Un amore impossibile - Aside

– Nel ritorno –

Warning!!!

 

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La fa rovesciare pigramente, mentre le sfiora le natiche. La sente gemere.

Con le dita, la percorre, cercandola. Ora si inarca e gli piace questo gesto animale, nel sospiro roco che trattiene tra le labbra.

È proprio bella, considera, mentre, col respiro, con la bocca, con le mani, la copre. La cerca.

Ne cerca il ventre teso, a contatto con le lenzuola. Più su, i seni che ora domina nel palmo della mano, tra i suoi sospiri. Le serra i fianchi, in un gesto ancestrale. Ha prolungato più che poteva il piacere. Gli fa male, tanto vuole starle dentro. Duro, lo lascia scorrere contro di lei, bagnata. Una leggera pressione.

Ma lei comprende, e si gira di scatto. Uno sguardo che lo blocca.

“Avanti, non rischiate niente, ve l’ho detto.” Quasi la canzona. “So come fare, altrimenti…”

Continua a fissarlo, trattenendo il respiro che le solleva i seni tra i capelli.

Quell’immagine lo fa impazzire, e lo sconfigge.

“Siete troppo bella…”

Scuote la testa, quasi incredula, lei. Eppure sono giorni che la cerca, in quel modo fugace, da quando è tornato dalle Americhe. Lì, in casa di lei.

“Venite qui…”, e, prendendola per i polsi, poi per i fianchi, non cessa di carezzarla. Di tendere a lei. Che ansima. Le sente battere il cuore a mille, le labbra lungo il ventre, la pelle contro la sua, il respiro più serrato, profondo, finché la vede, pronta.

“Non lo capite che voglio darvelo?” Quasi la implora, con quell’accento indefinito. “Vi voglio stare dentro.” “Non mi volete?”

Poi, sapiente, schiudendola con le dita, cercandola con le labbra, la finisce, lentamente, senza lasciarla neanche quando lei lo implora di fermarsi, fino a quando, scossa da ondate febbrili, la assapora a lungo tra le labbra. Poi, lentamente, la abbraccia, da dietro, cullandola contro di sé.

Dopo, accanto a lei, mentre la accarezza, sfiora, tocca, si finisce, languido, potente.

 

“Non capisco perché non volete farlo…”, le dice, più tardi, mentre si riveste e lei, controluce, gli appare quasi una dea innaturale. Irraggiungibile. “In fondo, l’avete già provato…”

“Non vi riguarda”, gli risponde.

La raggiunge, prendendole un polso.

“Domani”, le sussurra contro una spalla nuda.

 

Non parla ancora di tornare a corte, né di cercare un alloggio, anche se si è già mosso.

André, rabbuiato, scruta l’ospite e vorrebbe non aver intuito, ma sa.

 

Oscar suona il piano, nelle sue stanze. La raggiunge da dietro.

“Ah, grazie André”, gli dice, quando sente il vassoio poggiato sul marmo.

Senza andarsene.

“Posso restare?” Azzarda, quasi intimidito. Una volta, non doveva chiederglielo. Una volta erano diverse le cose, tra loro.

Alza le spalle, lei. “Certo, perché no?” Una risposta che si dà per cortesia, non per affetto. Quanto è cambiata, Oscar, in questi anni, si ritrova a pensare. Quanto è diversa. Più buia, più triste. E si ritrova triste anche lui, anche se, col tempo, sta cercando di non essere spazzato da quelle sue tempeste, sta cercando di imparare a proteggersi. Farsi la propria vita.

Prende una sedia e le si mette accanto. Lei, sorpresa, si lascia sfuggire un sorriso.

“Come ai vecchi tempi”, gli dice. Né triste, né appagata. Una constatazione che quasi naviga nella distanza neutra.

Lui sorride, un po’ triste. Certo, ma allora eri mia. Annuisce, ma lei non può vederlo. Vorrebbe passarle un braccio sulle spalle, tra quei capelli. Darle un bacio, leggero. Ma sente, oscura, come un divieto ulteriore a quelli che già esistono tra loro, la presenza dell’altro.

 

“Adoro il vostro ventre”, mentre la lingua guizza dentro, attorno all’ombelico, strappandole gemiti e sospiri. “Non sapete cosa vi farei…”

 

Più tardi, sudato, resta ad osservarla avvolta nelle lenzuola, ansimante.

È cominciata un tardo pomeriggio, nelle stanze in cui lui suonava per lei. Improvvisamente ha staccato le dita dalle corde dallo strumento. La guardava in un modo strano e lei neanche ci aveva fatto caso. Stava solo lì, ad ascoltare. Era bella, quella musica. Questo pensava. Non pensava più a lui da tanto tempo. Non c’era più lui. C’era stato André. Poi…

Invece quel pomeriggio, lui era lì, davanti a lei. Inginocchiato a cercare il suo grembo. Il seno. Le labbra. Tutto sembrava irreale.

Se lo era ritrovato sulla pelle, che la domandava, senza sapere neanche cosa dire. Aveva pensato che fosse l’astinenza. Ma, da quello che si diceva, a Parigi, almeno, aveva ripreso i suoi contatti. Era qualcosa di diverso. Forse era curioso. “Siete splendida”, aveva detto, quando era riuscito, dopo varie proteste, a vederla nuda. E il resto era stato farla godere, senza prenderla. Quello solo aveva detto, lei, consentendogli quei gesti, senza quasi chiedersene la ragione. E neanche lo voleva.

Lo lasciava fare, si lasciava baciare, succhiare. Non sapeva quanto sarebbe andato avanti. Sapeva solo che sarebbe finito. In fondo, non aveva nessuna importanza. Non la saziava, ma poteva andare.

 

Si avvicina ai vetri. Ha sentito rumori in basso. André gli ha portato il cavallo e neanche aspetta se ne vada. Le pare abbia un’espressione dura.

 

La raggiunge mentre suona. Quasi aderisce al suo corpo. Ne sente i fianchi accanto alla sua schiena. “Resta…” gli dice.

Gli viene duro.

 

Contro i cuscini, ansimante, il seno teso, lo osserva mentre si impegna a darle piacere. Cerca di registrare le sensazioni.

“Non ho mai visto un corpo come il vostro…”

Si domanda se voglia essere un complimento.

“Mi piacete…”

Ne sente il membro sul ventre, contro di sé. Poi, appena sfiorarla. Bagnato di lei.

“Non tornate dalla regina?”

La osserva, neanche sorpreso, sollevandosi appena verso di lei. “Dovrei?”

“Ne sarebbe felice.”

“E voi?”

 

“André, credo che Fersen stia cercando una residenza a Parigi.”

Si volta a guardarla, quasi impassibile, il respiro appena trattenuto.

“Puoi trovare qualche indicazione da passargli?”

Aggrotta le sopracciglia. Deve pure aiutare il rivale? “Scusa, ma…”

“Desidero che lasci quanto prima casa nostra.” E sottolinea l’aggettivo con una sfumatura più calda, come d’affetto. “Che torni a corte e si presenti alla regina”. Gli sfiora giusto il dorso della mano.

“Dopo cena, passa da me…” aggiunge.

 

“Ho trovato una residenza. A Parigi.”

“Bene”, risponde lei, neutrale.

“Penso di tornare a corte.”

“Certamente. Doveva finire.”

“Non potremmo… continuare…”

Alza le spalle, lei. “No. Non ha nessun senso.”

“Sì che lo ha. Ci piacciamo. Stiamo bene insieme.”

Scuote la testa, lei. “Non è quello che voglio.”

“E cosa volete?”

“Non questo…”

“Cosa? Credete nell’amore, in fondo?”

Lei aggrotta le sopracciglia. Si alza sui gomiti.

“Volete André, ma non potete averlo?” La incalza. “Non osate, perché non è nobile? Dite, è con lui che l’avete fatto? E poi, cosa è successo?” Il viso a un soffio da quello di lei.

Lei, ferita, distoglie lo sguardo.

Poi, vinto dal silenzio, abbassa la testa. Lei ne sente i capelli sul seno. Glieli accarezza. “Io ad André voglio bene…” confessa a voce bassa.

“Forse volete dire che lo amate…” mentre, mordendole il capezzolo, le strappa un gemito, quasi a farle male.

 

Non vuole pensare alle parole che le ha detto. Né vuole ricordare André, quando lo facevano, come disperati, nascondendosi. Abbracciandosi, baciandosi. Era anni prima.

Lui la cercava, impetuoso, poi amorevole, pieno di attenzioni, pronto a darle piacere. Non ha dimenticato niente. Ha solo seppellito nella memoria. E, ora, in un brivido, lo rivede su di sé, pelle contro pelle, lo risente, dentro.

Quando, inarcata contro di lui, lo cercava coi seni, col ventre, e quel contatto, quella pressione dei loro corpi, la faceva impazzire.

Ha amato solo lui.

Lo rivuole.

Nella pancia. Dentro.

Lo rivuole addosso.

Che la succhiava, la leccava come nessun altro, dopo. Che le voleva bene, era innamorato, e glielo sussurrava, mentre lo facevano, mentre la baciava, dolce. E, poi, con un ardore infinito, glielo metteva dentro, intenso, lento, con trasporto, mentre la portava con sé, rapendola, cullandola.

E lei aveva imparato ad avvolgerlo, chiederlo col movimento dei muscoli, farlo impazzire, quasi venire. Era come una sfida, ogni volta, provocarlo fino al limite. E lui, resistere.

 

Con uno sguardo oscuro, ora, scruta lui che le morde i capezzoli, facendole male, e la fa aderire alla sua pelle.

“Come siete bella… avevo così voglia di voi…” E le fa scorrere la lingua lungo l’ombelico e lei si inarca e scaccia il ricordo di André, accomodandosi contro di lui, che gioca coi suoi seni e le cinge i fianchi. Poi, respirandole contro, le scivola in basso e la schiude.

“Voglio dirvi addio con un ballo. Voglio solo questo. Poi, sarà finita. Lo prometto.”

“Che cosa?” Alza lo sguardo su di lui, perplessa.

“Una volta sola. Voglio ballare con voi. Vestita da donna. È l’ultima richiesta che vi faccio.”

“E come dovrei fare?”

“Vi mettete un abito. Non è difficile…”

“…”

“Non mi dite che non ne avete!” Fingendo di scandalizzarsi, ma, in realtà, divertito.

“Forse uno… qualcuno…” Prova a fare un rapido inventario di qualcosa, polverosamente accantonato in qualche dove.

“Bene. Un passo avanti”, commenta lui.

“Mi riconosceranno tutti!”, obietta, allarmata.

“Non se ne accorgerà nessuno.” Minimizza.

“Siete matto…” Sorride, quasi già familiarizzata con l’idea.

“Un po’, sì…” ammette. “Mi piacete. Che posso farci?”

 

Nel suo letto, dopo aver provato il redivivo vestito vaporoso, il corsetto semislacciato, scomodo, la pelle che contrasta col raso, delicata, chiara, il rosa dei capezzoli tra i lacci sciolti, le scarpe alte, la mano tra le pieghe del suo corpo, che lentamente scorre, fuori, dentro, attorno, il respiro tagliato, la feroce fantasia su André e il ricordo, invece, di quel pomeriggio tardi, quei capelli biondi, quel viso affondato su di lei.

Ti voglio…

 

 

“Non posso farlo…” Non posso più. Non chiedermelo…

“Oscar, perché?” E gli legge la disperazione nel viso giovane.

“Non… non mi vuoi bene anche tu?” Lo sguardo sperduto, si sente malissimo.

Certo. Certo che ti voglio bene, ma…

 

La insegue: “È tuo padre, vero?” Trafelato. Le cerca le dita. Le intreccia alle sue.

“Ti prego, hai intenzione di dargli retta?”

“…”

“Non lasciare che ti rovini la vita!”

“La rovinerebbe a te!”, Le sfugge.

 

Di fronte a quel silenzio, non ha altro da dire.

Scuote la testa, lo sguardo allontanato di lato. Le dita attorno al polso di lei.

“Oscar, io ti amo.”

“…”

“Guardami.”

“…”

“Io ti amo.”

“…”

“Io ti aspetterò.”

“…”

“Te lo prometto.”

Allora, lei corre via.

 

 

Le cingeva i fianchi, in un gesto cameratesco, ma che andava ben oltre quel “Vieni, andiamo via” che le aveva sussurrato, un po’ triste, un po’ sollevato, mentre la riportava con sé, a casa, nell’alba livida dell’addio a Fersen. Lei, come una bambola. Immota. Eppure, nella carrozza, si appoggiava a lui. Gli stringeva il braccio. Come aveva fatto spesso, in quei giorni.

Erano nelle stalle, e lui la baciava, piano, appena scesa dalla carrozza. Aveva osato. Non sapeva come avrebbe reagito lei. Ma non aveva reagito. Il fatto stesso che non l’avesse scaraventato contro uno dei recinti era indicativo.

Erano rimasti lì, seduti vicini, nel fieno, e lui le cingeva il viso, l’accarezzava, e le confessava “Sei bellissima…” E, poi: “Ti amo”. Piano, a voce bassa. Intrecciando le dita alle sue.

“Anche io”, si era sorpresa, lei, a rispondere, senza trattenersi. L’aveva capito negli ultimi mesi. Pensava a lui sempre più spesso, e non come prima. Si ritrovava ad arrossire, a intenerirsi, col cuore che mancava un battito, si contraeva, poi schizzava nel petto, gonfio di emozione. Questo, aveva scoperto, piano piano, era il suo amore.

Gli aveva sciolto il nastro, passato le dita tra i capelli, in un gesto che l’aveva sorpreso. Un gesto intimo. “Come sei bello…”, aveva detto, piano. Poi, nel cercarsi, tra le vesti, era stato prenderlo in sé, i suoi fianchi magri coperti da quelli di lui, le loro due pelli, sfiorarsi. Vederlo, nudo, su di sé. Dentro. Sentirne la pelle. Sentirlo. Tutto.

Essere felice. Con quella sua strana vita, riuscire ad essere felice. Pur dovendosi nascondere. Non poterlo baciare ogni volta che avrebbe desiderato, eppure, essere felice del minimo contatto tra loro. Degli sguardi che lui le riservava. Di quelli con cui lei lo poteva contraccambiare.

Aggrapparsi a lui, chiederne sempre di più. Sfiorargli le guance con le sue, in una tenerezza inattesa. Avere bisogno di quei gesti dolci. Di un bacio rubato. Di stringergli la mano. Di dormire, ogni tanto, con lui. Rubando il tempo. Rubando i momenti.

Calare su di lui, spingendoselo nella pancia, attorno a lui, e muoversi, contrarsi, carezzarlo, fino a darsi tutta, a prendere tutto. Senza pace, eppure appagata.

Di guardarlo, nudo, coi capelli sciolti. Lunghi. Era bellissimo. Era innamorata.

Era andata avanti, abbastanza a lungo, tra loro.

Erano stati felici.

 

Eppure, il generale aveva segnato di nuovo il suo destino.

Era intervenuto, esigendo il prezzo da sua figlia. Non poteva tradire così suo padre, ma era un tradimento? E di cosa, poi? Suo padre, il suo padrone, che, accorgendosi di qualcosa, in un paio di battute aveva trovato il modo di devastarla. “Quel borghese che ho preso in casa”, ha buttato là, con noncurante disprezzo, sicuro che la figlia succube non avrebbe avuto bisogno d’altro, per capire. “Se ci prova, se so qualcosa, sono guai: e non solo per lui.”

Non solo per lui. Sua nonna, sola, in mezzo a una strada… non era neanche da pensare. Non era sopportabile. Era più facile sopportare quel dolore. “Quanto a te, faresti bene a pensare al tuo futuro da militare.”

E così l’ha lasciato. Spezzandogli e spezzandosi il cuore.

Dopo, sono stati anni di solitudine. Non gli ha spiegato. L’ha lasciato nel gorgo di una incomprensione abissale, sperando che, forse, avrebbe intuito. Ma come avrebbe potuto?

Si sono guardati esistere a distanza. Un velo di dolore, negli occhi di lui, poi, di oblio. Ed è la cosa più triste. O, forse, per Oscar, la cosa più triste era stato saperlo infelice? Fingere. Immaginarlo in un’altra vita, in cui lei mancava. Era assente. In cui il loro amore non esisteva più.

E lei, a sua volta, cosa restava della ragazza innamorata che si era donata a lui? Quella piena di ideali, fredda, ardente, guerriera, eppure salda su un amore impossibile? Quello per il suo amico d’infanzia, per il suo attendente.

“Ti prego, no…” si era scoperto a sussurrarle. Poi aveva ritrovato una dignità chiusa. Le lacrime erano scese, asciugandosi. Erano aride, ormai.

“Va bene, farò come vuoi”. Una condanna, quell’accettazione.

A cui aveva resistito in piedi, tremando per non crollare, poi, era scivolata sulle ginocchia, protetta dal muro. Mentre lui si allontanava. “André… no… no… no…” Non credermi… non andare… ti prego, dimmi che non vuoi!

Cosa doveva essere, lei? Una vergine guerriera? Cosa si aspettava il padre padrone?

Aveva guardato gli anni andare via, e loro due sempre più soli. Due mondi incongiungibili.

Poi, per non sentirsi più così, aveva accettato le attenzioni di Victor. Scialbe, le pareva, ma un po’ la riscaldavano. Tutto era fatto all’ombra, e stavolta non a causa di suo padre, ma perché non lo sapesse André.

Si ritrovavano in stanze anonime, e lui la scopava. Ci sapeva fare. Gliela riempiva tutta, le piaceva l’idea di averlo tutto, dentro. Veniva pensando a questo. Tanto era stata attenta, sempre, con André, come lo era stato lui, tanto fu distratta, contando sul suo cavaliere che le diceva “State tranquilla, ci penso io”.

E restò incinta, dopo un lungo tempo. Stordita, si guardava il ventre, estraneo, nemico, e immaginava quella cosa prendere corpo, e misura, dentro: lei non la voleva. Abortì e non gli disse niente. André non seppe mai niente. Ma successe di nuovo. Costernata, sola, nella sua stanza, si osservava, incredula. Non era possibile. La vide, nel crepuscolo, André, sperduta, nuda, davanti allo specchio. Capì subito.

Non riusciva a immaginare come potesse sentirsi, lei.

La sera dopo, la cercò.

“Sei incinta”, senza quasi domandare, più una constatazione.

Lei non rispose.

“Non tiene a te, non dico neanche che ti voglia bene, ma almeno tenere a te, se non sta attento.”

Di fronte al suo silenzio, rincarò: “Non sei neanche una dama sposata, che può mascherare la cosa…”

Si avvicinò, lei non si mosse. Allora, le prese una mano. “Come hai potuto farti questo?” Farlo a me… ma tacque. Lei non ne aveva certo bisogno.

Gli occhi le si riempirono di lacrime.

Se ne accorse. La prese per le spalle, la fronte vicinissima ai suoi capelli.

“Ti accontenti di così poco?”

Ferita, sbarrò gli occhi.

Si pentì della ferocia: “Sei innamorata…” la disperazione nella domanda che non avrebbe voluto fare. Per nessuno di loro due.

“No…” in appena un filo di voce. Glielo doveva, e lo sentì rilasciare il respiro.

“Era per non restare sola? È davvero tutto finito? Io… non posso crederlo…” gli occhi pieni di lacrime. L’emozione tradita nella voce.

Scuote la testa, lei. Ma non riusciva a parlare.

“Sono stato dal medico, prima.” Lei trasalì. Le porse qualcosa. “Questo dovrebbe far effetto… nel caso…”

 

“Bene, me ne vado.”

 

La mano corse, aggrappandosi al suo braccio. Scivolò lungo il polso. Trattenne le dita.

“No, aspetta!”

 

Restò così, con lui di fronte, senza riuscire a dire niente.

Avrebbe voluto parlare.

Lui avrebbe voluto chiederle tante cose. Tenerla abbracciata. Amarla. Consolarla. Dirle che l’avrebbe aiutata, sempre. Che non avrebbe permesso a nessuno, mai, di farle male. Avrebbe voluto vederla nuda ancora una volta. Posare la testa sul suo ventre, cingerla, lasciarsi abbracciare, il respiro su di lei, le dita di lei che lo serravano. Proteggerla. Schiaffeggiarla. Dirle di lasciare quell’individuo che non la amava.

Ma si allontanò.

 

“Rimani qui…” Gli tese la mano. Prese la sua. Gliela strinse.

Esitò, combattuto.

“Ti prego…”

“Se rimanessi, ti vorrei…” Le chiedeva di guardarlo. Le mani sulle sue braccia, la stringevano.

Allora lei, con le mani, gli carezzò il viso, i capelli. “Anche io…” Rispose, mentre gli scioglieva il nastro, nel loro antico gesto, e i capelli ricadevano, liberi, mossi. “Come sei bello…” Gli disse. Come una volta. Ma era così triste, il suo sguardo bruciante.

“Oscar…” La strinse, forte, contro di sé. “Oscar…”

“Sono… tua…” Abbandonandosi a lui. Come in un commiato.

 

Quando, la mattina dopo, si svegliò, con lei tra le braccia, rimase a cullarla, a lungo. Imponendosi di non farsi domande. Di soffocare ogni cosa. Cercando di catturare ogni sensazione. Ogni immagine.

“Ti prego, fammi restare così un altro po’ soltanto… solo un po’”, le disse, piano, sfiorandola in un gesto affettuoso.

Lei gli carezzò i capelli, il viso, in silenzio. Lo sguardo intenso. Si mosse appena, attorno a lui.

Allora lui, di nuovo, crebbe dentro di lei, e la prese, ancora. Con ardore. Quasi con disperazione. Succhiandole i capezzoli umidi, duri, impazzendo di lei, del contatto col suo corpo, portandola a lungo con sé nel piacere.

La tenne stretta, dopo. Tenerezza, angoscia, dolore, affetto, tutto si alternava in lui, in quei momenti.

Ti amo, avrebbe voluto ripeterle piano, tra i capelli. Ma sapeva che non doveva.

Poi, quando anche lei riaprì gli occhi e fu ora di andare, nel modo in cui lo guardò, capì che era, di nuovo, ancora un addio.

 

Qualche giorno dopo, sostenendola mentre vacillava, pallidissima, nelle stalle, mentre una chiazza di emorragia si allargava sempre più, seppe che tutto almeno si era risolto.

La tenne stretta, mentre lei gelava tra le sue braccia.

 

Il secondo aborto pose fine a quella storia di comodo. Lei, si ripromise di non cascarci mai più. Forse anche perché la presenza di André le aveva dato la misura dell’assurdità della situazione. Eppure, neanche lui aveva più cercato. Un velo assurdo di discrezione, pudore, tristezza, tra di loro, dopo quell’ultima notte in cui lui l’aveva abbracciata, presa, cercato di curarla, riempita, e lei si era totalmente aggrappata, abbandonata, arresa a lui.

Ora, era Hans che la succhiava, le guizzava dentro con la lingua, e lei veniva. Ma dentro non lo voleva. Voleva che se ne andasse da casa sua. Al diavolo suo padre. Le aveva rovinato la vita. Perché al generale André non andava bene, mentre Fersen sì? Solo perché era nobile? Eppure, era uno con una donna in ogni porto, notoriamente. Nonché l’amante della regina. Un nobile, maschio, fedifrago, era tollerato, nel suo letto, uno come André no? Di fronte a quelle domande che  ̶ si stupì, ora,  ̶ per anni non si erano affacciate alla sua mente, ma erano comparse, all’improvviso, rivelandole una realtà, assurda, davanti agli occhi, provava una rabbia immensa verso il generale. Un dolore lancinante per il tempo sprecato. La sua, le loro vite. Di cosa si era resa responsabile… Ora, cominciava a capire.

 

 

“Allora se ne va”.

“Sì, finalmente.” Un tono di sollievo nella voce.

“Non avrei detto che ne saresti stata sollevata”, osserva, amaro.

“Invece sì.” Aggiunge, sorprendendolo. Poi: “Vieni, voglio allenarmi con te.” Ti voglio bene…

 

“Stasera, metti il tuo abito nero. Mi accompagni a corte.”

“Come?” Sorpreso.

“Sei libero, no?” Con una nota di gelosa preoccupazione.

“Certo, sono libero. Lo sai…” ammette, un vago accenno di tristezza, di rimpianto.

 

“Ma…”

“Vieni! Vieni a vedere la nostra Oscar”, gli ha intimato la nonna. “E non comportarti come un buzzurro”, lo ammonisce. “Guardala!”

“Sei… bellissima…” è rimasto ammutolito, intimidito, atterrato da quanto, veramente, è bella, bellissima, perfetta, affascinante, altro che le altre dame!, Oscar. È sempre stata bella. Lui lo sa più di ogni altro. Ma, questa sera, è diversa.

Lo è anche lui. Se ne è accorto, preparandosi. E glielo ha confermato lo sguardo acceso, ammirato, in fondo, divertito, di Oscar.

Che, di fronte alla nonna, allibita, gli scioglie, imperiosa, impertinente, il nastro, lasciando che i suoi capelli scuri, mossi, ricadano sciolti. “Sei più bello, così”.

Poi, “Andiamo”, ordina, semplicemente, lasciando la poveretta interdetta, speranzosa o, forse, preoccupata.

Che scandalo, considera la nonna. Meglio che il generale non lo sappia.

 

“Chi è quella dama?” Le voci, la curiosità, gli sguardi, ammirati, invidiosi, che soppesano.

“E guardate il suo accompagnatore…” I commenti per il giovane, in nero, che svetta dietro di lei.

“Però!”

 

“Avete un cavaliere”, incassa Fersen.

Lei annuisce, divertita. “I prossimi balli sono i suoi.”

“Anche il resto?” La provoca lui.

 

Nel freddo della notte, dopo il ballo, la protegge, nel ritorno, nel suo mantello nero.

“Grazie”, gli dice soltanto.

Poi, si accoccola al suo fianco. Lui è caldo. Si lascia proteggere, quella notte.

Quella notte, può chiudere gli occhi. Lasciarsi andare.

 

Non saprebbe dire a che ora sono rientrati. Ma, troppo presto, per il cavaliere nero che aveva danzato tutta la sera con la dama più bella  ̶  la sua dama, riflette, orgoglioso  ̶ ,si presenta la sua compagna d’armi, quella di tutti i giorni, a interrompere i sogni e a svegliarlo.

“Oscar!”, se la ritrova, in piedi, accanto al letto, che lo scruta dall’alto.

“Andiamo, voglio allenarmi.” Propone, senza sapere come gestire la cosa. Ti voglio bene… ti voglio bene… Cercando di nascondere l’emozione. Il batticuore.

Il suo solito modo di scansare le questioni, considera lui, mezzo addormentato. O, forse, di tentare di affrontarle.

“Mi lavo e arrivo.”

Lei, invece di andarsene, come fa di solito, si siede sul letto. “Ti aspetto.”

La resa dei conti, pensa lui.

 

Ma, sulla fontana, mentre affonda su di lui, dopo oltre un’ora distratta di esercitazione, in cui la mente si è smarrita in altro, senza riuscire a concentrarsi sul duello, sui gesti, si ferma, appena prima di travolgerlo.

Lascia cadere la spada, infine. Il tonfo del metallo cozza contro il suo silenzio. Ansimando. Trattenendo il respiro.

Fissandolo.

Alla buon’ora, si scopre a considerare, lui. Ci siamo. La mandibola contratta. La tensione.

“Oscar…”

Allora, lentamente, gli sfiora la guancia con le dita. Sorprendendolo. Il tempo pare fermarsi.

“Io…”

Ancora un po’ incredulo, nonostante la consapevolezza istintiva, lentamente solleva lo sguardo su di lei. Le dita ne cercano la mano.

Scuote la testa. “Oscar…”

Si riscuote, lei. “Scusami. Scusami”, articola, già pronta alla fuga, le lacrime che erompono. “Non…”

E se ne va, correndo via.

 

Che cosa ho fatto? Che cosa ho fatto… io… ho rovinato tutto…

Sola, la schiena contro la boiserie, il freddo del pavimento, le mani tra i capelli.

Che cosa ho fatto…

 

“Oscar, Oscar lasciami entrare… per favore…”

Silenzio.

“Oscar, per favore… prima che torni tuo padre…”

Allora, si decide ad aprire.

 

Lo accoglie, la testa china.

“Oscar, volevo dirti una cosa.”

Gira il viso.

“Per favore… ascoltami soltanto…”

Il silenzio del sì non espresso lo incoraggia.

 

Le prende la mano. Come prima.

Lei non si sottrae.

“Tuo padre, tanti anni fa, mi minacciò.”

Lei trasale. Poi, confessa: “Anche… a te…”

“Io non dissi niente, non ammisi mai niente. E non ne parlai neanche con te, e forse in questo ho sbagliato. Forse avrei dovuto dirtelo. Forse sarebbe stato diverso. Mi dispiace.”

Di fronte al suo mutismo, aggiunge, laconico: “Non smisi neanche di vederti.”

“Io, invece, sì…” la sente rispondere, la voce rotta, appena percettibile.

Incassa, lui.

“Mi dispiace, mi dispiace, André… ha rovinato tutto tra noi… e io ho lasciato…”

Le tiene la mano, ancora, in silenzio.

 

“Forse sono stato io…”

“No! No, ma cosa dici? No!”, accorata.

“Io ti amo.” Una pausa. “Lo sai.”

Lo guarda, lei. Incredula.

“Ancora, nonostante tutto, dopo tutti questi anni, mi vuoi ancora bene?”

Annuisce, lui, un sorriso quasi triste sul viso. La guarda negli occhi. Poi, sposta lo sguardo lontano. Le mani di lei nelle sue. Gli è vicinissima. Ne sente il calore addosso. La sente abbandonarglisi contro.

“Io ti voglio bene da sempre…” Sorride, mentre pronuncia quelle parole. Mentre le stringe di più le mani. Poi, la guarda di nuovo. Incontra i suoi occhi. Che gli rispondono.

“Anch’io…” confessa, infine, lei.

 

 

Gli graffia la schiena, mentre se lo spinge dentro, tra le cosce.

Dopo, le dice soltanto: “Ora, non ti muovere. Rimaniamo così. Voglio tenerti abbracciata. Voglio solo restare così, abbracciati.”

 

FINE

 

Laura, marzo-aprile 2017, revisione febbraio-marzo 2018, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2018

 

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Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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