Inside -

Essere una donna

XII

Warning!!!

 

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Non era detto che sarebbero stati infelici, lei e Fersen, come André sosteneva e come lei stessa temeva. Dentro di sé, a volte trovava la forza o l’incoscienza di sperare almeno in sprazzi di un futuro appagante e sereno, in cui anche una come lei avrebbe saputo trovare la pace e non avrebbe più dovuto rendere conto a nessuno.

Ricominciamo daccapo, le aveva detto Hans.

Ma se avesse scelto Fersen dopo quel che era successo, con i dubbi che aveva senza la possibilità di sottoporli a verifica, non sarebbe stata capace di andare avanti: sarebbe rimasta spezzata in due, una parte di sé per sempre legata al passato, a domandarsi cosa sarebbe potuto accadere se avesse deciso altrimenti, a idealizzare, rimpiangere e percorrere i contorni di quel vuoto. Come avrebbe potuto ricominciare, così?

Non è scegliere fra due persone, ma fra due vite.

Vivere venendo accettata e approvata dal mio mondo, amata da mio padre, capita dai miei simili, col lavoro che mi realizza e lo stile di vita che mi è familiare, oppure nascosta, fuggendo tutto e tutti, reietta, forse anche pezzente, ma amata dall’unica persona che mi conosce e che conta per me? Perché è vero, nessuno conterà mai come lui.

La sensazione agghiacciante che due felicità dipendessero da lei assieme alla propria stessa esistenza: non riusciva a relativizzare, a pensare che ci sarebbe potuto essere altro per lei, nel futuro, che in fondo era ancora giovane, aveva una vita davanti, e come lei loro. Le sembrava che quello che stava succedendo fosse un’apocalisse. Non aveva fiducia nella propria capacità di palingenesi, nelle proprie possibilità di rigenerarsi, e per quanto affermasse il contrario – chissà, forse proprio per provare a convincersene –, sapeva che André era condannato a un’esistenza di amore impossibile per lei, ma compativa anche Fersen, che solo grazie alla loro storia aveva trovato il coraggio di sperare di nuovo dopo anni di passione frustrata per un’altra: qualsiasi decisione avesse preso, uno dei due ne sarebbe uscito segnato, e lei con lui.

Pensava, si macerava di pensieri. E non riusciva ad abbandonarsi all’amore di nessuno. Non sapeva cosa volesse dire tremare d’amore come una donna che si sente desiderata dal suo uomo. Non sapeva la felicità. Si frenava. La fuggiva, anche se la voleva. Ne aveva paura. E a questo punto le cose erano diventate così complicate, le aveva talmente rovinate che non credeva che avrebbe più potuto raggiungerla. Nessuno dei due avrebbe saputo dargliela. Chi scegliere? Come scegliere? E poi che cos’era lei, una parassita, a pretendere di ricevere felicità dagli altri? Chi avrebbe saputo rendere felice, lei?

Non provava più niente di bello, solo impulsi brutti: rabbia, gelosia, rancore, una paura che rasentava il panico. Un senso di colpa agghiacciante per la sofferenza e l’ansia che stava provocando a entrambi. A volte, la sera, da sola nella sua stanza buia, trascorreva ore ad idealizzare la propria passata innocenza, a ricordare il tempo in cui era ancora intera e non si conosceva: l’amore puro e irrealizzato per Fersen, l’affetto inespresso e incondizionato per André. Era tutto semplice, ben distinto e pulito…

Ora non capiva più quello che voleva, quello che provava: le sembrava che tutto fosse divorato dal fango di quella che aveva scoperto essere la sua vera anima. Che razza di donna era? Una vigliacca che aveva creduto di provare un amore disperato e romantico, ma era bastato un banale e prevedibile tradimento a spegnere una vampata che avrebbe dovuto essere eterna; una degenerata che si era scopata il fratello per brama di emancipazione e che poi se lo era riscopato per timore della solitudine; un’ingorda che non riusciva a rinunciare a nessuno dei due amanti, per quanto poco significassero per lei, perché aveva paura di rimanere a mani vuote o anche solo a mani mezze piene…

Sono una puttana. Merito di stare da sola.

 

“Credo che voi indoviniate il motivo per cui mi trovo qui, Oscar. Posso permettermi di chiamarvi Oscar, data la circostanza? Voi non sapete da quanto io desideri farlo.”

L’aveva fatto accomodare in salotto. Gli stava rivolgendo le spalle per non dover affrontare il suo sguardo, ardente di una sfumatura di emozione sommessa e intensa, che in qualche misura la faceva vergognare. Fino a quel momento era stato semplice ignorare o sminuire i suoi sentimenti, ma come riuscirci, adesso? Fissava ostinatamente il sole che tramontava dietro le chiome più alte degli alberi del parco, incendiando le nuvole e inondando di calore la stanza.

Odio questa situazione. Dover ascoltare quello che sta per dirmi, doverlo respingere. L’imbarazzo, le giustificazioni che seguiranno. Le inevitabili accuse. Mi è tutto talmente penoso…

“Potete certamente chiamarmi Oscar, capitano. Gli anni di amicizia che ci uniscono ve ne conferiscono ogni diritto. E, se mi è concesso esprimere un desiderio, mi auguro che voi procediate in questa conversazione tenendo bene a mente l’amicizia che ci lega e a cui io attribuisco tanta importanza, così da non rischiare di pronunciare parole che possano porla in pericolo.”

“Victor.”

“Come, scusate?” si voltò, stupita.

“Potete chiamarmi Victor,” confidò lui con un sorriso triste, osservando il calice di vino rosso che teneva in mano e di cui non aveva ancora assaggiato un sorso. “Ne trarrei grande piacere, madamigella, se acconsentiste a chiamarmi così.”

Non gli rispose. Non voleva incoraggiarlo in alcun modo.

Ci fu un lungo momento di penoso silenzio prima che Girodel prendesse un sospiro e cominciasse a esporre il motivo della sua visita, con un’espressione disillusa e una voce in cui permanevano tracce di speranza: “Io nutro dei sentimenti molto forti verso di voi, madamigella Oscar. Li nutro da anni. Non è un segreto. Ne ho già discusso con vostro padre, a cui ho reso manifesti i miei desideri e che si è astenuto dallo scoraggiare le mie speranze, rincuorandomi alquanto. Ma so bene che l’ultima parola spetta a voi, e non desidererei mai travalicare la vostra volontà: vi rispetto troppo per questo. Vi amo profondamente, Oscar. Posso sperare che un giorno acconsentiate a diventare mia moglie?”

Oscar chiuse gli occhi, stupendosi del dolore che sentì all’udire le frasi irreparabili. Come avrebbero potuto in futuro prescindere da questa scena?

Non avrebbe voluto fargli male, ma si rendeva conto che essere chiara e inequivocabile, almeno con lui, era la cosa migliore. Aveva già causato troppi danni con le proprie insicurezze. Inoltre, sentiva dentro di sé un accenno di rabbia sottile, graffiante, che la aizzava inesplicabilmente verso la crudeltà.

Come può anche solo presumere che possa dirgli di sì? Non vede quanto siamo distanti, non ha mai capito niente di me? Come può pensare che io voglia unirmi a un uomo che ha preso ordini da me fino a ieri senza fiatare? Cosa credeva che ci fosse fra noi?

Sono stanca di venire importunata con queste assurdità.

“Io non vi amo, capitano, e sento dentro di me, con intima sicurezza, che non potrei mai amarvi. Mi dispiace. Dimenticatemi, vi prego. Dimenticatemi in fretta. Fatelo per voi, è la cosa migliore.”

Lo vide impallidire di colpo e stringere la coppa del bicchiere fino a frantumarlo fra le dita.

Non poté non arrossire di fronte a quella brutalità. Fersen non avrebbe reagito così: non si era mai comportato in maniera scomposta o sopra le righe con lei, mai era venuto meno alla sua perfetta e impeccabile cortesia di gentiluomo. Eppure, pur nell’imbarazzo in cui l’aveva gettata la situazione, Oscar non riuscì a impedirsi di chiosare malignamente: dunque è così che reagisce un uomo sincero…

“Vi ringrazio per la vostra onestà,” le rispose Girodel levandosi in piedi, le dita contratte ricoperte di vino e sangue, il viso livido. “Posso almeno chiedervi di essere altrettanto onesta nel rivelarmi se vi è qualcun altro a cui arriderà una risposta più favorevole?”

“Non credo siano confidenze a cui abbiate il diritto di accedere,” stornò lei con freddezza, indietreggiando di un passo per aumentare la distanza fra sé e lui.

Vi prego, andatevene ora. Non attaccatemi anche voi. Non degeneriamo in una scenata che mi farebbe orrore.

“A corte si vocifera che il conte di Fersen vi abbia rivolto una proposta di matrimonio e che sia ancora in attesa di una risposta. Si dice che lui non sia stato respinto, sorte che invece, sciaguratamente, è toccata a me,” insistette Girodel, pressando per una replica.

Lei non ribatté.

“Non vorrete farmi credere che state pensando di acconsentire a lui!” esplose Victor in un impeto di indignazione, facendola sobbalzare. “Non lo ammetto, no, non con lui! Preferirei che vi deste a quel plebeo, che rotolaste assieme a lui nel fieno delle sue stalle, piuttosto che…!”

“Come vi permettete di rivolgermi a me con questo tono!” replicò sconvolta. Si accorse di tremare, le mani ghiacciate. C’è qualcuno che non l’ha capito…? “Credo che vi stiate dimenticando di voi stesso, capitano! Andatevene, se non volete che vi faccia mettere alla porta dai miei servi. Perché, lo giuro su Dio, io non mi azzarderei a toccarvi neppure con la punta della mia spada…!”

 “Non siete diversa dalle altre donne,” mormorò lui con disprezzo. “Ero convinto che foste diversa, ma se cedete alle malie di un uomo come quello siete solo una donna, ed una donna della peggiore specie…!”

“Dal momento che sono solo una donna, non vedo perché dovreste abbassarvi tanto!” replicò, pallida. “Si sa che la misoginia è ancor oggi considerata un vanto, ma si tratta di una qualità che, lo confesso, speravo non vi appartenesse. Che dire, credo che questo renderà più gustose le nostre future interazioni professionali. E adesso addio, capitano!”

Giunto alla porta, la mano già posata sulla maniglia, Girodel parve ripensarci. Si voltò, rigido, prima di mormorare: “Perdonatemi. Non so cosa sto dicendo, non mi riconosco. Ho perso… ogni contegno. Ma non posso sopportare l’idea che sposiate il conte di Fersen, che voi serviate da paravento per... Permettetemi di mettervi in guardia, dal momento che non credo vi saranno altri che oseranno farlo: è tutto vero, quello che si dice di lui. Una persona simile non può rendervi felice. Vi prego, dimostrate più rispetto per voi stessa.” 

“Non è come pensate voi,” trovò la forza di replicare, le labbra che tremavano.

“Lo spero davvero. Addio, colonnello.”

 

Quando Fersen le fece recapitare un biglietto in cui le chiedeva di vedersi, ne fu amaramente sorpresa, forse anche disingannata: pensava che la scelta della data per il loro prossimo incontro spettasse a lei e che lui avrebbe rispettato il suo bisogno di riflessione.

Le mani le tremavano leggermente, in modo quasi impercettibile, come le capitava quando stringeva i pugni con rabbia, eppure era seduta con le braccia abbandonate in grembo e la postura rilassata, mentre leggeva e rileggeva il breve messaggio. 

Se non vi dispiace, verrei da voi stasera.

Dobbiamo parlare.

F.

Non era trascorsa nemmeno una settimana dall’ultimo incontro: non si sentiva pronta.

Avrebbe voluto illudersi di non avere ancora deciso quale risposta opporre alla sua offerta di matrimonio, ma non era così: la sapeva, la risposta; semplicemente, non aveva ancora voglia di darla. Conoscendosi, fosse dipeso da lei, lo avrebbe tenuto sulla corda per sempre. Procrastinare, procrastinare, procrastinare. Ma era arrivato il momento di leggersi dentro e di accettare quello che voleva. Di scegliere, e sbagliare.

Era molto semplice: lui l’aveva fatta e l’avrebbe fatta soffrire, era troppo diverso da lei, non sarebbe mai stata felice con lui. Ma non poteva neanche pensare di lasciarlo andare. Non perché lo amasse. Non sapeva neanche lei perché. Era come se alla radice di tutto ci fosse una malattia, una paura, un chiodo insano: soltanto in lui poteva credere di trovare un rifugio, una via di fuga da se stessa e dalla propria vita che facesse quadrare il cerchio, che fosse comprensibile e accettabile a tutti, lei compresa.

 

“Il conte di Fersen ti aspetta nel salottino.”

“Va bene. Ti ringrazio di avermi avvisato, André.”

“Oscar, ti prego, non farlo.”

“André…”

“Ti rovinerai la vita. Non sai quanto disperatamente vorrai tornare indietro per poter cambiare le cose. Rimpiangerai per sempre questo momento, con tutta te stessa.”

“André, per favore.”

“E di noi cosa intendi farne, ci hai pensato?”

No. Non voglio pensarci.

“No, vero? E non vuoi pensarci.”

Non dirmi quello che penso. Non farmi capire che hai capito tutto. Perché devi sempre leggermi dentro, perché non posso mai nasconderti lo schifo che sono?

“Dovrò decidere io per tutti e due. Come sempre, in un certo senso.”

No. No…

“Ma questa volta sarà diverso perché non mi stai lasciando scelta. Questa volta non rimarrò, Oscar. Non me ne offri la possibilità. Non ci sarà posto per me nella tua vita.”

Perché neanche se serri gli occhi riesci a vedere il buio? È impossibile scomparire?

“Per favore, André, lasciami stare.”

Mi dispiace. Mi dispiace tanto…

 

Ti prego, fermami. Non lasciarmelo fare…

 

Entrambi erano nervosi e stranamente silenziosi.

Ormai le giornate erano lunghe e calde; dal momento che mancava più di un’ora al tramonto, Oscar aveva fatto accomodare l’ospite in terrazza per poi sedersi accanto a lui, alla sua destra. Non aveva idea di come introdurre il discorso e lui non sembrava propenso ad aiutarla: pallido e teso, Fersen si era chiuso in una laconicità quasi acre e a dir poco insolita per lui. Oscar comprendeva la sua ansia, ma accorgersi che lui stava rifiutando di incontrare il suo sguardo la fece rabbrividire.

La tensione era spaventosa.

Cautamente allungò una mano per accarezzare la sua, cercando nel contatto una rassicurazione. Dopo una breve esitazione, sempre evitando di guardarla, Fersen sciolse il pugno contratto e fece scorrere con delicatezza le dita fra le sue, in un contatto di struggente dolcezza.  

Rincuorata, Oscar trovò il coraggio di affrontare il discorso, seppur alla lontana: “Mi hai scritto che dovevamo parlare.”

“Sì, Oscar,” le rispose semplicemente, con voce alterata, troppo precipitosa e esitante, come se non sapesse dove andare a parare e procedesse a sbandate. Si rifugiò un attimo nel silenzio per poi riattaccare in fretta, quasi temesse di vedersi rubare il diritto di parola: “Dobbiamo parlare. Ti dispiace se inizio io?”

“No, fai pure,” lo incoraggiò, turbata.

C’è qualcosa che non va.

“Ho riflettuto su di noi in questi ultimi giorni. Già da prima ci pensavo, se devo essere sincero. Ma in questi giorni… ho visto le cose diversamente, con più chiarezza. Oscar, questa cosa fra di noi non può andare avanti. Io non ce la faccio, è tutto sbagliato. Credo che sia meglio interrompere tutto qui e non vedersi per qualche tempo. Naturalmente ti voglio bene e ci tengo a non perdere la tua amicizia, ma è meglio che per un po’ non ci siano contatti: converrai che è necessario a entrambi.”

Non riusciva a crederci. Non capiva.

Non era vero. Doveva essere solo uno squallido espediente per manovrarla, spaventarla e vendicarsi. Gli avrebbe fatto cambiare idea, era solo un bluff. Non era vero…

Mancava l’aria.

“Perché?” domandò soltanto, la voce esile. “Cosa significa questo?”

“Ho avuto modo di riflettere,” ripeté lui, testardo, sempre sfuggendo il suo sguardo. “Io non mi sento felice, Oscar. Questa situazione non mi fa stare bene. Ci ho provato, ho sperato, credevo che potesse funzionare… ho sbagliato. Ho capito che, se non posso sposare la donna che amo, allora non voglio sposarne nessuna. Non sarebbe giusto nei confronti di Antonietta né nei miei. Io non posso dimenticarla, non ce la faccio e nemmeno lo voglio. Abbiamo sbagliato, Oscar.”

Non sarebbe giusto nei suoi confronti né nei tuoi. E io? A me hai pensato?

“Come fai a dirmi questo?” articolò a fatica, stordita per l’incredulità. “Tu una settimana fa mi hai chiesto di sposarmi!”

Mi hai preso la mano, poco fa. Hai avuto il coraggio di accarezzarmi la mano con dolcezza, come farebbe un amante, sapendo che avrei frainteso il gesto, quando stavi per dirmi che i miei sentimenti sono meno importanti di quelli di un cane per te!

“Lo so, Oscar. Mi rendo conto che non avrei dovuto, mi dispiace,” si scusò, come se fosse stata una trascuratezza da nulla, un ritardo a un ricevimento o una mancata risposta a un biglietto. “Non rendermi le cose più difficili, ti prego…”

“Non dovrei renderti le cose più difficili?! Tu vuoi lasciarmi…!” proruppe sconvolta, senza riuscire a frenarsi. “Come se quello che c’è stato fra noi non contasse nulla per te! Allora mi hai…”

Mi hai sempre preso in giro. Mi hai sempre e solo mentito. Ma non riuscì a dirlo: si sentiva disperatamente umiliata da quelle parole, dalla situazione che rivelavano. Si rese conto che avrebbe voluto piangere, aggrapparsi al suo braccio e supplicarlo come una donna abbandonata, ma non poteva farlo. Non se lo sarebbe permesso. Eppure forse sarebbe stata l’unica cosa utile.

Come sempre il suo carattere la inchiodava, condannandola.

“Comunque non ti lascio da sola,” mormorò Fersen quasi a sua discolpa, decidendosi finalmente a guardarla, e lei si accorse che nei suoi occhi non c’era dolore, né tantomeno rimorso, ma semplice e intenso stupore per l’irrazionalità con cui lei stava reagendo. “Tu non sei mai stata sola.”

“E questo cosa c’entra adesso? Non osare nominarlo…” lo minacciò, anche se le lacrime che tremavano nella sua voce resero meno efficace l’intimidazione. “Tu non sai niente di me e lui… credi che io e lui potremo mai stare assieme?”

“Perché, tu pensi che potrò mai stare assieme a lei?” le ricordò, sprezzante, tagliente. “Almeno per te una storia è possibile… in qualche modo…”

“E non ti chiedi se è quello che voglio veramente? Non pensi che io possa volere altro… non potrò mai vivere alla luce del sole, te ne rendi conto? Avere una vita… normale… sposarmi, avere dei figli…” confessò disperata, mentre con orrore sentì le lacrime straripare e bagnarle le guance. “Mio padre non lo accetterebbe mai, mia madre non lo accetterebbe, nessuno lo accetterebbe! Nessuno lo capirebbe. Dovrò sempre nascondermi, sempre vivere nella paura, sentirmi diversa, e accontentarmi di quello che sono…”

Ma cosa sto dicendo? È per questo che non sopporto di lasciarlo? Voglio usarlo per ottenere qualcosa che mi vergogno perfino di poter volere? Ma io non le voglio, queste cose… non le ho mai volute, non dovrei volerle! Sono disposta perfino a mentire pur di tenerlo con me?

“Se quel che vuoi è un uomo del tuo stesso ceto sociale da poter sposare e che ti conferisca rispettabilità, io non sono certo l’unico con le credenziali,” lo udì affermare con una sfumatura di disprezzo. “Direi che sei addirittura circondata da simili elementi. Perché allora non accetti la proposta del capitano Girodel? Credo che faccia molto più al caso tuo di quanto possa sperare io: perlomeno, è abbastanza sciocco da credere di essere alla tua altezza e da non accorgersi che, qualsiasi cosa lui faccia o pensi, ci sarà sempre un altro che saprebbe farla meglio, per te.”

“Ma io non voglio Girodel… non amo Girodel…” protestò debolmente lei, smarrita. “Hans, non lasciarmi, ti prego. Noi siamo stati bene insieme. Io ti…” bisbigliò con esitazione, accorgendosi stupita, all’ultimo, di non riuscire nemmeno a dirlo.

Fin dove sono disposta ad abbassarmi pur di non lasciarlo andare via? Perché ho così tanta paura di perderlo? Non mi sono mai… umiliata tanto…

Questa non sono io, non posso essere io…

“Perché, tu pensi davvero di amare me? Io non credo proprio,” la interruppe il conte con tono amaro, come beffardo. “Noi non ci amiamo, Oscar. Al massimo ci piacciamo, e possiamo dire di esserci utili. Ma smettiamola di prenderci in giro.”

“Perché dici questo, Hans?” domandò piano ed era talmente stupita, si sentiva a tal punto tradita e tutto era diventato così irreale che la voce le uscì piatta, lontana. “Allora tu non mi ami. Non è mai stato vero niente…”

Mi ha sempre mentito. In fondo tutti potrebbero mentire su tutto. Perché mai bisognerebbe credere a qualcuno? L’importanza della verità è una cosa che si cerca di inculcare ai bambini per poterli controllare meglio, e io non sono mai cresciuta.

“Io non credo che tu mi ami veramente, Oscar,” lo sentì affermare, stavolta a disagio.

“Tu non sai niente di me,” bisbigliò con desolante certezza. “Non hai mai capito un bel nulla.”

E io ho ci capito ancora meno.

Non avrebbe dovuto andare così. Avevo la situazione sotto controllo. Ero io quella che doveva scegliere, e gli altri quelli che dovevano soffrire a una mia parola, a un mio cenno. Al massimo, io potevo nobilmente condividere la loro sofferenza, sentendomi in colpa per l’importanza che avevo acquisito per loro senza volerlo. Non avevo previsto questo: che potessero avere una loro volontà più forte della mia, e una dignità che a me manca.

Forse ha ragione lui: probabilmente non lo amo e chissà se l’ho mai amato. Chissà se sono capace di amare. O forse mi dico che non lo amo solo perché è troppa l’umiliazione di essere quella che viene lasciata. Ma una cosa è certa: so soffrire, e l’unica cosa che sa veramente farmi soffrire è il mio orgoglio quando va a pezzi. E lui, da quando è iniziato tutto questo, non ha fatto altro che divertirsi a prendermelo e sbatterlo nel fango, con virtuosismi quasi ammirevoli.

“Io ti voglio davvero bene, Oscar. So che ora non ti sembra, ma è così: ti stimo, ti ammiro, e vorrei che tu fossi felice. Noi non potremmo essere felici assieme: siamo troppo consapevoli di come stanno le cose per poter essere ipocriti e crederlo. Pensarlo anche solo per un breve periodo è stato un errore che non avremmo dovuto commettere. Io avrò sempre lei nella mente e nel cuore. Se quello che vuoi veramente è vivere come una donna normale, anche se io non lo avrei mai creduto, ci sono molti altri uomini con cui potresti farlo. E non sarai mai sola: non sai quante persone vorrebbero essere amate e capite come lui ti capisce e ti ama. Sa sempre quello che provi, quello che ti è necessario, ti capisce nel profondo, ti ama e desidera disperatamente, è perfetto, capisci, è l’uomo perfetto per te, e io non potrei mai sognare di misurarmi…”

Se si sente in dovere di cercare di consolarmi, allora davvero non gliene frega nulla di me e io sono scesa troppo in basso davanti a lui per poter più sopportare di guardarlo in faccia senza desiderare di cavargli gli occhi.

“Andatevene da casa mia, Fersen, e non rimetteteci più piede. Per favore.” 

 

 

Fine XII parte

Sara mail to ultimegocce@hotmail.com


 

Continua

 

Sara, pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2016

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