Lezioni proibite - Rose II
II
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Ho iniziato questo racconto il 7 gennaio 2015, ispirato da due miei disegni e dal mio testo “Rose”. Da anni avevo l’idea delle lezioni di ballo impartite da André ad Oscar, innestata sulle tematiche di “Rose”, in cui, però, i protagonisti erano poco più che ventenni; poi all’improvviso, arrivò la scena finale scritta sugli appunti del cellulare. Mentre scrivevo già da un po’, si innestarono nella storia considerazioni nate dagli scambi con Sara, per la sua “Essere una donna”.
2
Ancora notti - provocazioni
Non riuscivano più a stare distanti.
L’aspettò nella sua stanza. Sotto, lui aiutava la nonna a rimettere in ordine.
Poi, la raggiunse.
La baciò subito, appena arrivato. Senza potersi trattenere.
Si ritrovarono abbracciati nel suo letto. Avvinti, senza sapere neanche come.
Si sollevò, continuando a tenerle un braccio attorno alla vita. Osservandola, carezzandola con lo sguardo. Sembrava non riuscisse a lasciarla. Poi si stese su di lei, e prese a baciarle la pelle, slacciando la camicia, cercando il seno. Lei sussultò, ma lo lasciò fare. A lui sembrava bellissima. Gli pareva di impazzire, al contatto col suo corpo. Si rendeva conto di poter essere inesperto, quasi rude. Cercò di adeguarsi alle espressioni di lei, che ora gli teneva una mano sulla sua, prima pensava intendesse fermarlo, ma, poi, si era reso conto, come per guidarlo, idea ardita che lo eccitava incredibilmente. Poi, gli passò le mani tra i capelli, in silenzio, inarcandosi, il respiro che si faceva più intenso. Decisamente audace.
Persero la nozione del tempo.
“Oscar…” si costrinse a fermarsi. “Sei meravigliosa…”
Lei sorrise, quasi timida, incuriosita, continuando a guardarlo.
“È meglio fermarci… io…” abbassò lo sguardo, “non so se riesco a trattenermi ancora”, ammise.
Lei annuì, un po’ delusa, un po’ sconcertata, ma, in fondo, sollevata. Le dispiaceva non superare quell’oltre, che, evidentemente, pudore, prudenza e timore delle conseguenze sconsigliavano di varcare. A loro due, soprattutto. Ma lo capiva benissimo.
Eppure… eppure si sentiva attratta da lui. Immaginò la propria mano scorrere sulla sua pelle.
L’avvicinò, con una risolutezza eccessiva a vincere la timidezza. Cominciò a scorrerlo, piano, insinuandosi sotto la stoffa. Era strano, pensò, soffermandosi sulla sua pelle calda.
Lui la fermò. “No, aspetta…”
Lei non gli diede ascolto, muovendosi piano, curiosa, risoluta, insistente. Sentì il respiro di lui farsi più intenso.
“Ti prego, fermati”, le disse sottovoce.
Divertita, impertinente, a quel punto si sentì provocata a non smettere. Sollevandosi, con un gesto, che neanche lei sospettava, si liberò definitivamente della camicia, trovandosi gli occhi di lui, sbalordito, piacevolmente sorpreso, incollati addosso.
“Questa si chiama provocazione…” apprezzò.
Lei sorrise, noncurante, quasi spavalda. Sapeva di sorprenderlo. Ne era lusingata. Divertita, mentre lui ora percorreva il suo corpo, con le labbra, con le mani, ardente, avido, curioso, attento.
“Se continui così, mi fai venire!” ammise, allarmato.
Volarono le ore.
“Devo tornare in camera…” le disse piano, baciandola, staccandosi da lei, mentre sistemava la camicia nei calzoni.
Anche Oscar si infilò la camicia, rabbrividendo. Non voleva che se ne andasse.
Ebbe un cenno, che lui comprese. Tornò indietro, la baciò, dolcissimo. Poi, si chiuse la porta alle spalle.
L’erba era ancora umida del diluvio che era esploso la notte prima, quando, stremati, dopo gli allenamenti, si stesero sui mantelli.
C’era un senso di attesa, tra loro, ancora, dopo mesi.
Eppure lui si sentiva come trattenuto. Aveva paura di approfittare di lei. Lei non gli aveva detto di amarlo. Come poteva pensare di stare con lei, poi, di fare l’amore, se lei non si era sentita di ammetterlo. Si era sbagliato? Era Oscar che faticava a rendersi conto dei propri sentimenti? O, peggio, non provava niente per lui e, tutto sommato, dopo tanti anni, si era rassegnata a un gioioso passatempo a due? Ma no. Non poteva essere così…
Non sapeva che pensare…
Fu lei a girarsi verso di lui. A guardarlo con un’intensità totale, che annientò i suoi pensieri. I dubbi.
Si persero di nuovo.
Riemersero dopo un istante infinito. Una lunga parentesi di ore.
“Oscar…” esitava.
Lei lo guardava come lo stesse pregando di non parlare. “Oscar, tu mi vuoi bene?”
Lasciò andare il respiro, lei. Gli carezzò il mento. “Certo…”, in un sorriso dolce.
“Ma non sei innamorata di me…”
Lei gli spalancò in viso gli occhi. “Ma cosa dici?” Si alzò a sedere, riallacciandosi la camicia, la mano di lui che era corsa, in una carezza, a sfiorarle il seno.
Scosse la testa come a scacciare un’idea molesta.
“Perché dici così? È solo che io… io…” Non sapeva come continuare, come esprimersi. “Io non so…” aveva quasi le lacrime agli occhi. Avrebbe voluto dirgli che non sapeva come gestire quella situazione e i suoi sentimenti, e neanche riusciva a leggere in essi. Che era sicura di volere più bene a lui che a chiunque altro, e che era sicura che non voleva si allontanasse mai da lei. Mai. Ma il resto, ancora, non riusciva a formularlo nelle parole della mente, né, tantomeno, era in grado dispiegarlo - neanche a se stessa -. Immaturità emotiva, forse, o, anche, troppi anni di carcere.
Se André avesse potuto sentire quei pensieri, si sarebbe rasserenato. “Ti prego, io ti voglio bene…” allungò la mano verso di lui. “Dammi tempo per…”
Annuì.
“Stasera…” iniziò a dire lei, mentre André si rialzò in piedi, imperscrutabile, raccogliendo le armi. Le tese la mano. Si alzò anche lei. Le passò la spada.
Fu così che li trovò.
Rumori si facevano più prossimi, dalla radura. Qualcuno, con un cavallo al passo verso di loro. “Ehilà, fine del duello!” Tuonò una voce tristemente nota.
“Cazzo”, disse André a mezza voce. Scambiando con lei un ultimo, disperato, sguardo.
Di tutti i cazzoni che potevano scegliere di comparire sulla faccia della Terra, in quel pomeriggio, in quel piccolo Eden che, nonostante le paturnie di André insicuro e di Oscar ignara, loro due stavano costruendosi, proprio lui doveva essere? Il più emerito cazzone di tutti?
“Sono io, non mi riconoscete? Appena tornato dalle Americhe!”
Impietrito. L’espressione di gelo di André Oscar non la vide.
Cercando di sfuggire alle domande troppo difficili, troppo rischiose, che lui le poneva, si affrettava a dare il benvenuto al conte. Decisamente una bella mossa, Oscar, pensò lui.
La serata procedeva tra le chiacchiere.
Interessanti, anche.
Geopolitica. Politica. Di prima mano. Il gesto generoso del nobile reazionario che si era dato alla difesa dei diritti umani – oltreoceano –, beninteso. Limitatamente. Mai attentare ai diritti feudali nel vecchio continente. André si domandava, appunto, come si sarebbe comportato, di fronte ai diritti umani dei Francesi. Questione retorica, perché la risposta era autoevidente.
Col vassoio, si allontanò, per poi piazzarsi alla finestra, a scrutare nel buio.
Oscar sembrava rilassata, anche affettuosa. André stesso si era adoperato per porre domande che animassero la conversazione. Ora, sua nonna veniva ad annunciare che una stanza era stata preparata per il conte.
André rimase sotto, ad aiutare a rimettere in ordine.
Oscar salì le scale, accompagnando l’ospite.
“Buonanotte, André”, lo salutò.
Quella notte, lui non andò da lei. Non dopo quel saluto.
La mattina dopo, quasi lo evitò.
Era rimasta male. Perché non si era fatto vivo? Ma non glielo avrebbe mai domandato.
In silenzio, Oscar osservò Fersen, bellissimo, seduto alla fontana.
Ebbe un moto di rabbia.
Andò da lui a fare conversazione.
André non sapeva cosa pensare. Possibile che, davvero, Oscar volesse solo un po’ di sano divertimento? Lei? Non gli pareva concepibile. E poi glielo aveva detto, che gli voleva bene, mica era una cosa che si dice con leggerezza a uno che ti ha appena detto che ti ama! Dammi tempo per, aveva anche aggiunto. No, Oscar non era una da scherzare così. Era troppo retta.
Eppure, forse per non pensare alla spinosa questione che lui aveva inserito tra le domande con risposte troppo difficili, in una vita complicata, che lei tutto sommato aveva cercato di gestire ricreando ordine, consuetudini, abitudini, di cui André era innegabilmente parte, Oscar sembrava aver approfittato della presenza di Fersen per sottrarsi.
Si rendeva conto lei stessa, di stare esagerando.
Avrebbe voluto parlare con André, rassicurarlo. Chiedergli un po’ di tempo. Ma non ci riusciva. Era imbarazzata, troppo imbranata in quelle cose per riuscire a gestire quella situazione. Se lui non si fosse fatto avanti, lei non avrebbe saputo come recuperare.
Fersen era tornato, era lì, prepotentemente bello.
Per fortuna, velocemente aveva trovato casa. Altrimenti, i suoi orari e la sua presenza intermittente avrebbero continuato a creare imbarazzo in casa Jarjayes. Non poteva assentarsi secondo le proprie regali esigenze senza fornire uno straccio di spiegazione, richiesto a orari impossibili altrove. Era diventato scomodo e lui fu ben contento di recuperare la propria autonomia.
La prima sera libera, Oscar e André, poco dopo cena, si scambiarono uno sguardo complice e sparirono al piano di sopra.
Furono ore di fuoco, che li riconciliarono con i giorni di dubbi e paturnie che, recentemente, avevano passato.
Eppure, Oscar si domandava perché non l’avessero ancora fatto. Non capiva. Anche se covava un leggero timore di fare quel passo, che pure desiderava. Si domandava se fosse giusto proprio con lui. Ma, tutto sommato, sentiva di sì.
Anche dopo che Fersen aveva lasciato casa loro e si era trasferito in rue de Matignon, Oscar continuava a incontrarlo al Trianon dove la regina squittiva, finalmente felice.
“La più bella tra le belle”, l’aveva apostrofata il conte.
“E voi, Oscar”, l’aveva apostrofata Maria Antonietta, “proprio non pensate a vestirvi da donna, una volta almeno?”
“Scusate, Maestà?”, fece la diretta interessata, riscuotendosi dai suoi pensieri.
“Esprimo il desiderio, formale”, precisò la regina, ridendo, “di vedervi a un ballo in abito femminile!”
“Ahhh, che idea geniale”, il coro di adulatori e pagliacci si era espresso, nessuno osava contraddire i capricci della sovrana.
Fersen squadrò Oscar, scambiando con lei uno sguardo disperato. “Ma maestà”, provò ad intervenire, “non è un gioco… voglio dire, forse Oscar si troverà in imbarazzo… non è abituata…”
Mentre André assisteva, impotente, gli occhi di fuoco, alla scena, senza poter parlare, si ritrovava a ringraziare il rivale.
“Oh, Hans, tacete!” lo liquidò con un gesto frivolo del ventaglio. André odiava le donne così cretine.
“Tra due settimane”, sentenziò. “Darò un ballo in occasione del mio rientro a corte. Voglio vedervi lì, Oscar! Vestita da donna!”
“Ma io non so ballare da donna!” tentò un’ultima, infantile, protesta Oscar.
“André, insegnatele!”, chiuse la questione la regina.
“Maledetta stronza viziata!” Sbottò, scagliando i guanti a terra.
“Oscar, calmati”, la rincorse André.
“Per lei la vita degli altri è un gioco! Io, io sono solo un passatempo!”
“Oscar, è abituata così…”
Ma poi decise di tacere, quando vide le lacrime, forse di rabbia, forse per tutta una vita di costrizioni e menzogne, che brillavano negli occhi di lei.
Le prese la mano.
Lei lo scansò.
Stavolta insistette.
Continuò a tenerla, tra le sue. Il viso abbassato sul suo. Le labbra sulle dita.
Si affrettò anche Fersen, costernato “Oscar, non so cosa le sia preso! Mi dispiace davvero!” Salvo poi notare che, precipitosamente, André mollava una mano di Oscar.
“Ma, se volete, posso aiutarvi. Vi farò io da cavaliere, eviterò che siate…”
“Cosa, Hans, uno zimbello? La donna vestita da uomo? Quella che tutti guardano?”
“Oscar, cosa ne sanno di voi?”
“Appunto, Hans.”
“Ha ragione, Oscar. Ha ragione lui. Così non potranno dire niente.”
“Ti ci metti anche tu?”
Gi ululò addosso mentre tornavano a casa. Si sentiva tradita, delusa. Si sentiva una pedina nel gioco idiota di gente idiota.
Lui spronò il cavallo, parandosi davanti a quello di lei, costringendola a fermarlo. “Ora basta.”
Lei lo scrutava. Triste, furibonda.
“È una stronzata, sono d’accordo con te.”
Lei sembrò respirare più liberamente.
“Ma io sono contento di ballare con te…” le sorrise, irresistibilmente, avvicinandosi, e le stampò un bacio, quasi innocente, sulla guancia, che poi proseguì, poco innocentemente, verso l’orecchio, la mandibola, distraendola decisamente.
“Avremo tante scuse per passare più tempo insieme…” Le sussurrò. “Sarà divertente, vedrai!”, staccandosi da lei.
Lei lo guardò, tra lo scandalizzato e il perplesso.
“Madamigella parteciperà a un ballo!” Gioiva la nanny, festante. “Finalmente metterà uno degli abiti che le ho cucito!”
Oscar avrebbe voluto fulminarla, ma aveva altri problemi concreti e, mentre André smontava la nonna osservando che, in quegli anni, la moda era cambiata, lei veniva a patti con la questione principale: non sapeva fare la parte da donna.
“André, insegnatele voi”, aveva decretato la sovrana.
Quindi.
“Avanti, passa il piede destro avanti… e il braccio sinistro, poi fai un plié”, spiegava lui.
“Non ci posso riuscire”, ruggiva, ai limiti dell’isteria! “Come cazzo faccio?”, mentre lui, per simulare il vestito da sollevare, elegantemente, nei passi e negli scambi, le aveva fatto legare alla vita una vecchia sottogonna sottratta alla madre.
“Però ti sta bene”, considerava, con aria esperta e compiaciuta.
E, appena lieve, la sfiorò con un bacio sulla guancia.
Poi divenne una serie.
E poi…
“Come vanno i preparativi”, la canzonò Fersen.
Rabbuiata: “Siate clemente, per favore… non parliamone…”
“Scherzate? Io non vedo l’ora di vedervi in abito da sera!”
Gli sbarrò in viso uno sguardo inibente. Senza successo. “E non sono il solo!”, chiosò.
Ma i preparativi, come li aveva chiamati Fersen, andavano decisamente male. Dipendentemente dai punti di vista.
Non che non fossero esilaranti, a tratti. “Ahi!!!” Si lamentò lei, piombando in avanti, tra le braccia di André, dopo aver pestato la gonna da esercitazione.
Lui l’aveva tirata su, guardandola un po’ troppo seriamente, un po’ troppo a lungo, rimettendola in piedi. “Devi sollevarla, delicatamente, così…”
“A che pro?”
“Ah, non chiederlo a me… io una ragione ce l’avrei… posso?” E si era insinuato tra le pieghe, cercandola, irresistibilmente.
Ancora, più tardi. “Va bene, ma non puoi portare tu! No!!!” si lamentava un André sempre più stanco e demotivato.
“Ma come faccio???” si disperava lei.
“Oscar, è facile: pensa al contrario.”
Due settimane, pensava lei: non ce la farò mai. “Come cavolo faccio a imparare in due settimane?”
Due settimane, considerava lui, poi la perdo…
Aveva paura, André. Sentiva, oscuramente, che qualcosa era fuori controllo o sbagliato, non avrebbe saputo dirlo. Aveva paura perché, fino ad allora, Oscar era stata solo sua, solo lui aveva avuto la possibilità di vederla per come era realmente – agli occhi di chiunque altro, era velata dall’uniforme, dal ruolo –, mentre temeva che, tolti gli abiti usuali, nella maschera di quello che avrebbe dovuto realmente essere, gli altri avrebbero, infine, compreso, sarebbero andati finalmente oltre le apparenze, l’avrebbero presa in considerazione per se stessa, e in forma femminile. Dunque, appetibile. Non che non sapesse che, attorno a lei, c’era una gran curiosità, da parte di uomini e donne, a corte. Ma lei non era mai uscita dal suo ruolo e questo, in fondo, l’aveva tenuta al riparo. Ora, invece, non avrebbe avuto più niente a tenere alla larga chi si fosse voluto interessare a lei. Avrebbero scoperto quello che lui e lei già sapevano. Che era bella. Interessante. Una persona da considerare, non solo una vestale.
E questo, che lui sentiva in sé, lo preoccupava. Perché avrebbe rischiato di segnare la fine, tra di loro. Qualcuno gliel’avrebbe potuta portare via.
“Andiamo via…” si lasciò sfuggire, come sovrappensiero.
“Cosa?” Si riscosse, lei.
“Niente… scusami…” Forse stava davvero esagerando, si disse. Non doveva pensarci.
Oscar fece letteralmente un salto, quando sentì la mano di lui sulla schiena.
“Oscar”, protestò, “non devi spostarti!”
“Ma mi tieni per la vita!”
“È vero, ti tengo per la vita.” Rispose, accarezzandole la schiena, i fianchi. Impertinente. “Niente che non abbia già fatto…”
Lei avvampò: “Ma… ma qui siamo a lezione!”, mentre gli spostava la mano.
“Ma, Oscar, come faccio a insegnarti?”
“E va bene…” cedette, neanche poi così riluttante.
Mentre la mano scorreva lungo il collo. Lungo la schiena. E lei lo trovava così bello. E lo guardava dritto negli occhi, diversa da sempre.
E, solo molto più tardi, quando il sole era ormai tramontato e la sera avanzava, era riemerso dalle balze della sottogonna, mentre lei, vinta, distesa a terra, ansimava, i capelli sparsi, i seni esposti.
Quasi molte delle sedute, finirono com’era forse prevedibile, in quel momento di ritrovata intesa, fra loro due. Abbracciati ansimanti d’eccitazione troppo trattenuta. Di parole che non furono pronunciate.
La desiderava e lei lo lasciava fare. Perché gli voleva bene. Perché era lui. E le piaceva. Lo trovava bello. Le piaceva essere al centro dei suoi pensieri.
André si faceva strada in lei.
Nel silenzio della notte, complici, abbandonati tra le coperte calde del letto di lei, lui un braccio sotto la sua testa, con l’altro le carezzava il corpo, lentamente, indugiando.
L’aveva fatta venire, più volte. Era iniziato nel tardo pomeriggio, durante la lezione, ed era stato difficilissimo trattenersi fino al dopo cena, quando erano riusciti ad isolarsi.
Ora, la osservava, il seno che si sollevava nel respiro, ora lento, fino a poco prima profondo, convulso, abbandonata tra le sue braccia.
Ripensava a quel pomeriggio, quando l’argomento, tra loro, si era fatto improvvisamente spinoso. Qualcosa che ancora creava distanze.
“Sei innamorata di lui?” Ad un certo punto le aveva domandato, visto che Oscar continuava a parlare di Fersen.
“No”, protestò lei, ritraendo la mano che aveva lasciato nella sua. “E tu? Tu, com’è stato…”
Sorrise, lui, nel ricordo. “Bello… e, niente… ad un certo punto, mi sono reso conto che pensavo sempre più a te…” Guardava lontano.
“Fai le cose semplici, tu…” Arrossendo.
Alzò le spalle. “Forse non sono una persona complicata…”
Lei gli posò la testa sulla spalla, accomodandosi meglio contro di lui.
“Allora, non cambiare discorso… io ti ho risposto, e tu? Ne eri innamorata”, più una constatazione. Aveva recuperato la mano. Guardava lontano.
“Non te lo so spiegare… era diverso… non è come...” poi, arrossendo, si era resa conto che non riusciva a trovare le parole.
“È stato” continuò, “perché era la prima volta che vedevo due persone innamorate, attorno a me… della mia età… mi ha costretto a considerare la cosa…”
Lui la ascoltava parlare, rimanendo in silenzio.
“… Ero l’unica per tutti a non dover avere una storia, niente… era strano, vedevo loro, ho cominciato a pensarci… lui… era come se rappresentasse l’amore…”
“Sai, non credo. Era più l’idea che ti eri fatta, dell’amore. Guardando loro due. Immaginandoli, senza vedere quello che c’era dietro in realtà.”
“E cosa c’era dietro?”
“Due persone infelici. Scontenta e viziata, lei. Troppo sola. Lui un cavaliere di mondo. Colto, intelligente e decisamente molto disposto a vivere il suo ruolo.”
Lei sembrò delusa.
“Ti spiace quello che ho detto?”
“Sai..”
“Io, con lui, non ti ci vedo. Posso anche capire che ti piacesse, quello lo capisco. È bello. Ma come potessi pensare di poter stare con uno come lui. Una donna condivisa… non è da te…”
“Hai un’alta opinione di me”, rise lei.
Scosse la testa, guardandola negli occhi. “È vero”. Ammise, carezzandole la mano che continuava a trattenere.
“Tu”, proseguì, “il resto – che sarei io –”, ma non lo disse, “l’hai scartato a priori. Comprensibile, dal punto di vista che tutti si aspettavano da te: nessuno si è mai aspettato che tu facessi diversamente. In questa situazione, tu stessa non hai mai pensato di poter andare formalmente contro tuo padre. Dietro le quinte, magari sì”, concesse, “ma non apertamente. Non fino a quel punto.” Aggiunse,quando vide che lei stava per protestare.
Lei non osò esporre i suoi dubbi: che, forse, davvero, tutti si aspettavano che loro due fossero nel privato una coppia. Casta o meno.
“Ma potremmo benissimo vivere come ora. Continuare il tuo lavoro, io il mio, e vivere insieme.”
“Figurati mio padre…” mantenne alta la guardia.
“Oscar. Abbiamo trent’anni.”
“E lui resta un despota.”
Rise, André: “Ah, beh, se tutto deve scorrere attorno al despota, allora, ne parleremo a centoventi anni…”
“Età della saggezza…”
“Oscar”, la guardò improvvisamente. “Io non voglio rischiare di perderti.”
Voleva dire che la vita spazza tutto, i ricordi, le sensazioni, spesso guasta i sentimenti, e non aveva più voglia di vederla trascorrere trattenendo quell’amore. Ma rimase in silenzio. La mano di lei nella sua. Le schiene accostate al muro, seduti sulle assi del pavimento della torre.
Continua
Laura, da gennaio 2015 a dicembre 2015, revisione marzo 2016 pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2016
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com