Inside -
Essere una donna
XI
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La curva dei glutei, i muscoli guizzanti della sua schiena, le gambe dritte e robuste: cercava di toccare tutto quasi in contemporanea, le mani spalancate, avida. In ogni bacio e ogni amplesso c’erano la frenesia e la febbre dell’addio, la disperazione di dover uccidere qualcosa che le mordeva il cuore. Gli leccava il collo e si cibava delle sue espressioni di sofferenza e godimento, della sua gelosia, della disperazione del suo animo per farsi male con il suo male, per punirsi di non potersi permettere di averlo, di tenerlo ancora, così, fra le gambe, per un attimo rimase immobile sopra di lui, a serrarlo e sentirlo, a guardarlo per farsi guardare, a chiedersi cosa si stessero dicendo i loro occhi, prima di sbilanciarsi e cadere nella frenesia, fitte da quanto era duro e spasimi per le mani sui seni, fra i capelli, la rabbia, la lingua nella bocca, quelle spinte indecise, erratiche, a volte violente, esplosive, altre tenere, adoranti, non fermarti, non lasciarmi andare, non lasciarmi sola, i gemiti di febbre, il sudore che li copriva, ti amo Oscar, lui la conosceva, la amava davvero, solo lui, lui c’era da sempre, lui era l’unico che...
Dovevano essere le quattro e mezza del mattino: fuori iniziava appena ad albeggiare in uno schiarirsi inconsistente e lattiginoso delle cose, i primi uccelli facevano sentire i loro gorgheggi, ma il palazzo era ancora silenzioso. Ormai questo stadio di transizione le era familiare: avrebbe saputo profetizzare l’ora dall’accavallarsi dei suoni della natura e dal progredire delle ombre che si addensavano e dilatavano lungo i mobili, camminando alacri attraverso il pavimento.
Erano stesi l’uno accanto all’altra, sul letto di lei, ma nessuno dei due pareva aver fretta di muoversi. Oscar aveva già dormito un paio d’ore, per cui si trovava in uno strano stato di ottundimento nervoso dei sensi, quello di chi avrebbe volentieri dormito ancora un po’ ma aveva racimolato abbastanza energie per resistere alla tentazione. André, dal canto suo, non pareva avere affatto sonno e la fissava con concentrazione, nudo accanto a lei, puntellato su un gomito per reggere la testa con una mano.
“Non riesco a capirti,” decretò dopo un po’.
Lei sorrise appena, gli occhi chiusi, e sollevò un braccio per rifilargli alla cieca una carezza, sospirando: “Nel caso in cui riuscissi nell’impresa saresti pregato di spiegarmi cosa hai capito: ti ringrazierei.”
“Pensa che una volta ero convinto di comprenderti alla perfezione,” sospirò André, ributtandosi supino sulla schiena. “Anzi, ero sicuro di sapere tutto di te.”
“E allora vai, spiega. Su, sentiamo. Male non può fare…”
“Ne sei sicura?” la provocò, e lei percepì il sorriso ironico senza bisogno di vederlo. “La verità può essere pericolosa.”
“È vero,” convenne Oscar. “Ma ormai ho capito che la verità non esiste.”
“Va bene, allora diciamo che ti offro il mio personale punto di vista, prendilo per quel che vale. Allora, vediamo: se mi chiedessero di te, Oscar, ti descriverei come una persona incredibilmente… autentica. Ce la metti veramente tutta per essere onesta verso te stessa e verso gli altri. Solo che non è facile per te.”
“Perché sono scema?” cercò di ironizzare.
“No, perché ti hanno reso il compito impossibile. Per tutta la vita ti è stato domandato di essere qualcuno che, in realtà, non sei, e ora cerchi a ogni costo di leggere dentro te stessa, di capire chi sei e cosa vuoi, per non sbagliare, solo che non ce la fai perché neppure tu sai chi sei, ormai. Ti avevano chiesto di diventare un uomo, come se avessi avuto davanti a te una scelta. E avresti potuto decidere di rimanere donna, sì, ma in quel caso tuo padre non avrebbe saputo cosa farsene di te: avresti deluso l’unico essere umano del cui giudizio ti era dato di interessarti, il solo che ti avessero insegnato a stimare e ad amare… Una ragazzina di quattordici anni! Com’è concepibile? Tu volevi che fosse orgoglioso di te e ti volesse bene… che fosse fiero di suo figlio. E hai cercato con tutta te stessa di dargli quel che voleva, senza mai chiederti cosa volessi tu. Tutto per un vecchio pazzo…” sibilò lui, il viso atteggiato a una maschera di disprezzo, mentre fissava il soffitto come se le parole che pronunciava le leggesse scolpite sulle travi in legno.
Rivivere quel periodo della sua adolescenza, seppur attraverso la reazione di lui, era incredibilmente penoso. Cercava sempre di pensare il meno possibile a quei giorni decisivi, congestionati, angosciosi, in cui si era ritrovata fra le mani la facoltà di compiere una scelta troppo grande per lei senza la maturità necessaria per pesarla e gestirla. Troppo giovane non solo per poter immaginare, ma anche per poter credere alle ripercussioni che avrebbe avuto la propria decisione. Quattordici anni: sicura che non si sarebbe mai innamorata, che non avrebbe sofferto la solitudine, che non avrebbe provato paura. Convinta di essere diversa, che i problemi di una donna normale non l’avrebbero mai sfiorata. Aveva pensato di non precludersi nulla di importante, rinunciando alle priorità e prerogative del suo sesso, a un’età in cui non aveva neppure ben chiaro quali fossero.
Eppure non era stata lei ad aver sbagliato: era normale, in fondo, essere immaturi a quattordici anni. Era stato poco meno che criminale, invece, l’istinto di suo padre, che aveva fatto sì che lei si infilasse a capofitto in una trappola tramata a tavolino tirando tutti i fili giusti. Vecchio pazzo: sì, forse. Eppure lei lo amava e, forse anche solo per abitudine, ancora adesso la forma di ribellione più semplice le sembrava essere la fuga, non lo scontro.
“E così hai cercato di diventare un uomo, il figlio ideale,” sintetizzò André, omettendo diversi risvolti. “Ci hai provato in tutti i modi. Ti sei censurata, conformata, flagellata… soffocata. Lo so perché ti ho vista: eri sempre sotto i miei occhi. Ho visto la donna che avresti potuto diventare piegarsi e torcersi in qualcosa di contorto e di lineare insieme… qualcosa di fragile, tenace… privo di speranza e pieno di slanci repressi…” riconobbe, la fronte aggrottata, cercando a fatica di descrivere un che di confuso, prima di scuotere spazientito il capo per riprendere con tono più pratico. “Ma sei rimasta donna, Oscar. Anzi, sei diventata una donna meravigliosa, che non ha eguali. E come avresti potuto capire qualcosa di te quando metri di paragone non ne avevi e il requisito che ti veniva imposto per andare bene era proprio quello di negare la tua natura? Era come se la donna dentro di te vivesse a tua insaputa: ti sei accorta di lei solo quando si è innamorata.”
Si rese conto di stare piangendo. Non era perché il tono concreto, quasi brutale, del suo riassunto la offendesse e neppure perché i ricordi che riesumava fossero troppo dolorosi: semplicemente lui stava toccando corde troppo sensibili, che nessuno prima aveva sfiorato.
Non avevano mai parlato di questo.
“Basta, André,” gli impose con voce strozzata, strofinandosi gli occhi. “Smettila.”
“No, devo finire,” proseguì lui, impietoso. “Adesso mi ascolti, e non provare a scappare, stavolta. Ti sei innamorata, sì. Era inevitabile: ho sempre saputo che sarebbe successo. Lo aspettavo, lo temevo. In parte speravo – non ridere, ti prego – speravo che sarei stato io, che ero cresciuto con te, su misura per te… e invece no, naturalmente. Comunque, pensavo che l’amore ti avrebbe risvegliata dal tuo torpore, e invece no, perché tu scegliesti un uomo che non potevi avere, come se cercassi ancora di proteggere il castello di menzogne che ti separava dalla realtà o volessi continuare a non scontentare tuo padre. Mi sono domandato a lungo cosa ci trovassi in Fersen, perché, ti giuro, a un occhio esterno e fuori dalla portata delle sue malie non è facile da capire. Ma la risposta è semplice, in fondo: non è che ti attraessero la sua bellezza, le sue anacronistiche arie da paladino tormentato, no… quello che ti attirava era il sentimento che provava per la regina, l’amore che lo univa a Maria Antonietta. Nella tua ingenuità, quel romanzo da fiaba ti sembrava così nobile, toccante e attraente, rispetto alle sordide storie da salotto di Versailles, che avresti voluto avervi parte anche tu: era l’unico sentimento degno di te. Non eri innamorata di lui, ma di quello che provava per un’altra… e non ti rendevi conto che confondevi l’amore con un capriccio. Vedi, Oscar, tu pensi che l’amore stia in quelle fantasie adolescenziali… nel miraggio lontano, così lontano che sembra perfetto… Quando invece l’amore è questo,” sussurrò, carezzando con riverenza la cicatrice che lei portava incisa sul braccio, “e questo,” ripeté piano, prendendole la mano e guidandosela con decisione fra le ciocche di capelli, a farle sfiorare il profilo dello sfregio che gli deformava la palpebra chiusa.
Si fissarono per un lungo momento in silenzio, ma Oscar aveva smesso di piangere e nei suoi occhi gonfi e tirati si era accesa una luce disperata, determinata.
“Pensi veramente che sia ancora una bambina?” lo provocò cattiva, scostandosi bruscamente. “Dopo aver conosciuto il sesso, il tradimento e la vanità dei sentimenti tu pensi che io non sia capace di fare delle scelte ponderate? Delle scelte mature. Di calcolo, magari. Pensi che, se sceglierò lui, lo farò perché sono ancora innamorata come un’adolescente? Lo ero, sì, fino a neanche troppo tempo fa. Ora forse ho solo capito che non c’è altro, per me. Che sono stufa delle pretese di mio padre, dei capricci della regina, della mia vita arida e claustrale, che voglio andarmene da qui, da questa esistenza senza senso pensata per servire ad altri, via, non importa dove, e lui è un salvacondotto perfetto. Forse lo amo perché non voglio perdere questa battaglia, non voglio lasciar crollare quel che ho costruito con lui, per quanto poco valga, e arrendermi, rinunciare, o forse lo amo perché non posso avere altro…” recitò, la voce malferma e le frasi che si assiepavano frenetiche, finché André non la bloccò mettendole due dita sulla bocca.
“Non farlo, Oscar,” la supplicò, la voce bassa che vibrava in gola. “Sarebbe uno sbaglio tremendo. Credi che un matrimonio sia una formalità o un lasciapassare per l’espatrio? Ci sono altri modi per andarsene, se è questo che vuoi. Ti infilerai solo da una trappola a un’altra. Non sarai felice con lui, lo sai. Perché vuoi distruggerti?”
“E con chi sarei felice? Con Girodel, forse?” ipotizzò con una risata secca. “Con quel vecchio pavido di d’Étiolles o quel disgustoso maligno intrigante di de Tournehem? O forse con quel pervertito di de La Ferté-Imbault, che gestisce metà dei bordelli di Parigi? Questi sono i miei pretendenti e io devo sceglierne uno: così va il vento. Credo che a questo punto il meglio possa essere definito solo come il meno peggio.”
“E ti lasceresti piegare da tuo padre ancora una volta? Ancora adesso gli permetti di disporre della tua vita? Credevo che ormai fossi cresciuta!” la provocò serio, sollevando le sopracciglia con stupore.
“E cosa dovrei fare!”
“Rifiutati. Di’ di no...” Si allungò su di lei e la sfiorò con un bacio lento, casto, che la fece bagnare, per poi soffiarle sulle labbra: “Scappa con me. Andiamocene via.”
“E dove?”
Ci ho pensato, cosa credi? Me lo sono già chiesta.
Non c’è un dove per noi.
“Ovunque. Non ha importanza.”
“Ha importanza, invece. E tu lo sai. Credi che ci siano così tanti altri posti oltre a Versailles in cui la gente sarebbe disposta a tollerare la mia bizzarra mascherata? Non mi stai chiedendo di fuggire, mi stai chiedendo di iniziare a vivere come una donna. E cosa vuoi che faccia? La cameriera, la cuoca, la fruttivendola? A me piace il mio lavoro, al di là di tutti i discorsi: mi ci sento portata, mi realizza. Non voglio lasciarlo!”
“Lo so...” sospirò lui, levandosi a sedere. “Non credere che non lo sappia.”
Ma lei non smise di infierire: voleva vomitare su di lui tutti i vicoli ciechi contro cui si era imbattuta nelle sue peregrinazioni mentali, i muri su cui si era spaccata le unghie negli infiniti disperati tentativi di fuga in cui aveva provato a mettere in salvo entrambi, senza successo.
“E dovremmo lasciare la Francia,” proseguì con sicurezza. “Tu pensi che mio padre avrebbe respiro finché non mi avesse ritrovata? Sono di sua proprietà, non mi lascerà mai andare. Lo sai cosa ti succederebbe in quel caso, vero?”
Non riesco neanche a pensarci.
“Potremmo andare in America,” propose lui, senza guardarla. “Dicono che là le cose sono diverse, che la gente è più libera. Tanti ci vanno per ricominciare.”
“Una donna resta una donna ovunque,” lo corresse a malincuore, impietosita dai suoi donchisciotteschi tentativi di dipanare quella matassa inestricabile. “Dovrei starmene a casa ad aspettare che tu torni dal lavoro? E come faresti a...” e di colpo si interruppe nel suo impeto, vergognosa, intimorita da quello che stava per dire.
Fu lui a completare la frase per lei, pacatamente: “Come farei a lavorare se non ci vedo?”
“André, scusami...” cercò di rimediare, mortificata.
Lui le sorrise amaro, come per rassicurarla: “Tranquilla, cosa credi, che non me ne renda conto? Se non fosse per la tua famiglia che mi fa la carità, se non ci fossi tu che ti ostini a volermi come attendente anche se sono inservibile e devi fare tutto il lavoro da sola, dove sarei a quest’ora?”
“André, sei tornato dal medico?” lo interruppe, ansiosa. “Ci sono miglioramenti?”
Ma lui non le diede retta: “Perdonami, Oscar. Mi odio perché quel che posso offrirti è... niente. Al massimo, se fuggissi con me, finiremmo col chiedere l’elemosina nel mezzo di una strada. Mi sento come se… non avessi nulla da offrirti...” mormorò, la fronte contro le ginocchia e gli occhi serrati, come se sentisse ancora la sofferenza della ferita.
“Ti prego, non dire così,” sussurrò costernata, aderendo alla sua schiena per abbracciarlo con delicatezza. Non riusciva a sopportare quel dolore, la vergogna, l’ingiustizia della situazione, il senso di impotenza che li teneva in scacco. Nascose il viso nel suo collo, serrò le gambe attorno ai suoi fianchi e gli accarezzò il petto con gesti convulsi di dolcezza. È soltanto colpa mia… “Tu mi hai sempre dato tanto, e non hai idea di quanto mi dai anche adesso...”
Rimasero stretti per un lungo istante, annodati in un unico groviglio di dolore.
Perché quando ti vedo soffrire non riesco a sopportarlo? E perché sento
sgorgare da me cose che non sono mie? Mi verrebbe da chiamarti amore,
adesso, e da dirti che… che… No, questa non sono io.
Chi sono io?
André le prese le mani e gliele strinse, e di colpo prese a sogghignare. “Ehi, potrei prostituirmi!” esclamò, con simulata esaltazione. “E perché no? Potrei vendere il culo! Non hai idea di quanti sarebbero interessati, a Versailles e non solo! Mi farei un discreto giro. Senza contare le vecchie carampane che non desiderano altro che un piccolo assaggio di carne fresca...”
“Ma da dove ti escono fuori queste battute idiote?” insorse inviperita, parandoglisi davanti e conficcandogli le unghie nel petto. “Non ti reggo quando fai così!”
“Perché no? Finalmente potrei fare l’uomo!” declamò con fare falsamente solenne, sarcastico, sorridendo. “Potrei mantenerti! Pensaci, sarebbe un’interessante reinterpretazione dei ruoli tradizionali: giunti a questo punto, credo che non dovremmo accontentarci di qualcosa di scontato.”
“Te lo ripeto: non fa ridere!” lo bloccò senza mezzi termini. “Smettila con le cazzate.”
Rimasero a guardarsi a lungo, in silenzio.
Lo vedi? Non c’è via d’uscita.
“Oscar, io ti amo,” mormorò intensamente, fissandola, il sorriso dimenticato su un angolo delle labbra. “A parte tutte le idiozie, a dispetto dei nostri ruoli e della vita che abbiamo fatto, e nonostante quello che pensano gli altri di noi, io ti amo. Così come sei. E farei qualsiasi cosa per te.”
“Non c’è nulla che tu possa fare,” lo troncò, rifiutandosi di ascoltare.
Purtroppo. E il discorso non è finito: manca ancora quello che mi fa più
male.
“E stando con me, André, tu dovresti rinunciare ad avere figli. Ci pensi mai? Io non me la sento di averne,” confessò, scuotendo il capo con gli occhi chiusi. “Mi dispiace, non ce la faccio. Non ci ho neanche mai pensato, non ho mai preso in considerazione l’idea, non… non me la sento. Ma so che li vorresti. Si vede da come fai giocare i bambini, a volte, da come li guardi… io non voglio privartene, capisci?”
La sua replica fu indiretta e beffarda: “Pensi forse che Fersen non voglia figli?”
“Mi ha detto che non è importante per lui.”
André rise con gusto: “E tu credi ancora a qualcosa di quello che ti dice? Certo che ne vuole: deve averne! È un nobile, gli serve la discendenza, come serve a tuo padre.”
“Potrei procurare di non averne con lui: ci sono molti modi. Non lo verrebbe mai a sapere.”
“Un vero idillio, il vostro…” valutò, caustico.
Lei fece finta di non sentire: “Ma con te? Dovrei ingannare anche te? Non ha senso ingannare te. La sola cosa vera che abbiamo è la sincerità, e io ringrazio Dio per questo. Oppure dovrei costringerti a rinunciare a quello che vuoi? Per me? Non sarebbe giusto. Se desideri dei figli, voglio che tu ne possa avere. Come potrei sopportare il peso di toglierti qualcosa di così importante?”
Lui sospirò spazientito e con uno scatto si girò sopra di lei, stringendola per le spalle, costringendola a guardarlo in faccia: “Ascolta, mentirei se ti dicessi che non voglio sposarti e che non voglio dei figli, ma non sono la cosa più importante: la cosa più importante sei tu. Sei sempre stata tu. Lo capisci? È la certezza della mia vita e non può cambiare. Cosa pensi che cerchi, un animale per riprodurmi? Non credi che avrei già saputo trovarmene uno, se avessi voluto questo? Io ho piena consapevolezza di quello che scelgo e so che è molto più importante di quello che perderei: è questo che lo rende una scelta e non un sacrificio.”
“Forse ti serviva qualcuno che ti aprisse gli occhi e ti aiutasse a smettere di sognare,” soffiò lei, senza abbassare lo sguardo.
“Oh, non è un sogno, te lo assicuro: è un incubo!” ringhiò lui, alzandosi. A Oscar si strinse il cuore all’osservare quei movimenti sincopati, gli strattoni feroci con cui tentava di indossare la camicia dopo averla cercata alla cieca; ogni volta finivano col litigare e ogni volta non poteva aiutarlo a indossare i suoi indumenti perché la situazione richiedeva che si azzannassero alla gola.
“E allora perché non mi lasci perdere?” gli domandò piano, combattendo contro l’istinto frenetico di rimangiarsi tutto, di dirgli che aveva ragione per poterlo salutare con un bacio, un abbraccio, oppure per non lasciarlo andare, per tenerlo lì, nell’incavo del suo braccio, e accarezzarlo in attesa di amarlo di nuovo. “Una vita insieme è impossibile, e tu lo sai…”
“Solo perché sei una vigliacca e sei stata abituata a pensarla così! Hai fatto una vita diversa da quella di chiunque altro, chiunque altro, eppure non sei capace di pensare al di fuori degli schemi asfittici del tuo piccolo mondo fuori dal mondo! Continui a essere succube dell’ottica di tuo padre, te ne rendi conto?”
Scosse la testa: “I tuoi sentimenti per me sono un puntiglio, André. Un’abitudine malsana. Tu credi che il tuo amore sia nobile e unico solo perché io ti sembro… diversa dalle altre donne, e non ti accorgi che sono un peso, uno scherzo della natura. Guarda come ti ho trattato! Lascia che mi abbia Fersen: Dio solo sa che meritiamo di renderci infelici a vicenda… Tu non te ne rendi conto, ma potresti essere felice con qualsiasi altra donna, André.”
Non si accorse neppure della velocità con cui lui la afferrò per la gola e la schiacciò contro le coperte. Tentò di respingerlo, ma sembrava fatto di marmo: era pesante, immobile su di lei, col viso livido e rabbioso. Avrebbe potuto farle qualsiasi cosa e lei non sarebbe stata in grado di impedirglielo. Deglutì e serrò le labbra, fissandolo con sfida.
“Allora non hai capito proprio niente di me, Oscar,” sibilò lui, sprezzante. “Niente! Perché mi ostino a pensare che potremmo essere felici insieme? Non lo capisco più neppure io! Visto che sai così tante cose, spiegami almeno questo: perché tenti sempre di convincermi a lasciarti perdere quando ogni sera poi sei tu a cercarmi di nuovo?”
Oscar si sforzò di non abbassare lo sguardo.
Lui ritrasse le mani, tremante, e si costrinse a non abbassarsi ad accarezzarla con riverenza, a non affondare le dita nei suoi capelli per avvinghiarsi a lei e perdersi nei suoi baci. A cosa servivano la tenerezza, il sesso, quando era la mente di lei che, alla fine, non lo accettava? Cosa poteva fare oltre a ripeterle ancora e ancora, fino allo sfinimento, quello che sentiva e che sapeva essere vero?
“Tu sai che sei mia come io sono tuo. E sarà sempre così, mi dispiace.”
No. Non sento di poter essere tua.
Ho pagato troppo a cercare di essere mia, di definire una mia personalità e
una mia libertà assolutamente individuali, diverse da quelle di qualsiasi
altro, per potermi dare a qualcuno.
Forse non riesco a essere di nessuno, se non mia.
Ed è per questo che rendo infelici tutti quelli che mi circondano.
Fine XI parte
Sara mail to ultimegocce@hotmail.com
Continua
Sara, pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2016
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