultimo attentato alla regina i loro turni erano praticamente raddoppiati.

“Va bene, André. In fondo, non ci aspetta nessuno…”

Mentre smontavano da cavallo e si avviavano camminando verso il fiume, circondati da un allegro e caotico sciame di bambini che si inseguivano sotto lo sguardo vigile di alcune donne che lavavano i panni lungo la riva, Oscar si scoprì a riflettere sulla vita di André e a considerare quanto, in un certo senso, fosse ingiusta. E quanto fosse complementare alla sua. Lei, donna costretta a svolgere un mestiere da uomo, e lui obbligato a servirla in quella sua assurda pantomima: entrambi privi di scelta e dominio sulla propria esistenza, schiavi del destino e di volontà altrui. Neanche quella di André doveva essere una vita felice: certo, non soffriva la fame o gli stenti come il popolo di Parigi o i miserabili contadini delle campagne, ma non era libero e non possedeva una propria dimensione privata. Avvezza da sempre a reputarlo una specie di membro a status speciale della sua famiglia, armoniosamente integrato nel suo mondo, Oscar si rese conto che non era scontato che André condividesse questa sua concezione delle cose, dato che egli spartiva i suoi obblighi ma non beneficiava dei suoi diritti, e forse non era nemmeno soddisfatto del suo impiego, che non aveva potuto scegliere: abitava in una casa non sua, al servizio di una vita non sua, e pareva che il necessario corollario di questa sua dedizione fosse che doveva vivere completamente isolato. Lei non gli conosceva amici e non le sembrava che frequentasse qualche donna: doveva sempre essere con lei, accanto a lei un passo dietro le sue spalle, a difenderla e a occuparsi delle sue esigenze.

Mentre sedeva accanto al fiume e contemplava in silenzio, di sottecchi, il suo compagno di sventura, Oscar provò una fitta al cuore: André era infelice della sua vita? Gli capitava mai di maledire il giorno in cui era stato costretto a condividerla con lei? Se ne sarebbe andato prima o poi?

Sua madre era un fantasma distratto e suo padre un insegnante spietato, il cui affetto era sempre rimasto arroccato al di là della gittata di ogni sforzo e di ogni successo. Le sue sorelle, poi, erano delle creature evanescenti, aliene, occasionalmente compassionevoli, certo, che però le era sempre stato proibito frequentare per evitare che potessero corrompere i suoi costumi studiatamente mascolini. Maria Antonietta era qualcuno da proteggere, mentre Fersen... qualcuno di irraggiungibile. Ma André... aveva sempre dato per scontato che André le stesse a fianco, unico fra tutti, per una sua libera scelta. Forse invece lui non ne poteva più e non vedeva l’ora di allontanarsi.

“Madame de Volanges è stata incauta, oggi, a intrattenersi così a lungo in conversazione con il conte de la Forges. Se la Polignac decidesse di catalogarla come rivale, i suoi giorni sarebbero contati,” stava commentando intanto il diretto interessato, fra uno sbadiglio e l’altro, disteso sull’erba con le braccia incrociate dietro il capo. Occhi chiusi, un filo d’erba fra i denti. Sembrava sereno, anche se stanco.

“Sei una vecchia comare,” borbottò Oscar, burbera. “Non riesco a capire come possano incuriosirti gli intrighi di quella gente immorale. Io cerco sempre di non saperne nulla, mi disgustano.”

André rise, sempre senza aprire gli occhi, prima di replicare: “Mah, così, interesse per lo scavo psicologico, studio di caratteri... È tutto così noioso a corte, con quel cerimoniale pomposo a scandire ogni momento della giornata e gli eterni scimmiottamenti dell’etichetta, che badare a queste cose è l’unica cosa che tiene svegli, a volte. Certo che sei fortunata, Oscar, a poterti permettere di ignorare tutto quel torbido.”

“Cosa intendi?” domandò, stendendosi accanto a lui e osservandolo, la testa sorretta da un braccio puntato a terra.

Parlava con lui e pensava a Fersen. Pensava sempre a Fersen, da macerarsi il cuore. Amare era orribile e lei ormai non aveva neanche più speranza di guarigione, se gli anni in cui lui era stato lontano non si erano rivelati una cura. Era umiliante scoprirsi a considerare seriamente l’ipotesi che la cura potesse essere solo la malattia stessa.

“Beh, che è chiaro a tutti che sei nelle grazie della regina: la tua posizione a corte è solida come il granito.”

“Hai un’anima da cortigiano incallito. Ma non pensi che...”

Vennero interrotti da un vocio di esclamazioni di allarme e da un bastoncino di legno che, planando, atterrò proprio sulla testa di André, strappandogli un’esclamazione di sconcerto. Erano i bimbi, che stavano giocando a chi riusciva a scagliare più lontano il legnetto usando un ramo per colpirlo dopo averlo fatto rimbalzare da terra: un gioco antico come il mondo, che lei aveva sempre visto fare ma mai fatto, perché era nobile, non c’era tempo per quelle sciocchezze. Era già sul punto di riprenderli bruscamente, seccata di vedersi disturbato il suo breve momento di tregua, ma non ebbe il tempo di aprir bocca che già André si era levato in piedi e, dimenticata la stanchezza, aveva iniziato a baloccarsi con loro sotto lo sguardo sereno delle madri che lavandavano. Tutti i mocciosi pendevano dalle sue labbra.

Oscar si stese nuovamente a terra, rassegnata a guardarlo con un sorriso venato di tristezza. Si capiva che era fatto per essere padre e che lo desiderava. Oramai non erano più due ragazzini, era naturale che André ci pensasse. Sarebbe successo, prima o poi: si sarebbe sposato e avrebbe avuto dei figli, una moglie, una famiglia. Uno spazio suo, che ora non possedeva e di cui forse sentiva la mancanza. Lui era un uomo sotto tutti gli aspetti e, in quanto tale, poteva aspirare a una vita normale che soddisfacesse bisogni che non aveva necessità di reprimere, per quanto non ne avesse mai discusso con lei, forse per delicatezza, forse per imbarazzo.

Quanto avrebbe sofferto lei, quel giorno? Allora sì che avrebbe conosciuto la vera solitudine: il suo unico compagno l’avrebbe abbandonata. Si chiese, per un attimo fuggevole, se sarebbe stata capace di odiarlo, divorata dall’invidia per qualcosa (matrimonio, famiglia) che non era nemmeno sicura di voler avere: era troppo lontano da quel che era abituata a rappresentarsi per il proprio futuro, troppo distante dal suo stile di vita, dalle sue abitudini. Ma era qualcosa di normale che non poteva permettersi, e lei a volte era così stanca di sentirsi un abominio privo di nome e posto nel mondo.

Fersen, ti prego, vieni a salvarmi...

Stizzita da questo pensiero sfuggito al suo ferreo autocontrollo – un pensiero patetico, quasi femmineo –, Oscar si alzò bruscamente e richiamò André all’ordine: “André, avanti, si fa tardi! Muoviti e andiamo via!”

Avrebbe voluto schiaffeggiarlo mentre lo guardava attardarsi a scompigliare i capelli ai bambini che gli si aggrappavano alle vesti, che cercavano di arrampicarglisi sulla schiena. Aveva così tanta attrattiva ai suoi occhi, la vita che l’avrebbe strappato da lei? Non doveva mancare tanto, allora. Chissà che aspettava ancora.

Ma perché solo gli altri hanno il diritto di sognare?

Stringendo spasmodicamente le mani attorno alle redini per non abbandonarsi a uno scatto d’ira, attese che le si affiancasse a cavallo per sibilare nella sua direzione, la voce rabbiosa, senza guardarlo in viso: “André, tu lo sai che ti voglio bene, vero?”

Udì il suo sussulto, ma non la sua risposta, mentre spronava con furia il cavallo al galoppo verso casa Jarjayes, incitandolo a fendere l’orizzonte per lasciarsi alle spalle i propri desideri e debolezze.

“Io ti amo, Oscar.”

 

Tremava in modo incontrollabile.

Aveva paura. Non aveva mai avuto così tanta paura in vita sua.

Con la vista annebbiata, riusciva a malapena a guardarsi allo specchio. I capelli raccolti, il viso accuratamente truccato dalla cameriera personale di sua madre, le spalle scoperte incipriate. E una toilette da donna color ghiaccio che le cingeva ed esaltava il corpo vulnerabile, spiegandosi luminosa fino a terra in un fruscio di spume di tulle e merletti di Venezia.

Sarebbe veramente riuscita ad andare fino in fondo? 

Aveva commissionato quell’abito a Parigi un mese prima, in gran segreto, presso il gabinetto di sartoria più alla moda del tempo. Si era fatta prendere le misure e aveva scelto stoffe e gioielli con aria assente e un po’ imbarazzata, assecondando tutti i suggerimenti delle sarte. Distaccata da se stessa, non si rendeva del tutto conto di quello che stava facendo. Più volte si era ripetuta che non si trattava che di un capriccio, che avrebbe potuto tirarsi indietro ad ogni momento: al dunque, non l'avrebbe fatto davvero. Dirselo era stato l’unico modo per andare avanti, visto che per la prima volta nella sua vita non era questione di coraggio, ma di follia.

Ora finalmente si vedeva come un essere di sesso femminile e scoprì di sentirsi violentemente a disagio, quasi travestita – non vestita – da donna: era come se ormai le sembrasse più autentico e corrispondente alla sua personalità mascherarsi da uomo come faceva di solito, ma cosa questo dicesse della sua identità e dell’inganno che era diventata la sua vita, quali agghiaccianti conclusioni si potessero trarre da tale ossimoro (cosa sono io?, è troppo tardi per provare a farmi donna?, non posso essere nessuno, solo camminare in bilico su un filo di indeterminatezze?), non voleva certo pensarci. Non doveva pensarci o non ce l’avrebbe fatta.

Era bella? Le sembrava di esserlo. Ma non era sicura che a lui sarebbe piaciuta. Qualcosa stonava nel quadro d’insieme, dopotutto: le spalle troppo larghe, che però si camuffavano fra il tulle che le avvolgeva, e le mani irruvidite dal maneggio delle armi, per cui avrebbe dovuto guardarsi dal liberarsi dai guanti di seta. Il corpo era un po’ magro rispetto alle opulente grazie di Versailles, ma il corsetto compiva il suo dovere e la regina non aveva certo sfoggiato curve più abbondanti quando, esile e acerba, aveva incontrato Fersen per la prima volta a quel ballo in maschera di tanti anni fa. I movimenti potevano sconcertare, così avvezzi a essere decisi, bruschi, per niente femminili: avrebbe dovuto ricordarsi di addomesticarli, di ‘incedere piano’ e ‘muoversi con grazia’. Ma come accidenti si faceva? Nessuno gliel’aveva mai insegnato! E poi, che ridicolaggine!, atteggiarsi come un animale da parata...! Aveva il terrore di riuscire comica, di venire smascherata e beffata per questo...

Lui l’avrebbe scoperta? Credeva di no. Non era soltanto il fatto che nessuno fosse avvezzo a vederla così: era che nessuno avrebbe neanche mai immaginato di poterla vedere così, la capigliatura lucente acconciata ad arte, il viso trasfigurato dalla cipria, dal nerofumo e dal rossetto, il corpo sbocciato in una metamorfosi di curve e di fragilità... No, non l’avrebbe riconosciuta.

Ma sperava di sì.

Sperava che la trovasse splendida e affascinante, che affondasse gli occhi nei suoi e capisse che era lei, che l’aveva fatto per lui, e poi...

E poi non riusciva a immaginare altro.

Afferrò il ventaglio, scacciò i pensieri e si affrettò verso la carrozza.

 

Ballava, e non era lei a condurre la danza. Non era lei il cavaliere, ma la dama, e una sorta di oscuro sollievo venato di autodeplorazione le stava germogliando nel petto: per una volta non doveva compiere decisioni cruciali, sfidare il mondo e le sue convenzioni, dimostrarsi all’altezza di qualsiasi essere di sesso maschile presente in sala. Doveva solo lasciarsi guidare. Serva dell’altrui volontà, era libera da ogni responsabilità e ogni pericolo di fallimento e poteva dominare l’uomo in negativo, ricattandolo con silenzi e ritrosie, le armi che aveva sempre disprezzato nelle donne. Era facile e quasi capiva perché così poche cercavano di sottrarsi al giogo.

Ma non si sentiva se stessa. Le sembrava di stare impersonando una parte aliena alla sua personalità, di cui non andava fiera e che non le rendeva giustizia... una parte in fondo ancora più falsa e assurda del presentarsi a tutti come uomo pur essendo donna, e la coscienza le rimordeva, coperta dalla musica dell’orchestra.

“Io non vi ho mai veduta prima. Sono certo che, se così fosse stato, vi avrei riconosciuta. Da dove provenite, mia misteriosa dama?”

“Da un luogo molto lontano, mio signore,” rispose, provando a levigare la voce, a renderla più morbida, senza incrociare il suo sguardo.

Teneva il volto basso, fisso sugli alamari della sua giubba. Non osava guardarlo in faccia. Stretta fra le sue braccia, premuta contro il suo corpo, non era mai stata così vicina a lui. L’emozione che stava provando la inebriava di lucidità: le sembrava di cogliere ogni sfumatura e dettaglio, di essere calma e consapevole della situazione all’estremo, fin quasi all’astrazione. Badava che il seno gli sfiorasse il petto, in una provocazione ricercata con assoluto candore. Ignorava cosa stesse tentando di ottenere: forse sperava solo inconsciamente di farsi desiderare. E non sapeva neanche cosa volesse dire, il desiderio di un uomo. Se fosse qualcosa in più dell’occupare i suoi pensieri. Era un’adolescente che si sentiva a un passo dalla felicità perfetta, disperatamente decisa a far combaciare i sogni e la realtà.

L’aveva fissata quando aveva fatto il suo ingresso nella sala. Aveva dilatato gli occhi per la sorpresa e si era precipitato a invitarla per il primo ballo.

Mi ha notata. Gli sono sembrata bella. Mi vuole. Possibile che sia vero? Che sia così lineare, quasi... destinato?

“Da un luogo lontano, voi dite. Siete comparsa dal nulla e siete così bella che sembra proveniate dai lidi fatati di cui parlano le antiche leggende del mio paese... Avalon, Tír na nÓg... Siete forse qui per la mia perdizione?”[1]

“No, mio signore. Sono qui per la mia felicità.”

“Spero che sia in mio potere darvela. Ditemi dunque il vostro nome, sconosciuta creatura, cosicché io possa adeguatamente ringraziarvi per aver acconsentito a danzare con me.”

“Il mio nome è Françoise, e mi auguro che vi basti, dato che il mio titolo è un’informazione che non mi è lecito divulgare.”

“Capisco. Io sono il conte Hans Axel von Fersen, svedese, ma francese nell’animo. Spero non abbiate udito parlare di me: di me non si parla più bene da troppo tempo ormai, per quanto io non abbia fatto nulla di cui mi vergogni... È questo il paradosso: non mi vergogno delle cose di cui mi pento. Ma questa serata è meravigliosa e magica, mi ha condotto a voi e non va turbata svelando i nostri segreti più tristi. I vostri titoli vi appartengono, Françoise, non temete, ma spero che stanotte la vostra vicinanza appartenga a me. Oso troppo, chiedendovi di accompagnarvi in giardino? Se siete nuova qui presso la corte, desidererei essere il primo a mostrarvi uno dei suoi gioielli, le fontane aureolate dalla luce tenue di questa notte di plenilunio.” 

Le tremavano le mani. Cosa doveva rispondere, ora? Sentiva, oscuramente, che la prossima mossa spettava a lei, e lui stava movendo le pedine con l’abilità di un giocatore consumato. E dove conduceva questo gioco che lei stessa aveva iniziato? Qual era l’obiettivo finale? Per la prima volta nella serata, percepì dell’ansietà intorbidarle lo stato di grazia in cui si trovava. Possibile che non avesse pensato alle conseguenze ultime del suo piano? Era stata davvero così puerile? Ora era in balia di un uomo. E non aveva idea di cosa sarebbe successo (o forse non voleva rendersene conto) e di come comportarsi.

Sapeva come finivano solitamente, queste avventure di palazzo. Lo sapeva, in teoria. Si ricordò di quelle malelingue a cui non aveva mai voluto dare credito: che Fersen fosse un amatore, che i suoi incontri con la regina Maria Antonietta e le sue amiche occasionali si svolgessero spesso nella cornice dei giardini di Versailles, che lui fosse disinvolto e spregiudicato e rapido nel circuire e domare le sue conquiste...

Non aveva pensato a questo.

Non sapeva se era pronta. Non sapeva neanche se lo voleva.

Cosa aveva sognato, la nottata delle favole? Che la guardasse negli occhi, le dichiarasse il suo amore e la riaccompagnasse castamente a casa? Era ancora una bambina: era diventata un uomo, ma la donna dentro di lei era rimasta un grumo informe e ignorante, che vagiva solo assurdità.

Le stava proponendo di fare del sesso? Lo proponeva a lei, che non conosceva neppure?

Io lo amo. Lo amo. Ma...

Lo seguì con gli occhi velati da una cortina di nebbia, la mano aggrappata spasmodicamente al suo braccio, il cuore in tumulto. Non aveva mai provato terrore prima e ora scopriva quanto potesse essere umiliante. Si sentiva sudare, irrigidire in tutte le membra. Non riconosceva più nulla di sé. Incespicò sulle proprie scarpe e si guardò smarrita attorno, cercando la sua carrozza.

André, dove sei?

Fersen si accorse del suo silenzio, della sua dubbiosa ritrosia e si arrestò per fissarla, interrogativo e quasi impietosito, mentre si trovavano ancora sulla scalinata che conduceva all’esterno. Come doveva sembrargli inadeguata e patetica. Sperava di tutto cuore che capisse lo stato in cui si trovava e che la lasciasse andare. E che, soprattutto, non la riconoscesse.

“Tremate. Che avete? È per il freddo?” le domandò con fare quasi seccato, come se le cose stessero deviando dal corso naturale degli eventi e ciò fosse per lui una noia non prevista. Dopo una perplessa esitazione, le si avvicino e la abbracciò. La tenne stretta a lungo, per poi sussurrarle contro l'orecchio: “Non temete nulla. Io voglio che sia bello per voi, e farò sì che lo sia. Mi confondete: sembra quasi che non conosciate nulla di questo... Ma, se è solo per il freddo, conto di scaldarvi.”

Le sue labbra si spostarono indecise, le accarezzarono lievi la guancia per un po’, poi si fermarono sulla sua bocca. Oscar era paralizzata. Stava per...?

La strinse più forte e la baciò.


 

[1] Il mito è celtico, con similitudini con altri racconti e miti, compreso quello dei sette dormienti, e qui si è ipotizzato che Fersen ne fosse a conoscenza.

 

Continua

 

Sara, pubblicazione sul sito Little Corner aprile 2015

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Sara Mail to ultimegocce@hotmail.com

 

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