Autore: Nazarena

La sérénade interrompue

Warning!!!

 

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- Non capisco come facciano le donne ad andare in giro con tutte queste tonnellate di roba addosso - fece Oscar, mentre la nonna le fissava in vita la pesante sottogonna annodando una fettuccia di raso.

- Sono io che non capisco com'è possibile che tu lo stia scoprendo solo adesso. Ora sta’ ferma e alza le braccia, bambina! -

- Per non parlare dei corsetti -, continuò Oscar ignorando il commento. - Siamo sicuri che non fossero una delle piaghe d'Egitto? -

- Oh, Mademoiselle! - Protestò, mentre Oscar sbucava dal panier. - Non vi sembra di esagerare a scomodare addirittura la Bibbia? -

Oscar rise di gusto mentre la nonna continuava a girarle intorno concitata e sbuffando.

- Con tutte queste sciocchezze, state rovinando il giorno che aspettavo da quando siete nata! -

- D'accordo, d'accordo, smetterò di lamentarmi, ma tu allenta qualcosa - provò a patteggiare Oscar. - Adesso capisco perché ogni giorno a corte ci sono almeno tre svenimenti. -

La nonna si lanciò in un borbottio di protesta, quando la voce di André giunse dall'altro lato della massiccia porta di noce.

- Manca molto? Avete finito? -

- André, ma sei ancora lì dietro? - Si stupì Oscar. - Entra! -

La nonna diventò paonazza e prese ad urlare.

- Non ti azzardare ad aprire quella porta, sciagurato! Mademoiselle non è ancora vestita! -

Oscar si abbandonò ad un'altra lunga risata, sopportando il dolore delle stecche che si piegavano nella pelle ad ogni sussulto del suo corpo. Abbassò gli occhi, considerando i suoi indumenti. Indossava calze di seta, corsetto, sottoveste, panier e tre o quattro sottogonne di varie ampiezze - aveva perso il conto -. Ripensò a com'era vestita fino a poco prima, pantaloni fascianti e una leggera camicia di seta con una profonda apertura sul petto.

- Nonna - la richiamò dolcemente, - ti assicuro che André mi vede tutti i giorni molto meno vestita di così. -

La nonna non cedette e pronunciò quella che aveva tutta l'aria di essere una vera e propria dichiarazione di guerra.

- Mademoiselle, se vuole entrare dovrà prima passare sul mio cadavere. -

- Lascia stare, Oscar - intervenne André. - Aspetterò, non voglio avere mia nonna sulla coscienza. -

La nonna strinse i pugni e serrò le labbra a tal punto che, per un attimo, ad Oscar sembrò di vedere del fumo uscirle dalle orecchie.

Si precipitò fuori dalla stanza, avendo cura di aprire la porta solo quel tanto che le serviva per passare, e si scagliò come una furia contro il nipote.

Oscar dall'interno sentì una sequela di urla confuse della nonna inframezzate dagli “ahia” di André.

Chissà dove lo starà colpendo, questa volta.

Sorrise divertita e provò a sedersi, in genere quegli intermezzi duravano un bel po', ma una lancinante fitta la costrinse a scattare sull'attenti.

Decisamente sì, c'era qualcosa da allentare.

 

 

Oscar ebbe il permesso di uscire dalla stanza solo dopo che la nonna l'ebbe tenuta in ostaggio per un'altra ora buona.

Prima di varcare l'uscio osservò con un'occhiata timida il suo riflesso.

Che strana quella persona allo specchio. Non riuscì a trovarla bella, nonostante i commenti estasiati della nonna e delle cameriere. Pensò alle dame a Versailles, a sua madre, al loro incedere grazioso sotto il peso di metri e metri di trine. Pensò alla loro naturalezza nel respirare, prigioniere di una morsa di nastri stretti come nodi da marinai, e si sentì goffa. Fece un solo incerto passo fuori dalla stanza, già pentita di essersi sottoposta a quella mascherata, quando incontrò lo sguardo di André.

In quello sguardo chiaro e franco, in quella bocca socchiusa da un respiro spezzato, il suo riflesso prese un'altra forma. Diversa.

Che frivola, si sorprese a considerare, per sentirsi bella aveva avuto bisogno dell'approvazione di un uomo.

No, non è esatto.

Aveva avuto bisogno dell'approvazione di André.

Ma che assurdità, pensò scacciando una strana sensazione di disagio e scuotendo la testa.

- Perché sorridi? - Le chiese, a fatica, André.

- Niente -, mentì lei. - Pensavo che, per una volta nella vita, posso anche andare in giro vestita così. -

André tacque, abbassando lo sguardo; e si fece serio.

- E tu, perché fai quella faccia? - Chiese lei, di rimando.

- Niente -, mentì lui. - Pensavo solo che sei davvero splendida. -

- Certo che lo è! - Intervenne la nonna, porgendo ad Oscar un paio di lunghi guanti bianchi. - Non c'è mica bisogno di fare quella faccia da cane bastonato. Mando a chiamare il cocchiere, Mademoiselle - aggiunse avviandosi verso le scale seguita dalle cameriere.

André approfittò di quei brevi istanti in cui rimasero da soli per dare voce al pensiero che lo agitava.

- Ti prego Oscar, lasciami venire con te. -

Si girò a guardarlo, sorpresa, non si aspettava un tono tanto accorato.

- Ne abbiamo già parlato -, rispose. - Non è possibile. Se tu venissi, tutti capirebbero chi sono e questo “bel” travestimento andrebbe a farsi benedire. -

- Lo so, ma pensavo che potrei aspettarti in carrozza. -

- Non essere assurdo. Non capisco perché insisti tanto. -

Già, non lo capiva, ma sapeva che in nessun caso le avrebbe permesso di accompagnarla.

Come avrebbe potuto sostenere la messinscena, con lo sguardo di André a ricordarle quanto si stava rendendo ridicola? Anche se, ripensando a quella faccia triste di poco prima... che si fosse accorto che stava andando a corte per Fersen? Impossibile, si disse con decisione. Era ingenuamente convinta di essere sempre stata più che discreta in proposito e poi, anche se André lo avesse capito, non vedeva il motivo per cui avrebbe dovuto rattristarsene. Sicura di non vederlo, si domandò, come una lama affilata in una piaga.

- Ma… se ti accadesse qualcosa... - continuava ad obiettare André. -

- Piantala, André -, esclamò stizzita. - Cos'è? Secondo te mi basta mettere una gonna, per diventare un’inetta? -

- Non intendevo questo, Oscar. Io... -

- Oscar niente. Tu resti qui e la conversazione è conclusa. -

André tacque e, di nuovo, i suoi occhi si velarono di tristezza. Non voleva. Non voleva che andasse… ma non aveva nessuna voce in capitolo.

André… Ma cosa gli capitava, si chiese Oscar, sentendosi piombare addosso una inspiegabile pesantezza.

Fece un passo verso di lui, pentita per le parole dure, e gli strinse le mani tra le sue, coperte dai guanti lisci.

- Cerca di capire... - sussurrò e, senza dargli modo di rispondere, gli voltò le spalle e si allontanò.

 

Capire cosa?

Tu… tu capisci me?

 

Oscar era via da ore e André non si era mosso dal piccolo salottino, antistante la stanza di lei. Si era accomodato su una poltrona, aveva acceso delle candele, portato dei libri e scolato già diversi brandy.  Di solito, era Oscar a bere liquore, mentre lui preferiva il caro vecchio vino, la spremuta d'uva, come gli piaceva chiamarla, quando Oscar lo rimproverava di bere troppo.

Però, quella sera in cui lei non c'era, bere il suo brandy, con la bocca incollata al collo della bottiglia, gli era sembrato il solo modo per sentirla vicina, per lasciare una traccia di sé tra le sue cose. Era determinato ad aspettarla, non gli importava se lei, vedendolo, avrebbe pensato che era pazzo. Voleva essere presente nel momento in cui sarebbe tornata a casa per poterla guardare in viso, per leggerla.

Consumato dall'ansia, non riuscì ad aprire un solo libro, preso com'era a contare ogni singolo rintocco della pendola, tormentandosi le mani. Ad ogni suono, saltava su convinto che fosse lei... ma no, era il rumore di una carrozza in lontananza, un vecchio mobile che scricchiolava, qualcuno che ancora era in giro per casa, ma non lei... mai lei.

Il tempo continuava a scorrere lentissimo, le candele si consumarono, piegandosi in ammassi di cera fusa, e di Oscar nessuna traccia.

André, stordito dal brandy, fissava torvo il grande orologio a pendolo come fosse un nemico da non perdere di vista, come se gli intarsi di legno potessero improvvisamene animarsi e assalirlo. All'ennesimo rintocco, il vuoto allo stomaco divenne insostenibile. Era troppo tardi, mai un ballo si era protratto così a lungo. Doveva essere accaduto qualcosa, ne era certo.

Non posso più restare qui.

Si alzò barcollando ed uscì dalla stanza, lanciando un'ultima occhiata bellicosa all'orologio. Scese dabbasso reggendosi al corrimano, frugò tra i suoi indumenti, afferrò il primo mantello che gli capitò sottomano ed uscì nella notte.

Se lei non tornava, sarebbe andato lui a cercarla a Versailles.

 

Montò a cavallo, incerto, e partì al galoppo nella notte.

 

Corse fino alla reggia, lasciando che l'aria fredda gli colpisse il volto e si portasse via il torpore dell'alcool. Quando arrivò ai cancelli, si reggeva in piedi decisamente meglio. Si recò alle scuderie reali ed ebbe la conferma di quello che aveva temuto fin dall'inizio. Il ballo doveva essere finito da un pezzo. Il grande piazzale, che, di solito, ospitava le carrozze dei nobili che non risiedevano a Versailles, era vuoto, fatta eccezione per pochissime vetture, tra cui André riconobbe con sollievo una delle berline dei Jarjayes, una di quelle di servizio, senza lo stemma araldico.

Hai pensato proprio a tutto eh, Oscar? Quasi non si riconosceva, in quel se stesso rabbioso.

André si affrettò. Se la carrozza era lì, allora, forse, all'interno poteva esserci Oscar... Si avvicinò e sentì una voce maschile provenire dall'abitacolo. Un tonfo al cuore. Possibile che... ?

Preso da un impeto di collera picchiò alla porta della vettura, un colpo secco molto più vicino ad un pugno che ad una bussata.

- Chi è? - Echeggiò una voce spaventata, stranita, dall'interno.

André riconobbe immediatamente la voce di Jacques, il cocchiere.

Quindi non era Oscar, realizzò, mentre un rivolo di sudore gli attraversava la fronte gelida.

- Sono André. -

Jacques si affacciò, squadrandolo sbigottito. Dietro di lui fece capolino il giovane lacchè che lo aveva accompagnato.

- Ma che accidenti ci fai qui? E poi ti sembra il modo di bussare? – Gli fece. - Per poco non mi prendeva un colpo. -

- Scusami, Jacques -, fece André passandosi una mano sugli occhi. - Non mi sono reso conto... ma perché siete nella carrozza? Dov'è Oscar? -

- Monsieur? O forse dovrei dire Mademoiselle. Qui non si capisce più niente - commentò arricciando il naso. - Non lo so dov'è, è andata via e ci ha detto di aspettarla qui. Ci ha dato lei il permesso di riposare nella carrozza, prima che ti faccia strane idee. -

- È andata via? - André impallidì. - Ma quando, con chi? -

- Mi dispiace, ma ha ordinato di mantenere il riserbo. -

Davanti ad una notizia come quella, complici anche i postumi della sbronza, André non riuscì a mantenere il controllo. Afferrò il povero Jacques per il bavero della giacca e lo tirò per metà fuori dal finestrino. Il ragazzo dentro si rannicchiò su un sedile e prese a balbettare.

- Stai buono, o ce ne sono anche per te -  lo minacciò André, terreo, facendolo ammutolire. – Allora, Jacques, adesso mi dici dov'è o devo trascinarti a terra? -

- Te lo dico - farfugliò, - te lo dico, ma, per l'amor del cielo, lasciami! -

André lo riaccompagnò all'interno con un gesto deciso, senza lasciare la presa sulla giacca.

Jacques era un servitore fidato, avrebbe provato a tergiversare e lui non aveva intenzione di perdere altro tempo.

- Parla. -

- Era con quel conte svedese, sono andati via circa un'ora fa - rivelò. - Ma tu sei fuori di testa André, si può sapere che ti è preso? -

Ma Jacques non ricevette risposta, sentì solo che la stretta sul suo petto si allentava. André lasciò cadere le mani lungo i fianchi e il suo sguardo si fece vuoto. Smarrito. Perso. La sua più grande paura aveva preso forma e l'alcool tornò, prepotente, ad allagargli la mente. Vide che le piccole figure intagliate del pendolo lo avevano inseguito fin lì, simili a neri demoni, insinuandosi nel cuore e stringendolo in una lignea morsa di dolore.

No, non poteva essere accaduto. Non doveva. Girò le spalle alla carrozza correndo, verso il cavallo, gli occhi sbarrati. Montò in sella e ripartì al galoppo, speronando il povero animale come un forsennato.

Dimmi che non è troppo tardi Oscar, dimmi che non è per vedere questo che ho vissuto fino ad oggi.

I due servitori lo osservarono stupiti.

- Povero idiota - disse solo Jacques, scendendo dalla carrozza. Per il resto della notte preferì restare di guardia, non voleva prendersi qualche altro spavento.

 

 

André corse come non mai, fendendo la notte con la sua furia. Nella mente annebbiata distingueva nitida un'unica immagine; quella di Oscar tra le braccia di Fersen, i loro corpi intrecciati, le sue mani su di lei.

Maledetto Fersen, non gli bastava la Regina? Doveva prendersi anche Oscar?

Mentre galoppava lasciando dietro di sé una scia di polvere e lacrime, il cuore gli batteva così forte in gola che sembrava aver cambiato posto, lasciando il petto vuoto e freddo.

Arrivò al palazzo di Fersen senza rendersene conto, senza fermarsi a considerare le conseguenze di quel gesto, senza temere di rendersi ridicolo. Sapeva soltanto che doveva fermarla e pregò Dio con tutto se stesso che non fosse già troppo tardi.

Legò il cavallo alla buona, pensando febbrilmente ad una scusa plausibile per entrare in casa e farsi annunciare a quell'ora.

Meditò per un attimo di fare semplicemente irruzione gridando il nome di Oscar, ma un'ipotesi del genere si rivelò fuori discussione. Era lì per proteggerla, da se stessa e da chi approfittava di lei, non per esporla ad uno scandalo.

Deglutì cercando di spingere il cuore al suo posto.

Mentre si sforzava di trovare una soluzione, frugò nelle tasche e trovò un pezzo di carta.

Era un biglietto di Oscar di qualche giorno prima. Glielo aveva lasciato una mattina che era andata a Versailles in anticipo. Un biglietto di poco conto, con scritte due righe scarne (amava quella calligrafia), in cui gli chiedeva di raggiungerla, ma lui lo aveva conservato, come faceva, sempre, con le cose che la riguardavano, e, ora, mentre lo rigirava tra le mani, si rese conto che faceva proprio al caso suo. Lo ripiegò alla meglio, si passò una mano sul volto per darsi un contegno e andò a passo spedito verso il portone d'ingresso.

Bussò ripetutamente, con forza.

Dovette insistere perché qualcuno si degnasse di rispondere, ma, finalmente, un’anziana voce maschile interruppe la sequenza dei colpi.

- Chi, è a quest'ora? -

André si concentrò, doveva essere credibile.

- Perdonatemi, ma vengo da Versailles per il conte di Fersen. -

- E chi vi manda? -

André inspirò e pronunciò solennemente:

- Sua Maestà la Regina. -

Ci fu un istante di silenzio dall'altro lato della porta, poi André sentì con indicibile sollievo il rumore di un pesante catenaccio e il cigolio della porta che si dischiudeva.

La testa di un anziano servitore canuto sbucò dall'apertura. Reggeva in mano una candela e guardava André con aria sospettosa.

- Che messaggio portate? -

André mostrò il biglietto.

- Un messaggio confidenziale urgente per il conte, è richiesta risposta. -

- Potete darlo a me, glielo farò recapitare. -

André si aspettava quella resistenza.

- Mi rincresce, ma sono stato incaricato di consegnarlo personalmente al conte di Fersen. -

- Ma, Monsieur -, obiettò l'anziano - comprenderete che ciò che mi chiedete non è possibile. -

- Comprendo la vostra posizione - e André si giocò il tutto per tutto, - ma io ho un messaggio per il conte scritto dalla Regina di suo pugno, mi è stato ordinato di non consegnarlo ad altri che a lui e di non tornare senza una risposta. Posso andarmene, se lo credete, ma la responsabilità ricadrà su di voi. -

Il vecchio restò in silenzio, soppesando le parole di André.

Ti prego, ti supplico Dio, fa' che funzioni.

- Va bene, entrate -, cedette aprendo la porta.  - Aspettate qui. -

Si avviò lasciando André, da solo, nel buio del grande ingresso per alcuni minuti che gli parvero eterni. Non riusciva a scacciare la sensazione che ogni attimo poteva essere quello in cui Oscar gli veniva portata via per sempre... se non era già successo. Di nuovo, sentì il sudore imperlargli la fronte e il cuore salire sempre più su, più della gola, più su, fino alla sommità della testa, battendo così violento che sembrava potesse aprirgli la fronte.

- Devo darmi una calmata - si disse, - o finirà che morirò qui, su due piedi. -

La voce dell'anziano servitore lo riscosse.

- Venite - lo invitò facendogli un cenno. -

André lo seguì, cupo, lungo una grande scala che conduceva al piano superiore. Il servitore lo precedette, introducendolo in un'ampia anticamera.

- Attendete qui, il conte vi raggiungerà subito - disse chiudendosi la porta alle spalle.

Di nuovo solo e convinto della sconfitta incombente, André abbassò lo sguardo, cercando di non soffermarsi sui dettagli lussuosi dell'arredamento rivelato dalla luce soffusa dei candelieri. Era certo che l'indomani non avrebbe voluto ricordare quella stanza, era certo che, se l'avesse guardata, si sarebbe impressa nella memoria e sarebbe tornata a tormentarlo tutte le notti, sfarzoso scenario della sua disfatta.

Non dovette aspettare molto, prima che Fersen si palesasse. E, finalmente, eccolo venire fuori da una porta laterale, con i lunghi capelli sciolti, coperto da una veste da camera di broccato verde bosco che lasciava intravedere come sotto fosse ancora vestito di tutto punto. André strinse i pugni.

Forse non è troppo tardi.

Lo sguardo serio con cui Fersen entrò nella stanza fu spazzato via dalla sorpresa alla vista di André che lo fissava, dritto e scuro.

- Ma che cosa... -

- Dov'è? - Chiese André semplicemente. Nel momento della resa dei conti, una calma glaciale lo pervase. Non c'erano più paura, né angoscia, non c'era più neanche la voglia di rompergli la faccia. C'erano solo il sentimento, le sue ragioni, e la sua dignità di uomo.

Fersen non rispose.

- So che è qui. Ditemi dov'è - ripeté. – Se, poi, vorrà restare, me ne andrò, ma lasciate che le parli. -

- André, non so di cosa tu stia parlando - rispose l'altro.

- Lo sapete benissimo. Non costringetemi ad andare a cercarla. -

Fece per avviarsi deciso verso la porta alle spalle di Fersen, ma questi gli venne incontro fermandolo per un braccio.

- Cosa credi di fare, André? - Sibilò Fersen trattenendolo. - Vattene immediatamente! - Gli intimò. - Usare una scusa così ignobile per introdurti in casa mia, approfittare della buona fede dei miei servitori… ma che cosa credi di fare? -

André si piazzò di fronte a lui, afferrandogli l'altro braccio. Restarono lì, uno davanti all'altro, a fronteggiarsi come due titani.

- Ho usato la donna che amate per riprendermi la donna che amo. -

Fersen incassò quelle parole come un pugno e volle ricambiarlo. Colpì André allo stomaco con un destro, facendolo piegare su se stesso.

- Allora è così che stanno le cose. Lo immaginavo. Ma non puoi parlarmi in questo modo e sei uno sciocco, se pensi di avere qualche diritto. -

André, il respiro corto, un dolore crescente, si rialzò e preparò i pugni per attaccare.

- Il fatto che neanche voi abbiate diritti su colei che amate, non vi rende molto diverso da me. -Fersen tacque, serrando le labbra, nuovamente colpito, e la linea della sua mascella si fece più pronunciata.

- Non voglio battermi con te, André, ma sarà quello che succederà se non lasci subito la mia casa. Non so neanch'io perché non ti abbia già sbattuto fuori. -

André abbassò i pugni, si rimise dritto di fronte a Fersen e, per la prima volta, da quando si conoscevano, lo guardò con empatia.

Quest'uomo soffre, esattamente come me.

- Perché sapete che dico la verità. Amo Oscar da tutta la vita e anche se non potrò mai averla, non ho mai disonorato un'altra donna. Vi conosco come uomo d'onore, Fersen. So che per voi è lo stesso, non sareste capace di approfittare dei sentimenti di qualcuno. -

- Adesso basta, André! - Reagì colpendolo di nuovo, questa volta in pieno volto. - Che cosa ne sai tu dei miei sentimenti? Tu, che sei già fortunato a poter vivere vicino a colei che ami, che devi solo immaginare che possa essere di un altro, mentre io devo sopportare questa realtà! – Gridò, mentre lo strattonava, spingendolo a terra. - Che cosa ne sai? Dall'alto di quale rettitudine vieni a farmi la morale, come se sapessi cosa significhi per me andare avanti? -

André restò a terra e parlò, senza alzare lo sguardo.

- Perdonatemi, conte, ma, in questo momento, il punto non siamo né io, né voi. Non sono qui per farvi la morale, non potrei, dopo tutti gli anni vissuti al fianco di Oscar nella menzogna. Non mi stupirei se, dopo stasera, decidesse di scacciarmi per sempre... ma non mi importa di me. Sono qui solo per lei, per proteggerla dal suo amore per voi, perché è chiaro che non la ricambiate. Vi giuro sulla mia vita che, se voi la amaste, io mi farei da parte. Sopporterei qualsiasi cosa, se ne andasse della sua felicità. Sarei disposto anche a morire qui, adesso -, aggiunse alzandosi e tornando a fissarlo. - Posso sopportare tutto, è da sempre che sopporto, ma non posso tollerare di vederla soffrire ancora. -

- André... -

Un suono, un sussulto.

Il suo nome pronunciato come una preghiera dalla voce di lei.

Ed eccola uscire da quella porta, dietro di lui. Eccola, in una veste da camera imprestata troppo grande per lei. Una veste che, per quanto stretta al corpo, continuava a scivolarle dalle spalle rivelando la pelle bianca e il corsetto allentato. Una veste che, per quanto lunga, non riusciva a nascondere le gambe nude. Eccola, con i capelli sciolti e il mento e le guance macchiate di rosso, lo stesso rosso tenue che, fino a poco prima, disegnava i contorni della sua bocca e che un'altra bocca aveva tirato via, sporcandole il viso e il mento e il collo.

Eccola, con le mani tremanti e gli occhi sgranati e tristi di chi, senza parlare, ammette la propria colpa.

È troppo tardi.

André cadde in ginocchio.

 

 

Oscar era uscita da palazzo Jarjayes con l'unico intento di lasciarsi vedere da Fersen come una donna. Una donna normale.

La consapevolezza dei sentimenti di lui non lasciava spazio ad altre aspettative, lo sapeva così bene che non riusciva a capire perché si fosse così ostinata nell'impresa.

Ancora meno capiva perché la determinazione fosse accompagnata da un senso di profondo disagio.

Sarà perché mi sento bardata come un cavallo a festa.

O magari per colpa di André e di quella sua faccia addolorata, che non la abbandonava.

O magari, semplicemente, perché stava facendo una tremenda idiozia e, in fondo, ne era consapevole.

Oscar passò tutto il tempo del tragitto rintanata in un angolo della carrozza, ad immaginare l'incontro in mille varianti diverse, ad organizzarlo come fosse una recita, Versailles il teatro e lei l'attrice principale.

Provava gli sguardi, preparava le frasi, ripeteva i gesti, ma ogni volta un dettaglio sbagliato rovinava la scena e la faccia di André faceva capolino dalle quinte, scuotendo la testa con quel suo fare irritante.

“Non va bene, Oscar, devi ripetere la scena. Ti avevo detto che non era un ruolo adatto a te” lo sentiva dire.

E, ad ogni tentativo, quella voce le risuonava nella testa, così vivida, che ebbe l'impressione che lui fosse seduto nell'ombra, di fronte a lei.

- Vattene, stupido! - Gridò esasperata, scagliando con rabbia il ventaglio che rimbalzò contro la tappezzeria di velluto del sedile vuoto.

Non c'era. André non c'era, realizzò, premendosi una mano sugli occhi, mentre il respiro tornava regolare.

Non c'era, non poteva vederla, non avrebbe assistito a quella disastrosa prima.

Per fortuna.

La carrozza rallentò, Oscar sentì il cocchiere emettere il familiare verso indistinto per fermare i cavalli. Il lacchè scese dalla cassetta e fece il giro della vettura per aprirle lo sportello.

Oscar prestò attenzione al suono di ogni singolo passo che si avvicinava, smuovendo la ghiaia. L'ultimo, il più forte, era il segno che bisognava andare in scena. Il sipario si sarebbe aperto, che lei fosse pronta o no.

La porta si aprì e l'aria fresca della sera le accarezzò il viso, lasciando che ritrovasse un po' di calma.

Si avviò, pronta a percorrere la grande scala che conduceva al salone da ballo.

Entrò nella sfarzosa sala preceduta da un nome che non le apparteneva, un nome straniero trovato in un libro che le aveva prestato André e che le era molto caro. André. Sempre André.

Entrò, lenta, con il volto chino e graziosamente celato dal ventaglio, come aveva sempre visto fare alle altre donne, in centinaia di serate come quella.

Si mise in disparte, cercando di evitare la curiosità che, sempre, suscitavano i nuovi arrivati, ma gli sguardi erano già tutti puntati su di lei.

Sentì mille occhi indugiare sul suo corpo in una carezza indagatrice, carichi di invidia e bramosia. Sentì i commenti gelosi delle donne e quelli lascivi degli uomini. Li percepì tutti, così numerosi e invadenti, che temette potessero appiccicarsi alla pelle. Desiderò l'uniforme, desiderò André e desiderò di non essersi mai mossa da casa, ma, d'un tratto, mentre annegava tra le miriadi di iridi colorate puntate su di lei, avvertì uno sguardo più intenso degli altri. 

Ed eccolo, Fersen, finalmente, dall'altro capo della sala, unico tra la folla, coprotagonista inconsapevole della sua folle messinscena, fermo a fissarla con occhi così brucianti, che cancellarono tutti gli altri, carichi di un calore che diventava insostenibile man mano che avanzava, deciso, verso di lei. Oscar ricambiò il suo sguardo con tutta l'intensità di cui fu capace, cogliendolo di sorpresa.

- Duchessa di Wolmar? Mi concedete l'onore? -

La sua voce... la sua voce suadente, di cui amava la peculiare inflessione straniera, parlava a lei, la mano tesa aspettava la sua, il braccio forte era pronto ad avvolgerla.

Oscar annuì, in silenzio, e si lasciò guidare in una danza in cui si perse come in un abbraccio.

Ah, le sue braccia! Poteva infine sentirne il calore, conoscere la sensazione del tocco sensuale delle mani fra le sue. Erano vicini come un uomo e una donna, proprio loro, che, fino a quel momento, avevano vissuto di fraterne strette di mano e lame incrociate.

- Duchessa, perdonate l'ardire, ma sono certo che ci siamo già incontrati. -

Ed ecco la frase che precedeva l'inevitabile epilogo, che Oscar accolse con un muto sussulto.

Fersen continuò:

- Sì, ne sono certo. Vi ho già incontrato, molte volte... e proprio qui. -

Avvicinò le labbra al suo orecchio, lasciando che l'alito caldo le portasse le parole come una carezza.

- Oscar... sei tu... -

Per un attimo il tempo si fermò e Oscar si sentì sospesa, come quando, da bambina, tratteneva il respiro, contando i rimbalzi dei sassi che lei e André lanciavano a filo sull'acqua. Ma, questa, era una di quelle volte in cui il sasso, coperto di sabbia, le scivolava infido dalle mani e spariva sott'acqua con un tonfo.

Era certa che non l'avrebbe riconosciuta. Aveva imbastito tutto il suo ruolo tenendo a mente frasi di circostanza, inventando una fitta rete di parentele da citare a mezza voce... non era preparata a rivelarsi, non era pronta a dover essere se stessa.

Alzò lo sguardo tremante e incrociò quello di Fersen in una tacita richiesta di silenzio per poi staccarsi da lui, repentinamente, interrompendo la danza, che li aveva visti vicini.

Fuggì a testa bassa, portandosi dietro le facce sbigottite degli astanti. Avrebbero avuto di che parlare per settimane, ebbe la lucidità di considerare. Lei, lei doveva solo sparire.

Oscar corse oltre la sala, giù per le scale, fuori dal palazzo. Corse finché non ebbe più fiato e, quando credette che nessuno avrebbe potuto trovarla, si accasciò accaldata e ansante sul bordo di una fontana nell'oscurità del giardino.

La testa le rimbombava per i troppi pensieri. E adesso? L'essere scappata equivaleva ad una confessione... per quanto tempo si illudeva di riuscire ad evitare un confronto?

Improvvisamente riconobbe il tocco di una mano sulla spalla. Un richiamo inaspettato e deciso, che ebbe il potere di farle tremare la pelle.

- Davvero credevi che non ti avrei riconosciuto? -

- Fersen... non ti ho sentito arrivare - prese tempo. 

Lui la afferrò per le braccia e la costrinse a girarsi a guardarlo.

La teneva stretta, ferma, quasi incollata a sé.

- Che significa, Oscar? Perché quest'abito? Perché prima mi guardavi in quel modo? -

Lei non riuscì a proferire parola, ostinata nel distogliere lo sguardo da lui. Come poteva spiegare qualcosa che neanche lei sapeva spiegarsi? Come poteva dirgli che era andata lì per lui, sperando che riuscisse a vederla come una donna, e nient'altro?

Forse furono i suoi occhi, così bassi, e lucidi, l'espressione indifesa del suo viso arrossato, o, forse, fu l'increspatura delle labbra, quell'arricciarsi per poi ritrarsi subito di chi vorrebbe dire, ma non osa, che valsero per Fersen più di qualsiasi spiegazione.

Oscar era una donna, sì, una donna bellissima, di cui aveva faticato ad accorgersi, ma che, adesso, era lì davanti a lui e gli offriva, senza parlare, una prospettiva nuova ed inaspettata, un sentimento libero da vincoli, libero di essere vissuto appieno, senza rinunce, paure o ripercussioni.

E lui era così stanco...

Le lasciò le braccia prendendole delicatamente il viso tra le mani e lei si abbandonò incredula a quella carezza. Sentì la bocca di lui che sfiorava la sua, come aveva sognato tante volte con talmente tanta forza da non riuscire ad immaginarlo.

È questo un bacio?

Poi la presa delle mani si fece più stretta e le labbra si aprirono un varco e lui frugò nella sua bocca, impetuoso e indiscreto.

È questo un bacio?

Il collo piegato in modo innaturale iniziò a dolerle e la luce negli occhi di lui era lo stesso lampo di bramosia che aveva visto negli occhi di tutti gli altri uomini, così diverso dal modo in cui l'aveva guardata André.

È così che deve essere?

E ricordò quegli occhi verdi e lo sguardo aperto di un uomo che vedeva lei, soltanto lei, grondante di un desiderio pieno e sincero che nulla aveva delle voluttuose occhiate maschili che accompagnavano insistenti qualsiasi donna piacente.

Adesso non rovinare tutto.

E nel disperato tentativo di impedire a se stessa di infrangere il proprio sogno, Oscar si ritrovò a ricambiare quel bacio, a stringersi a sua volta a quel corpo, a sforzarsi di ricordare che questo era ciò che aveva sempre voluto.

In breve, si ritrovarono mano nella mano a camminare verso le carrozze, con i passi che si alternavano a piccoli tratti di corsa euforica, convinti entrambi che abbandonarsi a quella specie di delirio di appassionata incoscienza fosse preferibile alla loro realtà di sofferenza.

Un breve avviso dato al cocchiere, di non aspettarla, di fare ciò che voleva, che dormisse pure in carrozza, e poi un istante di pudore, una richiesta di discrezione che divenne un ordine e poi di nuovo la bocca di Fersen premuta sulla sua e i loro corpi stretti nel buio della carrozza impegnati in una danza che li faceva sobbalzare ad ogni giro delle ruote.

- Fersen... - sussurrò.

- A questo punto potresti anche chiamarmi Hans - fece lui malizioso.

- Tu invece puoi continuare a chiamarmi Oscar - scherzò lei.

Si scambiarono un sorriso, uno dei pochi in quella strana notte, e percorsero tutto il tragitto fino al palazzo di lui, senza staccarsi, evitando di pronunciare anche una sola parola, ricacciando indietro ogni pensiero.

Protetta dal mantello bordato di pelliccia e celata dall'anonimato che, sempre, regala il nero della notte, Oscar scese dalla carrozza e seguì Fersen all'interno del palazzo, fino alla sua stanza.

Nervosa, rimase in piedi al centro della grande camera, mentre lui accendeva delle candele senza smettere di guardarla.

Si avvicinò a lei e sciolse il fiocco che teneva fermo il mantello, lasciando che scivolasse a terra con un fruscio. Passò alle sue spalle carezzandole la nuca con le labbra e sbottonò ognuno dei minuscoli bottoni di madreperla che chiudevano il corpetto. Le tolse gli ornamenti dai capelli, lasciandoli ricadere liberi lungo la schiena. Mentre lei continuava a tacere e tratteneva il respiro, sollevò la gonna e la liberò deciso da tutti gli strati di gonne e sottogonne. Per ultimo cadde anche il vestito e Oscar sentì le mani di Fersen, non paghe, slacciare con perizia i lacci del corsetto, ultimo baluardo a difesa della sua nudità.

Non una parola, non un gesto di tenerezza, non uno sguardo in un momento per lei tanto irripetibile.

Fersen la spogliava con la fredda precisione di un chirurgo.

Di nuovo, ti chiedo, è così che deve essere?

Oscar si sentì un burattino inerme e interruppe quello che le sembrava un rito in cui veniva usata come vittima sacrificale.

Fece qualche passo e si sedette sul letto, sudata e spaventata.

Fersen la seguì, si tolse la giacca e si sedette accanto a lei. Dolcemente, le poggiò una mano sulla spalla e la invitò a distendersi con un sussurro. Oscar si lasciò guidare dal gesto di lui sentendolo di nuovo presente e gli permise di riprendere a baciarla, a toccarla... ma quando si mise su di lei, quando si insinuò con le mani sotto la leggera sottoveste, quando lo sentì accarezzarle ardente le cosce nude, quando con il corpo pesante si fece spazio tra le sue gambe, qualcosa nel profondo del suo essere prese ad urlare, ripetendo incessantemente la stessa domanda.

È così che deve essere?

Lo respinse con tutte le sue forze, con tutta la potenza delle braccia esili, lo allontanò spingendolo indietro con le gambe e quando fu in piedi a fissarla sgomento, Oscar si ritrasse sul grande letto, rannicchiandosi e tendendo sulle gambe la stoffa sottile della sottoveste fino quasi a strapparla.

- Oscar... che cosa ti succede? -

Ma lei non lo ascoltava, cercava di coprirsi e con le mani tra i capelli sciolti ripeteva la domanda che scuoteva la sua coscienza.

- È così che deve essere? È così? È proprio così? -

Fersen cadde seduto sul letto, coprendosi gli occhi. Per la seconda volta quella sera aveva compreso tutto senza che Oscar spiegasse nulla.

Si slanciò verso di lei, realizzando solo allora l'ingiustizia che avrebbe potuto compiersi, e le prese le mani mentre gli occhi si riempivano di lacrime.

- Perdonami Oscar! Perdonami... non credevo di essere capace di un tale atto di viltà... -

Oscar si calmò, abbandonandosi ad un pianto pacato, consapevole di avere anche lei una parte di colpevolezza.

Gli parlò con fermezza, nonostante le lacrime.

- Anche tu devi perdonarmi, Fersen – ammise, mesta. - Ti ho permesso questo, sapendo bene che… tieni ad un'altra persona. Non ho pensato ad altro che ai miei sentimenti. Credevo che fosse ciò che volevo, ma, alla fine, mi è apparso chiaro che non sarebbe giusto per nessuno dei due. -

Fersen tacque, davanti a quelle parole, in cui riconobbe la Oscar che conosceva, così schietta e onesta, da sembrare appartenere ad un altro mondo, così retta da arrivare a voler condividere una colpa che, invece, era soltanto sua.

Si alzò dal letto, profondamente colpito dalle sue parole. Poggiò con dolcezza una veste da camera sulle spalle di Oscar, decidendo di ricambiarne le parole con la stessa sincerità.

- Per un istante, ho creduto che tu potessi essere il modo per fuggire da un amore che mi sta consumando. Ti ho visto così bella, fiera, così, improvvisamente, femminile, che, quando ho compreso i tuoi sentimenti verso di me, ho perso il controllo. Ero come rapito. Ho pensato che tu fossi la sola donna con cui avrei potuto provare ad andare avanti. Ma mentivo a me stesso -, disse accasciandosi su una poltrona. - Mentivo, e, se tu non mi avessi fermato, avrei compiuto la più miserabile delle infamie. -

Oscar ascoltò la confessione, mentre infilava le braccia magre nelle larghe maniche della veste.

La annodò in vita avvolgendola alla meglio intorno al corpo. Ne sentì il calore e si sorprese a pensare che lo preferiva a quello del corpo che la stringeva fino a pochi minuti prima. Preferiva il tepore di una stoffa a quello del petto che aveva sempre creduto di volere. Si sentì disgustata da se stessa. Era così accecata dallo spettro del desiderio, che stava per permettere ad un uomo che non la amava di prenderla e di fare con il suo corpo un tentativo, come farebbe un cacciatore inesperto che preme il grilletto contro una volpe. Uno sparo, un tentativo, pazienza se la volpe perde una zampa e resta mutilata per il resto della vita.

Un cacciatore… o sa uccidere oppure è inutile che spari.

Un pensiero freddo, che la attraversò, affilato e lucido, come una lama.

Eppure non riusciva ad avercela con Fersen. Lui continuava a considerarlo una vittima, tanto quanto lei. Forse erano entrambi una volpe con cui il destino si divertiva a giocare, tutti e due continuamente costretti a scappare dai tiri inesperti, alla disperata ricerca di un cacciatore tanto abile da centrare il cuore, fino a dare loro la pace.

André, sto diventando un maledetto filosofo come te, hai visto?

Ma André non rispose, ancora una volta era solo nella sua testa.

Quante volte aveva già pensato a lui, quella sera? Era talmente abituata alla sua presenza, da immaginarlo al suo fianco anche quando non c'era. E in quel momento non c'era.

Per fortuna.

-Fersen - si riscosse, - non ce l'ho con te. Ho anch'io la mia parte di colpa, anch'io ho ignorato quello che, in fondo, già sapevo. -

- Ma Oscar, tu non capisci! – Esclamò, lui alzandosi dalla poltrona e inginocchiandosi davanti al letto, mentre lei, istintivamente, si ritraeva. - Tu non hai alcuna colpa, sono io che avrei dovuto fermarmi, io che nutro sentimenti per un'altra persona, sono io che stavo per approfittare di te – concluse, fermo.

- Alzati - gli intimò, calma. - Ti ho detto che non ce l'ho con te. Se poi vuoi un'assoluzione completa davanti a Dio, rivolgiti ad un confessore. Se non l'hai notato non faccio il prete. -

Fersen si alzò, soggiogato dall'improvviso guizzo militare nello sguardo e nella voce di Oscar. La fragile, eterea fanciulla di poco prima era scomparsa e il colonnello era tornato insieme al solito piglio burbero.

Percepì il senso di cocente imbarazzo che Oscar stava provando e comprese che quell'atteggiamento era la sua unica difesa davanti alla propria femminilità ferita. Chinò la testa, arreso. Non era vomitandole addosso la sua sofferenza personale che avrebbe potuto ripulirsi la coscienza.

- D'accordo, Oscar, scusami. -

Oscar si alzò.

- A questo punto non credo che dobbiamo dirci altro. -

- E invece sì, - le disse, cingendola. - Qualunque cosa accada voglio che tu sappia che il mio affetto per te è sempre stato sincero e che sei la migliore persona che abbia avuto la fortuna di incontrare. -

Oscar ascoltò quelle parole vibranti, pronunciate con impeto e commozione, e seppe che erano reali, seppe che una parte del cuore di lui le sarebbe comunque appartenuta, anche se non nel modo che aveva creduto di desiderare.

Ma, in fondo, non voleva altro.

Ricambiò l'abbraccio con schietto vigore. Come tra due colleghi militari, si sorprese a considerare. Come se un sano cameratismo potesse davvero salvare i brandelli ormai strappati di quella che era stata una lunga amicizia.

- Lo stesso vale per me. -

Finalmente, spuntò un sorriso timido a sancire la pace di un conflitto mai iniziato, a suggellare la fine di un'amicizia, altrimenti imperitura.

- Mandami qualcuno per aiutare a prepararmi - gli chiese Oscar staccandosi. – È ora che rientri a casa. -

André sarà in pensiero.

Prima che Fersen potesse rispondere, qualcuno bussò alla porta della stanza.

La voce dell'anziano maggiordomo di famiglia accompagnò i colpi, timida e dimessa.

- Perdonatemi, padrone, è giunto un messo con un messaggio urgente di Sua Maestà. -

Oscar e Fersen si fissarono, raggelando. Che qualcuno li avesse visti lasciare la reggia insieme?

Che qualcun altro, oltre Fersen, l'avesse riconosciuta? Oscar si sciolse dall'abbraccio e picchiettò sul braccio di lui per risvegliarlo dallo stato di sbigottimento in cui era piombato.

- Avanti, vai. -

Fersen le fece un cenno di assenso, le strinse il braccio in un ultimo gesto d'intesa, afferrò una giacca da camera e si avviò alla porta.

Rimasta da sola nella grande stanza, Oscar iniziò a raccattare tutti gli indumenti, sparsi sul pavimento. Si muoveva ad un ritmo frenetico per non dar modo alla sua mente di soffermarsi a pensare, ma non poté impedire al groviglio di gonne che reggeva di scivolarle dalle mani in una cascata di seta bianca, quando dalla fessura della porta socchiusa udì una voce inconfondibile, la stessa voce che le risuonava nella testa da ore, la sola di cui ricordasse il suono come della propria.

-Dov'è? -

André.

E Oscar capì ogni cosa, e in quelle poche battute tra lui e Fersen trovò il bandolo della matassa che le circondava il cuore con mille grovigli.

André la amava.

Ecco spiegati gli sguardi furtivi, l'espressione sofferente di chi porta un lutto, il modo fiero di farle da ombra, la presenza costante. Ecco come faceva ad anticipare i suoi pensieri, ad avere sempre la risposta a tutte le sue domande. Ecco perché l'aveva baciata quella notte, anni prima, quando credeva che dormisse. Le aveva dimostrato amore in talmente tanti modi e per così tanto tempo, che il sentimento era diventato tanto consueto, da poterlo ignorare, e, capiva ora, quasi materiale, un delicato oggetto che avrebbe potuto toccare e afferrare e prendere, se solo avesse provato ad allungare le mani.

Invece lei, sciocca, cocciuta, testarda, si era rifiutata di vedere quello che avrebbe dovuto essere palese, continuando a struggersi per un uomo che non la ricambiava e che, ancora adesso, con lei, svestita, a pochi passi di distanza, senza curarsi di difenderla in alcun modo, seguitava a professare ad André il suo amore per Antonietta.

Oscar vide chiaramente la differenza tra i due: da un lato, Fersen, succube, come lei, di un amore irrealizzabile, che solo la sua esitazione aveva fermato dall'usarla per alleviare di appena un poco il dolore che gli gravava addosso; dall'altro André, vittima dello stesso sentimento, che viveva da vent'anni dietro una cortina di silenzio e discrezione, e che, adesso, pur di evitare che soffrisse, si era precipitato a cercarla, incurante del proprio destino. In effetti, in qualsiasi altra situazione, si sarebbe infuriata, mandandolo al diavolo, avrebbero litigato, sarebbe venuta alle mani.

Ma adesso non mi importa.

Ascoltando le parole di André, Oscar si rese conto che, a dispetto della sua ostinata cecità, quell'amore aveva camminato piano, insinuandosi tra le pieghe del tempo, lento, dolce, fino a circondare la sua vita in un abbraccio di ferro. Incredibilmente, incrollabilmente forte.

Per questo il bacio di Fersen l'aveva sorpresa, il suo tocco le era sembrato innaturale, concedersi a lui le era parsa follia.

Lei apparteneva ad altre braccia ed era accaduto senza che se ne rendesse neanche conto.

Voglio tornare a casa.

Oscar uscì dalla porta alle spalle di Fersen arruffata e discinta, pronunciò il nome di André e lo vide cadere in ginocchio, in preda allo sconforto.

 

 

L'epilogo si svolse in pochi minuti, rapido e silenzioso.

André era rimasto a terra, annichilito ed Oscar, resasi conto del suo stato, era tornata velocemente indietro, provando goffamente a rivestirsi da sola, mentre continuava a ripetere:

- Aspettami André, vengo con te. -

Avrebbe voluto gridargli altro, la sola cosa capace di togliergli quell'espressione di sgomento dal viso, di alleggerire l'immenso carico di sofferenza, che gravava sulle spalle di quello sfortunato Atlante.

Non sono sua, André.

Ma non riusciva a parlargli, troppi pensieri agitavano il suo animo e si sentì come uno dei messi delle tragedie greche, con un bove che le pesava sulla lingua, incapace di dire altro.

Fersen taceva, seduto, quasi piegato in due, a poca distanza da André.

Quando Oscar tornò nella stanza, con le braccia piene di tutto ciò che non era riuscita ad infilare, reggendo con le mani l'orlo dell'abito che cadeva troppo lungo senza la complessa impalcatura di sottogonne a sostenerne l'ampiezza, trovò che la situazione fuori non era molto mutata.

Fersen continuava a sedere inerte, l'unica differenza era che André si era alzato, ma il suo volto terreo manteneva l'espressività di una Sfinge. Oscar ebbe una fitta al cuore, ma, prima di raggiungerlo, sapeva di dover fare un'ultima cosa. Si avvicinò a Fersen con passo fermo e, quando fu davanti a lui, liberò una mano dal peso della stoffa e gliela tese.

- Addio, Fersen. -

Lui sollevò gli occhi grigi e vide quelli, limpidi, di lei che lo fissavano puliti, senza ombre, senza rancore, affrancati dalla malia ingannevole che li aveva tenuti inchiodati a lui per tanto tempo.

Si alzò e le strinse la mano con vigore. Come tra soldati. Tristemente, in fondo.

- Addio, Oscar. -

Si dissero addio con un fremito di tristezza, quasi presagendo che era davvero una separazione definitiva. La vita avrebbe portato i loro destini ad incrociarsi solo altre due volte, ma non avrebbe concesso loro il tempo di salutarsi di nuovo.

Oscar lasciò andare la mano, riprese gli indumenti e si voltò. Fersen seguì l'esile e fiera figura che si allontanava, decisa, e si affiancava ad André.

Ne avrebbe sentito la mancanza.

Oscar e André uscirono dal palazzo l'uno accanto all'altra, con due groppi alla gola grossi come macigni, che impedivano ad entrambi di parlare. Oscar vide il cavallo di André legato ad un paletto poco distante ed allungò il passo, posò il malloppo di raso e organza sul garrese, sollevò l'abito e montò in groppa, con le gambe penzoloni, coperte solo dalle sottili calze di seta spiegazzata.

André la guardò con aria interrogativa.

- Io non cavalco all'amazzone. Monta. -

Scosse il capo allibito. Era incredibile, davvero incredibile. Dopo tutto quello che era successo, con lui che si sentiva morire di gelosia, dopo l'umiliazione e, quando si aspettava di essere perlomeno preso a pugni con annessi e connessi, la prima cosa che le veniva in mente di fargli presente era un'assurda questione di puntiglio.

Testarda, cocciuta ed incorreggibile.

Spaesato, turbato, non comprese che, in quell'ordine perentorio di cavalcare con lei, si celava un'implicita richiesta di vicinanza e che, quello, era il meglio che Oscar riuscisse a fare in quel momento. André salì in groppa al cavallo, dietro di lei, e infilò gli stivali nelle staffe, cercando di tenersi distante, reggendo le briglie con le braccia larghe, intimidito dalla possibilità di toccarla e scoprire che la sua mente era altrove.

Mentre André montava a cavallo, Oscar fu investita con un brivido dall'odore del suo respiro.

- Ci sei andato giù pesante con il brandy, eh? Non dovresti. -

André si spazientì e spronò il cavallo.

- Sul serio, Oscar, vuoi parlare di questo? – Ribatté, stanco, provato, stizzito, mentre la rabbia gli liberava la gola e scioglieva i legacci che gli imbrigliavano le parole. - So che non ho nessun diritto di chiederti spiegazioni, ma così non ce la faccio. Urlami addosso, mandami a casa a piedi, pestami, fai quello che vuoi, ma non fingere che non sia successo nulla perché io non ci riesco... non stavolta. - André deglutì e riprese la sua arringa appassionata. -  Mi precipito qui come un folle, ti trovo con Fersen in... in quello stato, tu gli dici addio e io non capisco, mi sembra di impazzire, Oscar! Ho detto che ti amo - continuò deciso, -  ma se, poi, davvero, in tutto questo, ti preoccupano le condizioni del mio fegato - aggiunse sarcastico -, ti informo che, quello, me lo sono giocato anni fa. – Grazie a te. – Concluse, aggiungendo l’affondo finale.

Oscar sapeva che André aveva ragione. Nessuno dei due meritava quello sciocco stillicidio. Doveva parlare, trovare la forza di tirare fuori la verità che lentamente prendeva forma con contorni sempre più netti.

- Me la ricordo, quella sera - disse d'un tratto, dolcemente. - Quella in cui mi baciasti, pensando che dormissi - precisò prima che lui avesse il tempo di intervenire. - Non l'ho mai dimenticato e non sono arrabbiata con te, né per stasera, né per allora. -

- Allora lo hai sempre saputo... -

- Per anni, ho voluto credere che lo avessi fatto per via del vino, o per qualche altro sciocco motivo. Me ne sono convinta. Ero troppo impegnata ad inseguire una chimera per pensare alla realtà. Ma non l'ho mai dimenticato - ripeté. Mai… avevo paura fosse vero…

Oscar percepì che, ascoltando le sue parole, il corpo di lui si rilassava, sentì il petto caldo appoggiarsi alla schiena e le braccia chiudersi, morbide, intorno alle sue. Abbandonò la testa contro la spalla di André, ne fissò le mani dolci, delicate, forti, salde sulle briglie del cavallo, con le lunghe dita affusolate e desiderò che si posassero su di lei. Il pesante mantello non servì a proteggerla dal brivido che provò, immaginando quel tocco, un trasporto interno e incontrollabile che la rapì con una forza quasi ancestrale, del tutto diversa dal tremito nervoso che le aveva suscitato Fersen.

E, con André accanto, nessun fantasma col suo volto le agitava i pensieri. Era lì, con tutta se stessa.

È così che deve essere.

- È strano quanto siano veloci i mutamenti dell'animo. -

- Oscar, così mi uccidi. -

- Io speravo che lo avessi capito anche tu, quando ho detto addio a Fersen... stasera, già prima che tu arrivassi, ho compreso molte cose... e sappi che non è accaduto niente - confessò con imbarazzo.

André si abbandonò ad un sospiro di sollievo così profondo, che, per un istante, il corpo divenne più pesante ed Oscar si sentì quasi schiacciare dal suo peso.

- Sai, in questo, mi sono accorta che sono… - cercò le parole, imbarazzata, – come molte donne - disse lei per allentare la tensione. –Tengo a me stessa. -

André la cinse con forza, ignorando l'imbarazzo di lei, come quello che anche lui provò, nel sentirla alludere così sfacciatamente al fare sesso o no. La strinse, posando il capo nell'incavo del collo, infilò un braccio sotto al mantello per stringerle la vita sottile. Le parlò, le labbra incollate sulla pelle nuda.

- Devi dirmi perché me lo stai dicendo. Dimmi che cosa significa. -

Oscar arrossì, il respiro si fece affannoso.

- Perché vorrei averti dato ascolto. Vorrei che fossi venuto tu, con me, al ballo. Vorrei aver capito prima che quest'abito era per te. -

André si sentì sciogliere. Incredulo. Colpito. Affondato. Il cuore che si riaccendeva. Sorrise e la strinse più forte, per sentire che era Oscar, vera e vibrante tra le sue braccia, e non una delle evanescenti fantasie oniriche che lo avevano tormentato durante tutta la giovinezza.

Ma lei era lì, reale, la mano, che le aveva posato sul petto, sussultava insieme al suo cuore pulsante.

- A questo si può ancora rimediare -, le sussurrò tirando leggermente le briglie per fermare il cavallo.

Smontò tendendole la mano e la invitò a scendere. Oscar lo seguì e trovò il suo abbraccio caldo che la accolse, in una danza lenta. E danzarono, a lungo, mentre l'orlo del vestito troppo lungo diventava una scena campestre, dipinta con i colori dei petali dei fiori e il verde dei fili d'erba coperti di rugiada.

 

 

Pubblicazione del sito Little Corner giugno 2020

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