Inside -

Essere una donna

VII

Warning!!!

 

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Più o meno una volta alla settimana Fersen poteva permettersi di andare a trovarla apertamente e ufficialmente senza preoccuparsi di destare particolari sospetti. Come un amico. Si presentava da lei nel tardo pomeriggio, orchestravano un paio di duelli, cenavano in un silenzio rarefatto e trascorrevano il resto della serata nel salottino privato di Oscar, lasciando detto alla servitù di non voler essere disturbati. Erano i loro incontri migliori: non dovevano patire il freddo, soggiacere alla fretta, temere di venire scoperti. Forse, si diceva lei, una loro eventuale futura convivenza avrebbe ricalcato questa routine.

Un tempo, questa era la mia vita con André, si stupiva Oscar, soffrendo nel doverlo riconoscere. Ho vissuto con lui per anni. Trascorrevamo le giornate sempre insieme, fra lavoro, sfide, allenamenti, musica, libri, vino, risate, silenzi. Ho davvero vissuto con lui. Era strano, adesso, scoprire al proprio fianco Fersen. Talora si sorprendeva ancora, quando si girava e lo vedeva seduto davanti al camino, accanto a lei, in un posto che non sembrava il suo. E André, invece, non c’era più. André che si teneva alla larga da loro, badando a non incrociarli se poteva evitarlo, e forse questo dava nell’occhio, suscitava domande.

Anche quella sera non si era fatto vedere. Da quando si erano parlati, la situazione fra loro si era ribaltata: ora era lei a cercarlo e lui a eluderla. Oscar aveva tentato in ogni modo di fuggire il confronto con lui per evitare una frattura aperta: ora che la frattura c’era stata, lei non la riusciva a sopportare. Avrebbe voluto ricucire con André, in qualche modo, pur non sapendo come; avrebbe voluto la sua approvazione, per quanto si rendesse conto dell’assurdità di tale pretesa, e la sua amicizia, anche se ormai neppure lei era più sicura che questa fosse una definizione adeguata del loro rapporto. Non era esatto dire che André la evitava: piuttosto… le opponeva un muro. Sembrava stesse aspettando qualcosa. E il suo silenzioso atteggiamento di condanna le faceva mancare il fiato sotto l'uniforme indossata, come sempre, in modo impeccabile.

Va’ al diavolo, André. O mandamici. Cosa vuoi da me, cosa stai cercando di dimostrare?

Era ancora relativamente presto, ma con Fersen si era già ritirata nel salottino privato adiacente alla sua camera da letto. Stava percuotendo il piano a occhi chiusi: Mozart, eseguito con arroganza. Era stato Fersen a domandarle di suonare, dopo che per l’ennesima volta si era visto opporre un silenzio risentito alle sue indagini piene di tatto.

“Cos’hai? Sei adirata con me?”

“È successo qualcosa?”

“Si tratta di André? È accaduto qualcosa con André?”

Lo stava trattando male, se ne rendeva conto. Ma era stizzita con lui e con se stessa. E preoccupata. E confusa. Non avrebbe mai pensato che il biasimo di André l’avrebbe fatta sentire tanto vulnerabile e preda dell’ansia: non riusciva quasi a pensare a altro che ai suoi silenzi sprezzanti e alle sue frasi tradite. E, al contempo, c’era il prolungarsi della sua relazione clandestina con Fersen, che si stava lentamente rilasciando in una sorta di consolidata abitudine; invece di rassicurarla, però, ciò la agitava in un vago senso di malessere: adesso che non facevano più sesso come posseduti ogni volta che si vedevano, avevano tempo per parlarsi e per scoprire, in fondo, di conoscersi poco o nulla e di avere in genere ben poco da dirsi. Fra loro si stendevano spesso lunghi silenzi, interrotti da discorsi impacciati o effusioni iniziate per mettere a tacere paure e per colmare un senso di vuoto, che Oscar quindi percepiva come innaturali, costrittive e un po’ ridicole, per quanto spesso fosse lei ad avviarle, rifugiandosi in quella pantomima per sfuggire a domande, sguardi indagatori e dubbi interiori. Al senso di panico di quando si chiedeva: sta bene con me? Cosa pensa di me? Di cosa possiamo parlare? Si sta annoiando, vorrebbe essere altrove? E perché mi chiedo questo? Sono a disagio? Vorrei essere io altrove? Forse sola. O forse con lui… Con André, il cui silenzio non era mai stato pesante e i cui discorsi non erano mai stati riempitivi. Non sono in grado di far funzionare un rapporto. Amo Hans, ma non so come si fa. Non lo so gestire. Cosa dovrei fare, cosa dovrei dire, chi dovrei essere per continuare a piacergli? Sono paralizzata. Ho paura che si annoi, che inizi a fare confronti. Che pensi a lei.

Le tornavano alla mente le parole spietate di André.

Amerà sempre e solo la regina.

Lentamente la melodia si smorzò sotto i tasti, le sue dita si fermarono incerte e la stanza fu avvolta dal suono soffocante del silenzio. Sospirò e si girò verso di lui, sconfitta, incontrando il suo sguardo fisso, severo. Era veramente bello. E nobile, generoso, misterioso. Non poteva non pensare che non l’avrebbe mai potuta amare davvero. Perché proprio lei? Lei che era così complicata e così diversa da una donna vera...

“Scusami,” mormorò, con una certa dignitosa pacatezza. “Non ti sto trattando bene, oggi. Sono piena di pensieri.”

“Questo l’ho capito,” sospirò lui, portandosi una mano alla fronte, l’aria stanca. “Quello che non ho capito è perché mi escludi. Pensi che non capirei? Cosa ti tormenta?”

Cosa rivelare del groviglio di afflizioni che le infangavano la mente?

“Perché amavi la regina?” le sfuggì soltanto, nemmeno lei capì perché.

La domanda lo colpì. Lo vide spalancare lo sguardo, prima di ammorbidirlo e sfumarlo di... tenerezza?

“Oscar, vieni qui,” la invitò, accennandole di sedersi accanto a lui, sul canapè. Lei non avrebbe voluto, ma non sapeva in che modo giustificare questa sua reticenza, per cui con riluttanza si alzò e lo raggiunse, sentendosi in qualche modo appesantita da questo piccolo tradimento verso se stessa. Lui le circondò le spalle con un braccio, attirandola ancora più vicina, forzandola ad appoggiarsi sul suo petto. Se si accorse di quanto lei fosse rigida, non lo diede a vedere. “Oscar, è a questo che stai pensando, è questo che ti turba?” Per lui era una domanda retorica: non attese la sua replica. “Non voglio che pensi a Maria Antonietta. Non vorrei pensarci neppure io. Se lo faccio tutto risale e mi sento soffocare. Vorrei solo poter andare avanti, capisci?”

Vuoi andare avanti e ti scegli come amante colei che non può che ricordarti, ogni volta, la regina? Colei che è incaricata di proteggere la tua regina, forse la sua unica vera amica, colei che un tempo faceva da tramite ai vostri messaggi amorosi e da sorvegliante per i vostri incontri segreti? Vuoi andare avanti? E cosa ci fai qui in Francia, allora? Cosa ci fai a corte a due passi da lei? Sono diventata la tua nuova scusa per non poterti allontanare, quando ogni altra giustificazione è caduta?

Ma certe cose non potevano essere dette.

A volte pensava che, fra tutte le persone che conosceva, André fosse l’unica col dono tremendo della sincerità.

“Hans, se rifiuti di rispondermi, io continuerò a pensarci. Hai ragione a voler andare avanti, ma mettimi in condizione di poterlo fare a mia volta, ti prego.”

Lui sospirò con insofferenza, ma quando cominciò a ricordare qualcosa vibrò nella sua voce.

È felice anche solo di poter parlare di lei…

“Non saprei dire perché mi innamorai di lei, Oscar. Giocò un ruolo la sua bellezza, certo. Ma non solo, non principalmente: la prima volta che la vidi portava una maschera sul viso. Fu la sua grazia, la sua innocenza, così inverosimile… la sua briosa, spontanea gioia di vivere... Era così palesemente innamorata di me e così incapace di nasconderlo... così incapace di nascondere alcunché, di essere falsa, di schermarsi dalla crudeltà e dall’ipocrisia del nostro mondo. Era fragile e disarmata... e io non chiedevo altro che di poterla proteggere e preservare immacolata. Se sorrideva mi faceva sentire un altro... mi faceva sentire degno di chiamarmi un uomo. No, basta, ora… io… Oscar, vi prego, non chiedetemi altro, è stupido parlare così quando tutto è passato...”

Era perso nelle sue memorie e dalle sue parole traspariva la nostalgia straziante, una tenerezza quasi inverosimile in un uomo e un amore profondo. Certo, aveva ragione André: lui l’amava ancora.

Oscar stava trattenendo il fiato per cercare di trattenere le lacrime. Si sentiva come se mille lame le trapassassero il respiro, e il cuore e il cervello erano congelati di sofferenza desolata. Cercava di ripetersi che lei sapeva comprenderlo meglio della regina, che aveva più possibilità di renderlo felice, che lo scopava bene a letto e che, per uno scherzo del destino, condivideva perfino la sua stessa vita: i pericoli, i turni di pattuglia, il comando dei soldati... Ma allora perché la regina, che non poteva dargli niente? Così fragile, ingenua e ignorante... e così autenticamente donna? La regina che non si schermava come faceva lei, che non doveva tentare di essere qualcuno che non era, che poteva – e sapeva – amare con tutta se stessa?

Fersen le raccontava Maria Antonietta attraverso gli occhi della propria adorazione e a lei sembrava di non riuscire a confrontarsi, nella misera friabilità della sua identità confusa, con quella fragile figura granitica di donna, limpida nella sua identità ben delimitata e comprensibilmente insicura nello spettro delle sue scelte canoniche. Come avrebbe potuto amare anche lei, così diversa? Come poteva? Non poteva...

A volte mi sembra che sia tutto una posa. Tacciamo parliamo scopiamo. Aspettiamo. Giorno dopo giorno ci sforziamo di simulare bene, di sembrare credibili, nella speranza che prima o poi il meccanismo giusto scatti, che le cose comincino a funzionare da sé. Ma quand’è che si smette di fingere di essere una coppia e si inizia a esserlo davvero? Quando diventerai mio veramente e la finirai di essere solo lo specchio di tutto quello che non ho e che non so?

In un impulso subitaneo gli fu sopra, si mise a cavalcioni sul suo bacino e gli soffocò la voce in un bacio aggressivo, imperioso, dolorante. Con frenesia, per tacitare mente e sentimenti, gli aprì la camicia, gli marchiò la pelle con i denti e ondeggiò spietata contro i suoi fianchi, come se le loro carni fossero già un unico incastro.

“Mi vuoi?” ansimò, feroce. “Non parlare, dimmi solo che mi vuoi...”

Sapeva già che non sarebbe venuta. Da qualche tempo non riusciva più a lasciarsi andare a letto: era sempre nervosa, sempre insoddisfatta e parzialmente in ansia. Fersen non se n’era accorto, naturalmente. Aveva anche ripreso a masturbarsi, una pratica che prima aveva interrotto, perché in fondo non la gratificava davvero. Ma ora ne aveva bisogno: era qualcosa che la faceva stare almeno un po’ bene. Quando si toccava, però, era ad André che pensava. Se ne vergognava da morire, ma in fondo erano soltanto fantasie, si ripeteva, come il sesso ora era solo un modo per smetterla di parlare, di pensare, di stare male. 

 

 

Era notte fonda, ormai: il ricevimento in onore dell’ambasciatore inglese era terminato da un pezzo, i sovrani si erano entrambi ritirati e solo pochi cortigiani irriducibili si stavano attardando a giocare le ultime mani di carte o a esibirsi in balli privi di decenza. Anche Fersen se n’era andato, piuttosto presto per le sue abitudini: dopo averle rivolto uno dei loro segnali convenuti, le aveva fatto recapitare un biglietto in cui la informava che non si sentiva bene e che faceva ritorno a Parigi. Spero di vederti presto, si augurava.

Era stata una serata noiosa e priva di particolari incombenze, ma lunga e pesante. Finalmente anche per lei, però, era arrivato il momento di smettere i panni del soldato e di dirigersi alla volta di palazzo Jarjayes.

“Colonnello, la vostra carrozza vi attende all’ingresso laterale.”

“Vi ringrazio, Girodel. I picchetti di guardia sono stati disposti?”

“Sì, colonnello.”

“Bene, capitano. Rompete le righe. Io farò un ultimo giro di perlustrazione e poi me ne andrò a casa. Potete prendere congedo a vostra volta, se volete.”

“Se non vi spiace, desidererei attendervi.”

La proposta la stupì: Girodel in genere non avanzava richieste, men che meno dei desideri. Ma era troppo stanca per mettersi a discutere, e del resto la cosa non faceva differenza per lei.

“Come preferite. Sarò subito di ritorno.”

Si allontanò verso il parco, tuffandosi nella rilassante oscurità della notte d’aprile. Più che perlustrazione, si trattava di una passeggiata, come ben sapeva Girodel, che ormai conosceva le sue abitudini: non c’erano motivi di allarme, ma la serata era stata talmente chiassosa, satura delle chiacchiere dei cortigiani, del clangore di bicchieri e posate e della musica strombazzante dell’orchestra, che la sua mente anelava a un po’ di silenzio e di solitudine, se non altro per sedare quel fastidioso ronzio alle orecchie, preludio di un mal di testa che, se trascurato, non l’avrebbe lasciata dormire. Forse il ciclo era in arrivo: si stava facendo attendere, questo mese.

André l’aspettava in carrozza. Avrebbero fatto il viaggio assieme senza rivolgersi la parola, come al solito. Odiava quell’atmosfera pesante di ira e costernazione: non poteva andare avanti così, non faceva bene a nessuno dei due. Forse dovrei chiedergli... ma no, non riusciva neppure a pensare a una cosa del genere. E poi, dovrebbe essere lui a decidere di lasciare il servizio oppure a domandare di essere trasferito a un altro incarico: non sta a me. Ma chissà, forse ci sta pensando... L’idea che lui stesse meditando di allontanarsi da lei era probabile, se non sicura. In fondo, chi glielo faceva fare di stare con lei a quelle condizioni?

Un brivido, di freddo e paura, le scivolò ripido lungo la schiena.

Sarebbe stata la cosa più giusta. André soffriva troppo, così. Lontano da lei, invece, avrebbe potuto ricominciare da capo. E anche per lei le cose erano difficili: lui non faceva nulla per rendergliele più semplici. Quando stava con Fersen, oramai, non poteva non pensare al male che si erano fatti, al veleno delle ammissioni, alla colpa. Forse era giunto il momento di imboccare strade separate: erano a un vicolo cieco. Ma che il loro rapporto, che la loro... amicizia dovesse finire in questo modo, stemperandosi nell’odio, nel rimorso, nel niente, non l’avrebbe mai pensato. Che ricordi le sarebbero rimasti? Lui che le rinfacciava di essere una stronza cinica e crudele, che l’accusava di aver solo giocato con lui e le profetizzava che non sarebbe mai stata felice? Il sangue che gli sgocciolava sul viso, filtrando fra le dita, l’immagine bianca di quel terrore cieco? Lui che piangeva inginocchiato davanti al caminetto fra cocci di bottiglia? Lui... lui che... le si stendeva caldo e liscio sulla pelle, stretto fra le gambe, le labbra bollenti e un po’ screpolate sulle sue e gli occhi chiusi per l’intensità del momento? La dolcezza infinita con cui l’accarezzava...?

Rimarrò sola…

Un’ondata di disperazione e tristezza la attraversò gettandola nel più cupo sconforto. Non era sicura di poter vivere una vita senza di lui. Si sentì di colpo come se non avrebbe saputo più ridere, gioire di un successo, guardare al futuro con speranza. Non ci sarebbe stato più nessuno con cui parlare, nessuno che l’avrebbe capita meglio di quanto lei capisse se stessa… Ma perché non riusciva mai a essere felice, cosa c’era di sbagliato in lei? Avrebbe davvero voluto che André rimanesse per sempre in disparte dalla vita, spinto in un angolo buio, sempre solo e sempre... suo?

No, non possiamo andare avanti così: stiamo troppo male tutti e due... non è sano, non è normale...

Inspirò a fondo l’aria notturna, tentando di placare i pensieri nello spettacolo della luna che si rifletteva sugli specchi d’acqua di Versailles. Camminava cercando di non far rumore per non turbare il silenzio attorno a sé. Si inoltrò in una macchia d’alberi per raggiungere un tempietto greco che sapeva trovarsi celato più avanti, nella boscaglia; dopo alcuni passi, le parve di sentire delle voci. Sorrise, malinconica: non era il caso di disturbare l’appuntamento segreto di due amanti. Stava per volgersi e tornare indietro ma qualcosa la bloccò, un senso di familiarità, di agnizione, ma che strideva, che era sbagliato, lì, in quel momento, e che la spinse a muovere un passo, due, tre, noncuranti, veloci, per scostare le fronde e sorprenderli. Erano vicini, allacciati: lei aveva la schiena sensualmente inarcata ed era cinta dalle braccia di lui che la rimirava con occhi rapiti e sofferenti, le labbra che si toccavano appena, sussurrando chissà cosa, promesse, rassicurazioni.

Fu lui il primo ad accorgersi che qualcuno li stava guardando, che quel qualcuno era lei. Inizialmente non seppe far altro che rimanere immobile, attonito, e sussurrare: “Oscar...” con aria sospesa; nel frattempo, Maria Antonietta la vide e spalancò con stupore i suoi due occhi grandi e puri. Oscar non credeva di essersi mai potuta permettere uno sguardo così innocente in tutta la propria vita. Ci fu un momento irreale in cui nessuno si mosse a eccezione della regina, che, percependo un che di inusuale nelle loro espressioni vitree, nella tensione che ispessiva l’aria, con fare interrogativo saettò gli occhi dall’uno all’altra. “Hans...?” la sentì invocare Oscar, infine, e quel sussurro discreto, che parlava di intimità e di fiducia, le spezzò il cuore.

Si voltò e fuggì. Scappava all’impazzata dalla voce che la inseguiva, una voce che conosceva e che ripeteva ossessiva: “Oscar, fermati, ti prego, aspetta...!” Cadde una volta, due, il fiato rotto, incapace di sentire il male delle mani scorticate e delle ginocchia sbucciate, i capelli un groviglio, il cuore impazzito, la paura assillante di essere raggiunta, bloccata e costretta ad affrontare quell’incubo, sapeva di stare piangendo ma non poteva fermarsi, sarebbe morta se l’avesse rivisto ora, sarebbe morta.

“Oscar, che cosa succede?!”

“Comandante!”

“Colonnello Oscar!”

“Oscar, siete stata assalita? State bene?”

I suoi soldati la circondarono, allarmati. Vedendola in quelle condizioni, sporca di sangue, gli occhi sbarrati dal terrore, levarono automaticamente le baionette; alcuni si erano già posizionati a semicerchio e si apprestavano a caricare un nemico di cui però non c’era traccia. Girodel l’aveva afferrata per le spalle e la stava scuotendo; aveva rinunciato a sorreggerla perché sembrava essere diventata di pezza e, chinatosi di fronte a lei che si era accasciata a terra, si era messo a caccia di una spiegazione, di direttive, qualcosa.

“Oscar, cos’è accaduto? Qualcuno vi ha aggredito? C’è un intruso? Vi prego, parlate!”

Il trambusto circostante e un paio di schiaffi riluttanti di Girodel la riscossero e la fecero ripiombare nel presente. Con la sua caratteristica presenza di spirito, dovuta all’abitudine di assimilare una situazione con un colpo d’occhio e di analizzarla nell’immediato, Oscar comprese di dover fare subito qualcosa.

“C’era qualcuno, sì,” confermò incerta, procedendo a tentoni. “Un uomo. Armato. Ma l’ho messo in fuga.”

“Un uomo solo?”

“Mi sembrava che fosse solo, sì.”

“E dove?”

“Nei pressi della Grotta di Tetide,” imbastì col suo solito sangue freddo, per depistarli. “De la Fère, prendete con voi cinque uomini e andate a perlustrare la zona nei ridossi della fontana. Gli altri rimangano qui: l’intruso si è dato alla fuga e sono convinta che non ci sia alcun pericolo. Raddoppiate ugualmente la ronda, stanotte. Svelti, tutti ai propri posti!”

Si rese conto, stupita, che la ubbidivano. Le credevano ciecamente, perfino in quelle condizioni, palesemente sconvolta. L’unico a nutrire dei dubbi sembrava essere Girodel, che era ancora accovacciato di fronte a lei, le mani salde sulle sue spalle, come se temesse di vederla svenire da un attimo all’altro; la stava squadrando preoccupato e quando le parlò fu in un mormorio, per non farsi ascoltare da terzi: “Oscar, state bene? Vi hanno fatto… del male?”

Capì che temeva che qualcuno avesse cercato di violentarla, e le parve così assurdo che le venne da ridere, una risata stridente da isterica.

“Non volete dirmi cosa è successo,” ricavò lui. Rimase a guardarla a lungo, con un’aria curiosamente sofferente, prima di chinare il capo e domandare in tono di resa: “Devo chiamare André?”

“Grazie, Girodel,” sussurrò lei, non fidandosi della propria voce.

 

 

Sarò dove sono sempre stato.

Al tuo fianco. 

 

 

Fine VII parte

Sara mail to ultimegocce@hotmail.com


 

Continua

 

Sara, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2016

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