Inside -
Essere una donna
VI
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Il comodo limbo di Oscar si interruppe una sera di gennaio. Era seduta davanti al caminetto ormai spento, a sorseggiare un bicchiere di vino rosso col cuore serrato dalla gelosia: Fersen le aveva fatto recapitare un messaggio con su scritto che non poteva incontrarla, quella sera. E neanche la sera seguente. C’erano degli impegni che aveva procrastinato troppo a lungo e che lo trattenevano lontano da lei.
Si torturava la mente a immaginarlo fra le braccia di qualche donna, a Parigi. Libero, affascinante e sereno, come non era e non poteva mai essere assieme a lei. Forse avrebbe anche potuto innamorarsi di un’altra, perché no? Una donna più giovane e più semplice... una donna vera, che avrebbe potuto dargli tutto quello che lei non sapeva o poteva. Non ce la faccio più. Si trattenne varie volte dal suonare il campanello della servitù per inviare al conte un messaggio qualsiasi col quale pregarlo di raggiungerla. Avrebbe potuto dirgli che si sentiva male, che era capitato un imprevisto...
Si piegò in avanti sulla poltrona, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il viso affondato fra le mani, e i capelli le spiovvero a nascondere il volto contratto dal disgusto.
E io disprezzavo Maria Antonietta per la sua debolezza...
Non le restava che sbronzarsi nella speranza di addormentarsi. Ma ci sarebbe stato il giorno successivo, l’intero giorno successivo. E la sera e la notte dopo. Rimuginamenti, incubi, torture. E la notte dopo ancora lei sarebbe stata di turno a corte... Quando lo avrebbe rivisto? Ma lui come faceva a resistere? Evidentemente gli importava di meno, o non gli importava nulla... No, non poteva lasciarsi coinvolgere così da quella storia, non sapeva nemmeno come sarebbe andata a finire. Male, probabilmente. Con lei tutto finiva male. Doveva cercare di mantenere il distacco, non lasciarsi travolgere…
Era giunta a quel punto delle sue considerazioni, quando sentì la porta aprirsi dietro di lei e una persona entrare con passo silenzioso nel salottino, senza bussare.
Si voltò di scatto, adirata: “Chi è? Non ho chiamato...”
Era André.
“Perdonami. Ho visto della luce filtrare sotto la porta e ho pensato di entrare. Tempo fa godevo del privilegio di potermi introdurre nei tuoi appartamenti senza bussare e senza attendere convocazioni, ma a quanto sembra simili concessioni hanno durata breve, con te. Ti disturbo? Devi forse uscire?” indagò con neutralità, a farle intendere che sapeva perfettamente dove sarebbe andata.
Per un istante rimase immobile a guardarlo. Si era talmente abituata al fatto che André rispettasse le distanze da non aspettarsi più un faccia a faccia: aveva abbassato la guardia.
“Non devo uscire. Cosa vuoi?” lo apostrofò, aggressiva.
Lo misurò con un’occhiata fredda, scrutandolo per sondare le sue intenzioni. Ma lui sembrava impenetrabile. Era sempre impenetrabile con lei, dietro la sua facciata di calma cortesia.
“Devo dirti una cosa, Oscar.”
“Che cosa?”
“Che sei una stronza.”
Lei rimase a bocca aperta e non replicò. Per un attimo non riuscì a credere che qualcuno avesse trovato l’ardire di pronunciare simili parole contro di lei. Ma André ne aveva dette ben altre, in effetti.
Lui si avvicinò, appoggiò la spalla contro la mensola del camino, le braccia incrociate. “Che tu fossi una persona razionale ed emotivamente controllata, questo io l’ho sempre saputo. Sei stata costretta a diventare così: era quel che tuo padre si aspettava da te, non avevi scelta. Ma ho creduto che dentro di te, chiuso in un guscio piccolo e ostinato, nel profondo, si nascondesse ancora... della dolcezza. Ora non ne sono più convinto. Forse la vita che hai condotto ti ha semplicemente reso arida e sterile. O forse a quella dolcezza può attingere solo qualcuno, ed è chiaro a entrambi che non si tratta di me. Meno chiaro è se lui se lo meriti o sappia cosa farsene.”
Si interruppe per chinarsi a ravvivare il fuoco con un tizzone. Sciami di scintille sprizzarono, diedero vita a una fiamma che gli illuminò il profilo. Era la parte di viso intatta. Si rese conto all'improvviso che le mancava: avvertirlo solido sotto le proprie dita, divorarlo con un piacere incurante, liberatorio e animale, poter parlare senza misurare le frasi e gli intervalli di silenzio, in scambi disadorni e intensi come sanno essere soltanto i dialoghi che si tengono con se stessi. Artigliò i braccioli della poltrona e aprì la bocca senza sapere cosa dire. La richiuse, restò in silenzio. Era stupita come per aver ricevuto uno schiaffo inatteso.
“Non avrei mai immaginato quanto tu potessi essere crudele, indifferente. Forse sei cambiata, o forse non ti ho mai conosciuta davvero. Ho sempre immaginato qualcuna che non eri tu, il che mi rende parecchio patetico. Sai, ho aspettato che mi cercassi. Lo farà, mi dicevo. Le ho detto di amarla, siamo stati amanti e siamo amici da sempre. Sa che soffro e che sono in difficoltà, sa che... ho bisogno di aiuto. È Oscar. Verrà da me. Mi fidavo. Ma non sei mai venuta. A volte mi affacciavo alla finestra e ti intravedevo in giardino, di notte, la camicia bianca svolazzante al chiaro di luna, un fantasma che mi dava sempre le spalle. Non era da me che correvi… Non riesco a credere che quella che ho davanti sia tu, Oscar,” concluse in un bisbiglio assente, l’occhio vitreo fisso sulle fiamme.
Le lacrime le inondarono il viso arrossato di vergogna in un fiotto freddo. Iniziò a tremare incontrollata e dopo un po’ arrivarono i singhiozzi. Cercò di soffocarli, ma era inutile. Un sudore gelido, improvviso e rancido, le ricoprì tutto il corpo, e il cuore iniziò a batterle a colpi secchi. Il dolore le spezzò il petto, un gemito lunghissimo le proruppe dalle labbra.
Lui si voltò, si sforzò di metterla a fuoco.
“Che hai?” si informò, distaccato.
“Perdonami,” balbettò soltanto, sconvolta. “Perdonami.”
Poi, senza riuscire a trattenersi, si lasciò cadere giù dalla sedia e si tuffò contro di lui, artigliandogli le braccia dietro la schiena. Le spalle incassate, completamente irrigidita, si aspettava quasi di essere strattonata per i capelli e spinta via, ma André non la allontanò. Però neanche la abbracciò. Rimase semplicemente immobile, trattenendo il respiro.
Non mi allontani perché per farlo dovresti toccarmi?
“Perdonami, André... non avevo capito che mi amavi! Forse... forse lo sapevo, ma non l’avevo capito! Non volevo farti del male… Pensavo, visto che accettavi di venire a letto con me, che ti andasse bene. Se avessi saputo che mi amavi non ti avrei mai cercato... Sono una vigliacca, lo so: ti evito, ti ho evitato... ma non sapevo come comportarmi e cosa fare... Avrei dovuto dirti di Fersen, sì, ma non volevo doverti fare, sempre io, dell’altro male! Tu sai che lo amo. Lo amo, cosa ci posso fare! Non riesco a farne a meno. Perdonami, André... Non avrei mai voluto farti male, mi dispiace! Dio, vorrei morire...”
Piangeva, singhiozzava disperata. André sentiva che il cuore le batteva all’impazzata nel petto, quasi si soffocava nei singulti, e gli stringeva la stoffa della camicia fra le dita come volesse stracciarla. Lo scongiurava e soffriva e piangeva, e in quel pianto lui la ritrovava. Ritrovava la persona buona di cui si era innamorato, quella che lo trattava come un amico e un fratello, non come un servo; quella che desiderava disperatamente l’affetto e l’ammirazione del padre, che si impietosiva per scenari di povertà che non la riguardavano, per un bambino ucciso per strada da un nobile prepotente, per una misera orfana in cerca di vendetta; quella che empatizzava con i dolori d’amore di un donnaiolo scialbo e le sofferenze e la solitudine di una regina infantile e incompetente, forse perfino irritante, ma indifesa.
Se piangeva, se ridiventava lei, non riusciva neanche a odiarla. Era peggio: era come sale sulla ferita. Esitò per qualche istante, con il solo risultato di dover sorridere ironicamente di se stesso, poi si inginocchiò al suo fianco e le circondò le spalle con le braccia.
“Non piangere...” prese a mormorarle fra i capelli. “Non piangere, amore mio...”
Com’era bello poterlo dire. Come suonava caldo, giusto e forte fra le labbra, come vino speziato. La strinse, per confortarla e per provare la vertigine di cedere almeno un po’ ai propri desideri. Il profumo della sua pelle era fresco e intenso: da tanto non lo sentiva più così da vicino. Per antiche associazioni, per quanto ormai fosse inutile e addirittura scomodo, gli diventò duro immediatamente, in maniera imbarazzante: sperò che lei non se ne accorgesse.
“Allora è vero,” mormorò fra i suoi capelli, mentre i singhiozzi di lei si calmavano. “Stai con lui.”
“Avrei dovuto dirtelo,” mormorò Oscar, alzando il capo per guardarlo in volto. Senza pensarci, sollevò una mano e la posò sulla cicatrice, in una carezza delicatissima, un gesto lieve che fece ad entrambi più male che bene, per l’intimità profonda che tradiva. Ti fa male?, avrebbe voluto chiedere. Ma sapeva già la risposta: mi fai più male tu. Si riscosse e volse la testa di lato per sottrarsi alle domande dell’occhio verde, fisso su di lei; gli spinse stancamente una mano contro la spalla per allontanarsi, allontanarlo, anche se le costava una fatica immensa.
“Sì, avresti dovuto dirmelo,” replicò André, lasciando cadere inerte le braccia e scostandosi con una smorfia. Si accorse che, dopo le sofferenze lancinanti delle settimane passate, ormai si sentiva esausto e deluso. Quasi distaccato. Che il dolore, la gelosia e il disinganno finalmente ce l’avessero fatta a prosciugarlo? “Credo che dovrei augurarti ogni felicità, ma sarebbe un auspicio ipocrita, non tanto perché non desideri vederti felice, quanto perché so che non potrai mai essere felice con lui.”
“Che dici! Perché dovrei essere infelice?” si difese lei, un’espressione chiusa sul viso rabbuiato. Gli diede le spalle e sfregò gli occhi con stizza per cancellare le tracce delle lacrime, prima di respirare a lungo e ristabilire le distanze. “Tu non hai il diritto di dirmi certe cose.”
“Ti amo, Oscar. Per quanto mi riguarda, ho quantomeno il diritto di dirti quello che penso,” replicò, sollevandosi in piedi per fronteggiarla.
A quel punto lei si alzò a sua volta e si parò davanti a lui con uno scatto, i pugni serrati e sollevati, il viso contratto in una maschera di disprezzo, senza rendersi contro che stava cadendo nel solito tranello di usare la furia per nascondere il panico.
“Il fatto che mi ami non ti dà diritti su di me!”
“Il fatto che tu non mi ami però ti ha dato il diritto di usarmi,” ribatté André, mentre una collera cieca cominciava a montare anche dentro di lui. Si sentiva tremare. Per calmarsi strinse una mano sullo stipite del camino fino a farsi sbiancare le nocche.
“Io non volevo usarti!”
“Ah. E cosa volevi, allora? Divertirti?” si informò, amaro.
Con terrore si scoprì a temere di poter essere in grado di piangere di rabbia davanti a lei.
“Volevo... volevo che mi aiutassi a diventare una donna,” sussurrò lei con onestà disarmata, d'improvviso smarrita. Abbassò e allentò i pugni, e la luce battagliera nel suo sguardo si spense. Dopo qualche istante riprese più sommessa, chinando gli occhi: “Eri stato il solo a dirmi di diventare una donna, anni fa. Non l’ho mai dimenticato...”
André non poteva reggere la semplicità di quel tono dimesso: la aggredì con sarcasmo, perché era meglio lo scontro, lo sdegno, piuttosto che la calma pacata della definitiva realtà delle cose: “Dovevo aiutarti a diventare una donna per lui, che ama la regina ed è un puttaniere?”
“Perché, tu non lo sei?” insorse Oscar, reagendo all’insulto.
“Io non sono stato con altre donne da quando sto con te.”
Lui sì, invece.
Il messaggio implicito la ferì, ma non intendeva esibire il fianco: “Da come sbandieri la tua fedeltà, la fai sembrare qualcosa di cui dovrei esserti grata! E poi non mi sembra che tu ti sia mai opposto a quel che abbiamo fatto assieme e che ora mi rinfacci!”
Oscar lo sentiva amareggiato, incollerito e totalmente ostile e ne era spaventata, anche se cercava di nasconderlo: in quel periodo, le novità si avvicendavano nella sua vita in un turbinio caotico di tentativi, esperimenti e incertezze, e André, osteggiandola, ora le stava rubando anche l’unica normalità che le restasse: il suo sostegno silenzioso ed incondizionato. Ti prego, appoggiami. Non ferirmi così. Non mi tradire...
Le parole con cui la spinse al muro, però, furono una condanna a freddo e senza possibilità di appello: “Fersen non ti ama, Oscar. Non ti amerà mai. Amerà sempre e solo la regina. Non posso credere che ti stia bene, questa situazione.”
Per quanto cercasse di sembrare convinto di quel che diceva, però, André parlava sospeso fra la speranza e la disperazione: una parte di lui credeva davvero in quel che sosteneva, un’altra avrebbe voluto crederci, un’altra ancora iniziava a dubitare. Perché Fersen non avrebbe dovuto amarla, in fondo? Com’era possibile non innamorarsi di lei? Forse l’avrebbe anche saputa rendere felice. Lui credeva di sapere tutto di loro due ed era convinto che, nel profondo, Oscar in realtà amasse lui... e allora perché non se n’era ancora resa conto? Forse si era sempre e solo illuso, forse non aveva capito nulla...
La verità era che parlava così solo per ferirla, perché era disperato. Le scrutava il viso raggelato dalla paura e dal dolore e capiva di farle del male, e gli piaceva. Non sapeva perché lo facesse, sapeva soltanto che in questo momento non riusciva a farne a meno.
Forse non è amore, forse è veleno. Non so come, io l’ho bevuto anni fa, e cerco di convincere anche te a berlo per non morire da solo. Ma tu me lo sputi in faccia, o forse sei immune.
“Cosa ne sai di quel che prova lui?” si sforzò di ribattere Oscar, un po’ scossa, le mani che le tremavano. “Non pensi che le cose potrebbero essere cambiate? Mi ha detto che per lui non è solo un’avventura. Io non credo che stia mentendo.”
Se tu fai male a me, André, io posso farne a te.
André sentì qualcosa spezzarsi dentro di sé. Avrebbe voluto aggredirla, farle rimangiare quelle parole, non è vero, ti prende in giro, non può amarti!, ma la vulnerabilità che scorse sul suo volto lo fermò. Capì che, se avesse insistito su quella strada, l’avrebbe definitivamente distrutta, e non voleva. Farle male gli faceva terribilmente male, oltre che perversamente bene, e più insisteva, più si feriva a sua volta: non voleva veramente colpirla. Ma immaginare che Fersen potesse provare qualcosa per lei, che la loro storia sarebbe stata duratura e avrebbe avuto un futuro, gli fece sentire un fiotto di freddo terribile al ventre, mancare il respiro. Per un po’ non riuscì a rispondere nulla, non capì nemmeno da dove fosse arrivato il colpo.
“E quand’è che il vostro fidanzamento diventerà di pubblico dominio, se è lecito?” chiese con voce strangolata quando riuscì a recuperare il fiato.
“Non ne abbiamo ancora parlato,” rispose lei, con un tono che avrebbe potuto intenerirlo da quanto era insicuro. “Abbiamo deciso di procedere con calma. Devo... ancora capire cosa fare della mia vita,” concluse in un mormorio flebile, quasi supplichevole.
Aiutami a capirlo, ti prego, André. Parliamone assieme.
“Vuoi sposarlo? Vuoi andare in Svezia, vivere come una donna e fare... figli per lui? E pensi che sia così facile cancellare tutta la tua vita, in un unico colpo di spugna? Ti disprezzi fino a questo punto? Lui non vale tanto…”
Cosa voglio fare? Voglio davvero sposarlo, essere sua moglie, diventare madre dei suoi figli? Vivere come una donna, alla luce del sole, in tutto e per tutto? Non lo sapeva, non se lo era chiesto. Non ne avevano parlato. Lei non aveva neanche voglia di parlarne. Capiva che le cose non avrebbero potuto andare avanti così com’erano in eterno, stava anche male per la clandestinità e le difficoltà, per l’incertezza dovuta a quella situazione indistinta, ma non sapeva come questa sarebbe potuta cambiare. Forse non la voleva cambiare. Amava Fersen, ma avrebbe rinunciato alla propria vita per lui? Avrebbe accettato di diventare qualcosa che non aveva mai immaginato, men che meno desiderato, per lui? Se provava a pensarci, un senso di panico la invadeva. Davvero lo voleva? Era questo che si aspettava Fersen?
“Non siamo arrivati a questo,” stornò, cercando di scacciare i pensieri angoscianti. “È troppo presto. Per ora abbiamo solo capito che… vogliamo fare sul serio.”
Era quasi commovente, quella sua nuova vulnerabilità da donna innamorata. Si vedeva che era felice, per quanto cercasse di nasconderlo per riguardo a lui: le splendevano gli occhi e una corrente di fermento le serpeggiava sotto la pelle; sembrava più fresca, più viva e fragile. Forse, con la tipica magnanimità delle persone felici, le dispiaceva pure per lui, per il suo vecchio fratello amico amante, e avrebbe sinceramente voluto che lui fosse felice, in qualche modo…
C’era da ridere.
Si lasciò cadere sulla poltrona, le mani fra i capelli, i gomiti sulle ginocchia.
Lo sguardo fisso a terra non vedeva nulla.
Cosa faccio adesso? Cosa?
Una cosa da fare forse ci sarebbe, ed è una delle poche cose a cui riesco a sopportare di pensare. Penso a come sarebbe andare da quel bastardo e fracassargli la faccia, levargli quell’espressione sicura e soddisfatta, un pugno dopo l’altro, lui che lasciava cadere saluti verso di me dalle altezze siderali del suo lignaggio incontaminato, lui che faceva mostra di ricordarsi di rivolgermi la parola con magnanimità, per ostentare davanti a Oscar quanto fosse aperto, e ogni volta era come se lanciasse ossi al cane. La rabbia mi ricompatta, mi riempie e ridireziona: riesco a sentire l’urto delle nocche sulle ossa, il contraccolpo senza fiato degli urti e delle spinte, e quasi lo assaporo, il sangue che mi scende in gola. Ma è una fantasia che si infrange appena mi immagino di aprire bocca. Cosa potrei dirgli?
“Lei è mia, lasciala stare.”
“Lei sta con me, qui per te non c’è spazio.”
“Vattene, lei non ti vuole.”
Cazzate, quante cazzate. E, sinceramente, mi ripugna anche solo l’idea di andare da lui e parlargli alle spalle di lei, a sua insaputa, come se io e lui avessimo qualcosa da dirci, come se fosse possibile anche solo pensare di prescindere da Oscar, da quello che lei vuole, da quello che lei prova. Cosa voglio dimostrare? Io e lui non contiamo nulla.
È lei che sceglie, e lei ha scelto.
Che senso ha spaccare la faccia a uno stronzo che non mi è mai stato amico e non mi deve niente?
“Lui sa di noi due?” chiese piano, senza quasi muovere le labbra.
Lei esitò un attimo – chissà, forse avrebbe voluto correggerlo, forse avrebbe voluto dirgli che non c’era un noi due –, però poi prevalse l’onestà, la desolazione: “Sì, lo sa.”
Gli sfuggì una breve risata sarcastica. Improvvisamente, l’idea di fare il cavernicolo e di distruggere il bastardo di cazzotti riacquistava la sua attrattiva.
“E così lo sa. E che cosa sa? Sa che siamo andati a letto, sa che abbiamo passato una vita assieme, sa che ti amo? Sì, certo che lo sa… Adesso che ci ripenso, è ovvio che lo sappia. E comunque viene qui e mi calpesta, si prende quello che vuole senza sprecare una remora, un rimorso, e non mi considera neppure degno di essere un rivale. Neanche mi vede. Non ti fa paura stare con una persona del genere, Oscar?”
“Cosa ne sai di quello che prova lui?” lo difese lei con una foga che gli fece male. Ormai era la sua donna, certo: non poteva che difenderlo. E avrebbe dato la vita per la sua, come aveva fatto con lui? “Io so che gli dispiace per te, che non avrebbe voluto…”
“Gli dispiace! Certo, immagino che si strugga…! Ma in fondo è vero, perché mai dovrebbe importargli? Io non conto nulla. Se non importa a te perché dovrebbe importare a lui?”
“Ma cos’è tutto questo, un ragionamento da ius primae noctis?” si stupì lei debolmente. “Dato che sono andata a letto con te nessun altro può avermi? E non conta quello che voglio io?”
Lo so. Cerco qualcuno con cui prendermela, lui, tu, non importa, pur di non pensare che alla fine è molto più semplice: vuoi lui e non vuoi me, e che razza di colpa c’è in questo? Ma com’è possibile?, mi chiedo. Io ti vedo quando sei con me, sento come siamo quando siamo assieme, e sento come sei tu. Ti conosco da sempre. Io sento che mi ami, Oscar, lo so. È qualcosa di naturale, di fisico, di… normale: siamo noi. Ma tu mi dici che non è così e com’è possibile? Sono solo fantasie, le mie, non ho mai capito nulla, davvero non ti ho mai conosciuta, ho solo sognato? Sono uno di quei pazzi che si creano un mondo nella loro testa e non sanno vedere la realtà? E mi sembra davvero di essere pazzo, a immaginare che niente di quello che penso di te sia vero, a rendermi conto che non riesco più a leggerti dentro, che non ti ho mai letta, che quello che vedo non sei tu, sono solo illusioni, e che in quello che sento di noi non c’è niente di reale. Se sono pazzo e tu non sei tu, noi non siamo noi, se noi non esistiamo come ci sento, come ci ho sempre vissuti, che senso ha vivere?
“Va bene. Mi hai detto tutto quello che volevo sapere, Oscar,” affermò stanco, alzandosi per andarsene, e nelle sue parole c’era come una risoluzione sinistra.
“André, no, aspetta!” Senza pensarci lei lo seguì, gli afferrò la camicia con entrambe le mani, strattonandolo per trattenerlo. “Ti prego, cosa pensi di fare adesso...”
“Ti amo, Oscar,” replicò con ostinazione, cercando di allontanarsi, il viso girato di lato per non doverla guardare. “Non puoi pretendere che voglia vivere una vita in cui tu stai con lui!”
“André, per favore, non dire sciocchezze...” lo implorava e lo scuoteva, senza pensare a quel che diceva, offuscata dalla minaccia sottesa a quelle parole. “Se mi lasci, se fai qualche pazzia, non so cosa farò... ho bisogno di te, lo sai, non abbandonarmi così...”
Perché vuoi demolire tutta la mia gioia, cosa te ne viene?!
Lui si voltò di scatto e le afferrò i polsi per bloccarla. Quando lei si fermò, le sollevò il mento con una mano e la costrinse a fissarlo negli occhi, prima di sussurrare: “Ma non ti ascolti, Oscar? Ripensa a quel che mi hai appena detto e chiediti: le stesse cose le ripeteresti a lui?”
Basta. Tutto questo non ha senso, è una follia!
“André, io ti voglio bene,” dichiarò Oscar con fermezza, lo sguardo piantato nel suo, i polsi fragili abbandonati con fiducia fra le sue mani robuste. “Ma sono innamorata di lui. Mi dispiace, ma è così. E devi accettarlo. Vorrei tanto che non provassi questo per me... Sono sicura che, se solo lo volessi, potresti trovare un’altra con cui essere felice...”
Questo lo fece inferocire: la spintonò all’indietro con uno scatto, mandandola a rovesciarsi contro la poltrona, prima di afferrare una bottiglia di liquore appoggiata sulla mensola del caminetto e gettarla fra le fiamme. Il vetro esplose in frantumi, il fuoco avvampò in una fiammata violenta, strappandole un breve grido. André si lasciò crollare in ginocchio, chino in avanti, i pugni serrati a lottare contro il dolore, mentre una sequela di insulti gli si rovesciava fra i denti stretti: “Cazzo, cazzo, cazzo, oh Dio cazzo, perché, perché mi tratti così, come puoi farmi questo, Dio, Dio...” ansimò a lungo, i lineamenti contratti, come se qualcuno gli stesse rovistando una ferita con la punta di una freccia, prima di prendere un respiro profondo, chiudere gli occhi e calmarsi. “Scusami, Oscar. Perdonami, ti prego. Picchiami, se vuoi... non volevo farti male...”
“André, io...” mormorò lei ancora semidistesa sulla poltrona, una mano sulla bocca a nascondere il tremito delle labbra. “André, no...!”
Lui stava piangendo.
“In fondo, Oscar, forse lo ami perché sei come lui...” lo sentì gemere in un lamento abbandonato, gli occhi socchiusi sul nulla, appannati dalle lacrime. “Hai giocato con me come lui sta giocando con te. Dio, è stato davvero soltanto un gioco per te! Non avrei mai pensato che tu fossi cinica fino a questo punto... Dio, Dio, sto diventando pazzo… non ascoltarmi, Oscar, ti prego…”
Sì, forse è stato una specie di gioco per me. Ma un gioco può essere qualcosa di molto serio: devi fidarti che il tuo avversario rispetti le regole, che non bari e non ti inganni, che non cerchi di infortunarti. Io non lo avrei fatto con nessun altro. Ero in buona fede, non lo dico per giustificarmi: credevo sinceramente che ti stesse bene. Che fossimo compagni in questo, come nei nostri passatempi da bambini o nelle missioni per conto della corona. In questa scoperta ti ho sentito vicino come non accadeva da anni, e mi sono illusa, grazie a te, che potesse essere bello, non umiliante e non svilente, essere una donna; che avrei potuto trovare soddisfazione e sicurezza in quei gesti tanto intimi e fragili, in quel ruolo di femmina, assolutamente proibito per me, che tu mi hai insegnato. Ho creduto di poter diventare quel che non sono mai stata pur rimanendo me stessa: tu mi facevi sentire che le due cose potevano non escludersi. Dimmelo tu se è stato soltanto un gioco per me, amico mio, fratello mio, mio amante. Sì, forse in un certo senso lo è stato. Non avrei mai pensato che per te invece fosse la realtà, e questo errore di valutazione lo pagherò senza sconti.
Il silenzio si trascinò greve per alcuni minuti.
“Ti prego, André, non possiamo rimanere amici?” trovò il coraggio di chiedergli a un tratto con impeto fioco, sentendo che tutto era cambiato e iniziando a piangere a sua volta.
Perché deve sembrare una richiesta ipocrita se lo voglio davvero?
Aveva bisogno del suo appoggio come ne aveva sempre avuto: André era l’unica persona che avesse mai ascoltato e che l’avesse mai ascoltata, e adesso lo stava perdendo. Sarebbe rimasta sola. Uno sbaglio andava pagato a un così alto prezzo? Possibile che non potessero tornare indietro, all'amicizia? O, una volta compiuto l’incesto, restava solo l’orrore di guardarsi e scoprirsi nudi, come dopo il peccato originale?
Lui si alzò a fatica e si diresse vacillando verso la porta.
“Noi non siamo mai stati soltanto amici, Oscar. Pensa al nostro rapporto di una vita, prova a immaginarti al di fuori di noi. Tu riesci a vedere qualcosa? Io no. Questo è amore.”
No. No, non è amore: Fersen è amore, non... questo. Questo è... Dio, è qualcosa di troppo strano. È qualcosa che è al contempo un’abitudine tanto usurata da essere invisibile, una simbiosi indispensabile quando manca, e un soffocamento.
“Non preoccuparti. Quando ti farà del male, saprai dove trovarmi,” le mormorò prima di uscire. “Io non me ne vado. Sarò dove sono sempre stato.”
Fine VI parte
Sara mail to ultimegocce@hotmail.com
Continua
Sara, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2016
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