La nascita di un'amicizia
parte I
L'estraneo
Traduzione: Silvia Clerico
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Una
solida berlina con dipinto sulle fiancate lo stemma dei Jarjayes – un leone
blu sorreggente una sciabola – tirata da una vigorosa pariglia di cavalli dal
manto maculato di grigio attraversò il viale polveroso della tenuta prima di
arrestarsi ai piedi dell’elegante porticato marmoreo del castello.
Sul
porticato si era assembrato un piccolo gruppo, composto dai principali abitanti
della residenza. Un lacchè dalla livrea color giunchiglia aprì rispettosamente
la portiera per lasciare scendere una dama piccola e di una certa età, il cui
piccolo piede, calzato di scarpette di vernice lucida, si posò con leggerezza
sul prededellino di ferro della vettura. Un copricapo le nascondeva i capelli,
tirati impietosamente indietro. In segno di lutto indossava un severo abito
nero, dal collo viola. Il volto grave, i tratti tirati, gli occhi umidi nascosti
dietro lo schermo trasparente dei piccoli occhiali, senza dubbio affaticata per
il lungo viaggio la donna accettò, con un piccolo sospiro di stanchezza, la
mano offertale per scendere dalla carrozza.
La
dama in lutto teneva tra le braccia un bambino, anche lui vestito di scuro, che
per un essere tanto giovane mostrava un’aria molto seria, e che si aggrappava
a lei come un scimmietta, tenendole le braccia serrate dietro il collo.
Dall’alto dei suoi sei anni, era un adorabile ragazzino dal viso rotondo
incorniciato da riccioli scuri, nel quale brillavano due pupille verdi, pure e
innocenti come il fiore di angelica che sboccia in primavera nelle valli di
Poitiers.
Non appena ebbe messo piede a terra l’anziana signora depositò con cautela il bambino al suo fianco, e strinse una delle sue piccole mani nella propria, in un gesto protettivo. Il ragazzino osservava con stupore l’elegante e maestosa dimora in stile rinascimentale le cui ali esteriori rientravano su se stesse, quasi a cingere il grande portone d’entrata, davanti al quale si ammassava la servitù del castello, venuta ad accogliere i viaggiatori.
Un
uomo, alto e di nobile aspetto, si distaccò dal gruppo per avvicinarsi ai nuovi
venuti, un grande sorriso sul volto. Indossava una parrucca incipriata ed era
vestito di un’uniforme blu notte, abbondantemente decorata dei suoi meriti
militari.
“Ah, eccovi finalmente! Cominciavamo ad essere in pensiero. I vostri servizi sono decisamente preziosi in questa casa, e sapete rendervi troppo indispensabile. Spero che il viaggio non sia stato troppo penoso.”
“No
generale. Il viaggio è andato bene, anche se non v’è stato certo motivo di
gioire. I funerali di Jean e Marguerite sono stati davvero provanti. Erano
troppo giovani per morire…” rispose l’anziana donna asciugando con il
fazzoletto una lacrima che faceva capolino all’angolo dell’occhio.La sua
voce si era spezzata sulle ultime parole, al doloroso ricordo dei momenti penosi
che aveva recentemente vissuto.
“Ah,
che tragedia. Ancora una volta, vi offro tutte le mie condoglianze per la
perdita di quelle persone care, che hanno sempre servito con lealtà la nostra
famiglia. Ci portate quindi il piccolo dei due sfortunati, come d’accordo?”
riprese il generale
“Sì generale. E’ mio nipote, André. Ora che i suoi genitori sono scomparsi, non ha che me al mondo” rispose l’anziana dama guardando teneramente il bambino.
“E’
un vero peccato. Ma sono certo che si troverà bene qui. Non è vero piccolo?”
fece il generale, stavolta all’indirizzo del fanciullo. E davanti al silenzio
di quest’ultimo che, aggrappandosi più saldamente alle gonne della nonna,
osservava quel gigante con sguardo sospettoso: “Non avrai paura di me,
vero?”
Senza
attendere la risposta, il cui arrivo peraltro appariva sempre più improbabile,
il generale si voltò verso il gruppo che affollava la scalinata e tuonò con
voce stentorea: “Oscar!”
Davanti
agli occhi sbalorditi di André, un po’ accecato dal riflesso del sole, un
bambino all’incirca della sua stessa età, che si era tenuto nascosto
nell’ombra protettrice della servitù per poter osservare a suo agio
l’arrivo del corteo, si distaccò dal gruppo e s’avvicinò senza grande
fretta, con passo strascicato.
“Oscar,
avvicinati! E più velocemente di come stai facendo!” ribadì il generale in
un tono autoritario che non lasciava spazio a repliche.
Il
bambino – o meglio, la bambina - obbedì con flagrante mancanza di entusiasmo.
Aveva voglia di gettarsi tra le braccia protettrici della sua nutrice, che aveva
riconosciuto al primo colpo d’occhio e che le era davvero mancata, ma la vista
dell’”altro”, di quell’estraneo che la nonna teneva per mano con
evidente affetto l’aveva frenata nel suo slancio. Si fermò a mezza strada tra
i domestici del castello e il piccolo gruppo formato da suo padre e dai
viaggiatori, studiando il nuovo arrivato con occhio critico, senza dire una
parola, mentre suo padre proseguiva: “Oscar. Questo giovanotto si chiama André.
I suoi parenti sono da poco scomparsi, e lui è ormai orfano. L’ho fatto
venire qui perché possa riunirsi alla sua unica parente, e sperando che ti
tenga compagnia.”
Oscar,
conservando il suo silenzio testardo, si accontentava di osservare ad occhi
socchiusi, come un gatto punta un topolino, le reazioni del nuovo venuto. Era
molto pallido con i suoi vestiti scuri e i capelli bruni raccolti sulla nuca con
un nastro nero. Solo gli occhi, smisuratamente grandi, di un verde tenero e
incorniciati da lunghe ciglia scure, dolci e calmi, sembravano vivere in quel
viso grave e posato. Degli occhi da cane fedele, pensò Oscar, onesti, innocenti
e chiari come l’oceano limpido nel quale si bagnano ai tropici quelle isole
lontane dai paesaggi esotici, degli occhi che la guardavano come nessuno
l’aveva mai guardata prima.
In
effetti, di fronte a quell’apparizione che avevano chiamato “Oscar” André
si era spontaneamente staccato dall’abito della nonna, e aveva spalancato gli
occhi, senza cercare di nascondere la sua ammirazione, divorando letteralmente
con gli occhi quella forma snella brillante come una statua d’oro al sole, una
statua viva sotto la sua apparente immobilità, ma curiosamente ambigua.
Irresistibilmente attratto dalla luminosità che la bambina sembrava emanare,
avanzò lentamente verso di lei, come il credente che contro ogni aspettativa
incontra infine la sua divinità.
Malgrado
i suoi pantaloni, i suoi stivali da cavallerizzo ben lucidati e la sua camicia
di taglio maschile, malgrado quell’inusuale nome maschile di Oscar – come
l’aveva chiamata il padrone di quella dimora – era senz’altro una
ragazzina, la più piccola che avesse mai visto!
Impulsivamente,
senza riflettere, le tese la mano e le rivolse un sorriso invitante, scoprendo i
piccoli denti candidi, sorriso al quale dopo un attimo d’indecisione Oscar
rispose timidamente.
Allo
stesso modo, accettò la mano tesale così generosamente, e la strinse, sentendo
sulle spalle il peso minaccioso dello sguardo di suo padre.
“Buongiorno…
Oscar?” azzardò André
“Buongiorno
André. Benvenuto in questa casa.“ rispose Oscar con un piccola fiamma
ironica in fondo agli occhi. Benché molto giovane, Oscar cominciava a prendere
coscienza della sua ambiguità, di tanto in tanto riconosciuta anche da chi
viveva con lei e vi era quindi abituato. Niente di strano che un estraneo avesse
una reazione così forte davanti a lei. In ogni caso, inaspettatamente,
”l’estraneo” non fece nessun commento, e si accontentò di contemplarla
con grande sorpresa, con aria tranquilla e gentile. Tutto sommato, sembrava
simpatico.
Una
volta terminate le presentazioni, su un cenno del generale, tutti rientrarono, e
la nonna condusse André alla camera che gli era stata assegnata, seguita da due
valletti che portavano i bagagli. Una volta sola col nipote, lo fece accomodare
su una sedia, e si inginocchiò accanto a lui, al fine di mettersi alla sua
stessa altezza e ispirargli fiducia. Quello che doveva dirgli era estremamente
serio, e, ansiosa di rassicurarlo, la vecchia dama iniziò a spiegare al bimbo
l’inspiegabile, l’insensato, in una parola l’inconcepibile situazione
della bambina che un capriccio del signore del palazzo aveva trasformato in
ragazzo e, soprattutto, il ruolo che André avrebbe dovuto giocare in questa
sinistra commedia, sempre per soddisfare i capricci di un padre tirannico.
“André,
questa ormai è casa tua. Qualunque cosa accada, tu ne devi parlare a me, e a
nessun altro, hai capito bene?” E, a un segno affermativo del ragazzo, proseguì
nella sua tirata: “Cosa ne pensi di Oscar? E’ l’unico figlio del generale
e a tal titolo è l’unico erede dell’antico nome della casata, così come di
tutte le proprietà e le fortune ad essa collegate. Tu gli dovrai rispetto,
sottomissione e obbedienza. Il generale ha avuto l’estrema bontà di
sceglierti come compagno e servitore di suo figlio. Spero saprai mostrarti degno
di questo onore ed essergliene riconoscente.”
“Ma
nonna… è una femmina, l’ho visto benissimo. Perché dici che è il figlio
del generale? Perché porta i pantaloni?” ribatté logicamente André, gli
occhi pieni di innocente candore.
“Sì
André, hai ragione, Oscar è una bambina, ma agli occhi del generale è un
maschio, perché lui è il signore di questa casa, ed ha deciso così. Davanti a
lui, tu dovrai sempre trattare Oscar come un ragazzo, e utilizzare il maschile
rivolgendoti a lei. Hai capito bene? In caso contrario, incorreresti nella
collera del generale…” rispose la nonna, con un tono così debole che non
fece che provocare le proteste del ragazzino.
“Ma
nonna…non voglio una femmina come compagno di giochi. In Normandia almeno
potevo frequentare dei bambini della mia età. C’era Pierre, il figlio del
palafreniere che aiutavo ad accudire i cavalli. Non voglio giocare alle
bambole!” esclamò, assumendo un’espressione imbronciata, le braccia
incrociate sul petto e gli occhi fissi al suolo.
“Non
dovrai giocare alle bambole” si difese la nonna, sforzandosi di sorridere per
calmare la legittima ribellione del nipote. “Se il generale ti ha scelto, è
proprio perché tu serva da modello maschile a Oscar. Avrai invece la possibilità di cavalcare, imparare a tirare
di scherma, di istruirti allo stesso modo di un qualunque gentiluomo di nobili
natali. E vedrai, le vorrai bene, la nostra piccola Oscar, perché non si può
non volergliene…” riprese con slancio l’anziana donna. “Io la considero
come una nipotina, al pari tuo”. La sua voce si era incrinata su queste ultime
parole.
“D’accordo,
ci proverò” conciliò infine André, improvvisamente convertitosi a migliori
sentimenti. Qualcosa nel tono della nonna l’aveva convinto, forse le parole
“non si può non volerle bene…”, e sentiva le sue reticenze sciogliersi
come neve al sole, al ricordo della curiosa e affascinate bambina-maschio che
aveva visto per pochi istanti.
“Bene
allora. Ora ti lascio solo per alcuni minuti. Monsieur de Priam, il precettore
di Oscar, sta per arrivare per la sua lezione quotidiana. Penso che desidererà
conoscerti. Tu non devi fare altro che aspettarmi qui pazientemente. Non ci
metterò molto. Ti verrò a chiamare quando sarà ora. Mentre aspetti, puoi dare
un’occhiata a questa camera, che da ora in poi sarà tua. Non la trovi
graziosa? E’ sistemata meglio delle strette abitazioni dei domestici, e penso
che ti ambienterai in fretta.” riprese la nonna con un sorriso di
incoraggiamento.
E la
donna lasciò il nipote in solitudine per qualche istante. Non appena fu uscita,
André si mise a misurare la stanza a grandi passi, esaminando attentamente la
disposizione dei mobili e degli oggetti, che, per quanto modesti, nondimeno
costituivano per lui un lusso del tutto nuovo, a cui non era abituato.
Quell’immensa dimora era ormai la sua casa. Cosa c’era da aspettarsi dai
suoi abitanti e dal suo padrone? Come sarebbe stato l’avvenire? Aveva perduto
i suoi genitori, portati via improvvisamente dal vaiolo, e nel trambusto dei
funerali non aveva quasi avuto tempo per il dispiacere; ma ora la perdita e la
solitudine si facevano sentire crudelmente. Non conosceva nessuno in quella
dimora, e solo la nonna gli dimostrava della simpatia, benché lui non
l’avesse vista molte volte, visto che le sue funzioni di governante lasciavano
poco tempo alle visite ai familiari in Normandia… E poi c’era quella strana
ragazzina che si atteggiava a maschio, di cui sarebbe stato il servitore. André
comprendeva vagamente che il mondo si divideva in padroni e servitori, e che la
sua nascita gli aveva attribuito un posto tra questi ultimi, come ai suoi
genitori, anche se non comprendeva ancora la portata delle implicazioni che
derivavano da questo.
In
mezzo a queste riflessioni, perso nella contemplazione del paesaggio esterno –
la finestra della camera guardava sul parco – si sentì sulle spalle il peso
di uno due occhi puntati su di lui. Girandosi verso la stanza poté vedere il
suo nuovo “padrone” che, a pochi passi da lui, lo squadrava senza dire una
parola.
Apparentemente,
le differenze tra quella bambina e le creature del suo stesso sesso non si
limitavano all’abbigliamento, ma si estendevano anche alla favella. Le
rappresentanti del genere femminile che aveva incontrato fino ad allora, a
cominciare da sua nonna, erano tutte delle incredibili chiacchierone, mentre
questa sembrava aver perso l’uso della lingua, trincerandosi ostinatamente
dietro un mutismo testardo.
Sostenendo
impassibilmente il suo sguardo glaciale, andò verso di lei, le si accostò
vicinissimo e sporse il viso contro il suo, fino a che i loro nasi non trovarono
quasi attaccati. Oscar non protestò contro quella inabituale e insolente
familiarità che la riduceva quasi al livello di un insetto raro studiato
sapientemente da un entomologo curioso. André poté quindi esaminare a suo
comodo l’incarnato candido come un giglio, gli occhi blu come piccoli
non-ti-scordar di me, il naso sottile e le labbra dalla linea nobile. Malgrado i
suoi capelli tagliati purtroppo molto corti, le cui ciocche ribelli ricadevano
in riccioli dorati sulla nuca e su una parte del viso, la diagnosi finale
riconfermò la prima impressione del bambino: era proprio una femmina. Una
ragazzina più piccola e più fragile di lui, dall’aria già mascolina, non
fosse altro per quello sguardo beffardo e difficile da sostenere ma davanti al
quale André, forte delle spiegazioni appena ricevute, rimase impassibile.
L’esame
sembrò soddisfarlo, dal momento che, dopo essersi allontanato di qualche passo
per poter meglio apprezzare l’insieme, la apostrofò sfrontatamente,
abbandonando prima ancora di averlo adottato il “voi” che il suo rango gli
avrebbe imposto: “Che
fai là? Cosa vuoi?”
“Volevo
vedere meglio il servitore che mio padre mi ha assegnato” rispose audacemente
Oscar. La bambina, orgogliosa per natura, voleva giudicare da sé la tempra del
nuovo venuto.
“Non
sono il tuo servo” ribatté André con dignità.
Ella
non diede a vedere se la risposta l’avesse infastidita o meno,
accontentandosi di atteggiare un freddo sorriso, che non arrivò a illuminarle
lo sguardo.
Da
quando aveva memoria, non aveva mai avuto compagni di gioco della sua età, e
solo la nutrice, unica presenza femminile per Oscar, si era più o meno occupata
di lei. Ma la nonna di André aveva le giornate molto piene, e gli impegni come
governante della casa lasciavano poco tempo a tutte quelle dimostrazioni di
affetto tanto necessarie ai bambini in tenera età. Sballottata tra i numerosi
domestici della residenza, “l’erede” del nome dei Jarjayes aveva imparato
molto presto il significato della parola autonomia,
e soprattutto ad affrontare con coraggio quel temibile signore che era suo
padre. Oscar aveva imparato a rispettarlo, a temerlo, ma soprattutto a celare il
suo timore, a trattenere le lacrime e a non lamentarsi degli sforzi. Le sue
proteste e i suoi tentativi di ribellione venivano sempre duramente domati, e la
voce collerica e autoritaria del generale era almeno altrettanto temibile delle
enormi mani di cui, più di una volta, aveva assaggiato la rudezza sotto
l’effetto violento delle sculacciate.
La
spada, che cominciava a padroneggiare, era pesante per le sue braccia bambine,
ma lei si sforzava di tenerla bene dritta, i muscoli così tesi da dolerle per
lo sforzo. Appena aveva cominciato a camminare l’avevano seduta in groppa a un
pony ribelle. Nonostante le frequenti cadute, la sua legittima paura infantile e
le sue proteste, aveva dovuto imparare a tacere e fare quello che le veniva
detto senza emettere un suono. Solo la nonna le dimostrava un po’ di tenerezza
in quell’universo rude e senza pietà. Era la sua nutrice, e Oscar non
conosceva altra madre che lei, in quanto la sua vera madre, una nobile dama,
compiva i suoi doveri a corte, e non aveva che poco tempo da dedicare ad una
bambina di cui, oltretutto, il padre aveva prefissato d’autorità
l’educazione.
E poi,
d’improvviso, le portavano un compagno, il nipote della sua nutrice. Che
cos’era dunque questo nuovo tranello che le tendevano per testare la sua
forza, o magari la sua debolezza? L’esperienza della sua breve vita aveva
insegnato a Oscar a diffidare dei regali offerti gratuitamente, potevano essere
velenosi o pericolosi. Il “regalo” sembrava a dire il vero un po’ a
disagio e disorientato. Niente di straordinario, visto che aveva appena perso i
genitori. In più, la bambina cominciava a essere francamente imbarazzata da
quella mania che aveva lui di sbirciarla di continuo senza ritegno, con quella
specie di estasi in fondo agli occhi, come se fosse stata un’apparizione
celeste venuta da un altro mondo. Oscar aveva capito che le persone abbassavano
lo sguardo dinanzi a lei quando adottava un certo atteggiamento. Ma quel
ragazzino non sembrava minimamente impressionato e alla fine fu lei a cedere
dandogli le spalle.
“Perché
mi guardi con tanta insistenza?” si decise a dire con tono burbero.
“Perché
sei una ragazza e ti trovo carina” rispose André in tutta franchezza.
All’annuncio
di questo complimento inusuale ma sincero, l’interessata si voltò di colpo,
lo fulminò con lo sguardo e rispose implacabilmente: “No,
hai torto. Sono un maschio, hai capito? Un MASCHIO!!! E niente altro!” gridò
con violenza.
Da
sempre suo padre le aveva insegnato che lei era un maschio, che doveva
comportarsi come tale e che era inaccettabile e vergognoso che lei adottasse
qualunque maniera femminile. Fino ad allora, questa logica l’aveva sempre
convinta, ma il suo isolamento da altri bambini della stessa età le aveva
impedito di fare gli opportuni paragoni. Paragoni spiacevoli e imbarazzanti ai
quali si trovava messa di fronte brutalmente da questo André, che con quella
semplice affermazione, aveva l’audacia di rimettere in discussione tutto il
suo universo chiuso e protetto. Il dubbio si insinuava ora viziosamente nello
spirito di Oscar, facendo vacillare tanto le sue convinzioni quanto il suo aplomb.
“Ho
gli occhi per vedere, e quello che vedo è che sei una femmina vestita da
maschio. Se vuoi che siamo amici, non mi devi dire bugie”, fece lui con
dolcezza. E davanti al tentativo di protesta di Oscar: “Ti dimostro che sei
una femmina”, continuò impassibile André alzando le spalle. Poi,
avvicinandosi di nuovo alla ragazzina, la abbracciò familiarmente e, scostando
con la mano destra i riccioli ribelli, prima che lei potesse emettere un suono,
le posò teneramente le labbra sulla fronte. “Credi che ti avrei baciato se tu
fossi quello che dici di essere?”.
Oscar,
lo sguardo smarrito, le gote in fiamme di fronte a questa umiliante evidenza che
distruggeva tutte le sue convinzioni, si tirò bruscamente indietro.
Precisamente nel punto in cui era stata baciata, la fronte le bruciava come se
le labbra l’avessero marchiata col ferro incandescente. I segni di affetto
erano quasi inesistenti per la ragazzina, e non aveva mai veramente sperimentato
un contatto umano caloroso. Una strana, nuova emozione l’aveva colta,
sconvolgendola al punto che trovò più sicuro cercare nella fuga il rimedio a
quelle parole la cui origine le era ancora sconosciuta.
Camminando
all’indietro fino alla porta, la mano destra incollata sulla fronte come per
cancellare un segno invisibile, se ne fuggì correndo, senza trovare niente da
rispondere a un gesto d’affetto inatteso.
Da
parte sua, André era ancora più spiazzato dal comportamento incomprensibile e
inspiegabile di Oscar. Sentiva ancora sulle labbra l’invitante profumo emanato
dalla pelle della bambina. Era la prima volta che baciava una ragazza, e sentiva
uno strano turbamento. Il suo stomaco era come pieno di farfalle, e il suo cuore
batteva ad un ritmo più rapido, un po’ come se una freccia l’avesse
trafitto. Era una sensazione nuova, ma tutto sommato piacevole, e gli dispiaceva
che lei fosse scappata via così in fretta. Venne preso imperiosamente dal
desiderio di rivedere i suoi occhi battaglieri, dalla sfumatura così rara, i
suoi riccioli dorati, il suo musetto da gattino selvatico. Era incapace di
definire lo stato in cui si trovava, e sarebbe stato sorpreso se gli avessero
detto che tutto ciò aveva un nome ben preciso, un nome denso di significato, di
gioia e sofferenza, un nome che i trovatori e i poeti di tutti i tempi avevano
cantato con grazia come di un utopico paradiso: l’amore.
Era
tutto preso nelle sue riflessioni interiori quando la nonna entrò allegramente
nella camera, di ritorno dopo un momento d’assenza come promesso:
“André!
Spero di non averci messo troppo. Monsieur de Priam è arrivato per la lezione
quotidiana di Oscar. Devi assistervi anche tu, secondo gli ordini del generale.
E poi così avrai l’occasione di fare più ampia conoscenza con la tua nuova
amica.”
“L’ho
vista nonna. E’ venuta qui. abbiamo potuto…fare conoscenza, come dici tu”
disse sognante.
“Ah sì?
E dimmi, cosa ne pensi? E’ adorabile la nostra padroncina, non è vero?”
riprese la nonna con gli occhi brillanti di speranza.
“Penso
che avevi ragione. Andrò d’accordo con Oscar. Deve essere difficile non
volerle bene”.
“Meraviglioso!
Ora però vieni con me, o finirai per fare tardi alla lezione.”
E la
nonna prese la mano di André e stringendola nella sua lo trascinò per le
stanze del palazzo, che al bambino sembrava il più complesso dei labirinti,
fino a che non ebbero raggiunto la sala di studio. Cominciava una nuova vita…
Continua
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Traduzione: Silvia Clerico Mail to s_clerico@hotmail.com