Lezioni proibite - Rose II

I

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Ho iniziato questo racconto il 7 gennaio 2015, ispirato da due miei disegni e dal mio testo “Rose”. Da anni avevo l’idea delle lezioni di ballo impartite da André ad Oscar, innestata sulle tematiche di “Rose”, in cui, però, i protagonisti erano poco più che ventenni; poi all’improvviso, arrivò la scena finale scritta sugli appunti del cellulare. Mentre scrivevo già da un po’, si innestarono nella storia considerazioni nate dagli scambi con Sara, per la sua “Essere una donna”.

 

Saverne

 

La notte è leggera. Profonda.

Le appoggia una mano sul braccio. Lei sente bruciare, sotto la divisa, dove lui la sta toccando.

Le parla sottovoce. E lei sente un brivido e un balzo nel cuore.

Cerca di raccogliere i pensieri e tornare in sé, di non distrarsi al suono di quelle parole. Si volta a guardarlo, e lo vede fissare qualcosa, lontano. Che profilo bellissimo…

Ma cosa le sta succedendo, si domanda, senza riuscire a volersi dare la risposta che, in fondo, conosce e teme. Non si può pensare all’amore, adesso… E perché no, in fondo.

Si riscuote, mentre lui le sta indicando un punto, sulla mappa, appena visibile. Tra poco spegneranno le torce, e si prepareranno ad assaltare il castello.

 

1

Notte – dopo il ballo

 

La segue, sente l’abito frusciare. I suoi passi.

Si è chiusa dietro la porta della stanza.

Dopo un po’, ne riemerge. Si è cambiata.

Le lampade lungo le scale ardono di una luce, che, fievole, si riflette sulla parete.

Lei si siede sul davanzale. Fuori, la notte di fine estate. Il cielo sembra infinito, potrebbe scendere su di lei, avvolgerla, finirla e mettere termine alla delusione. Non è neanche dolore, ragiona, in fondo.

Si asciuga le lacrime col palmo della mano. Piange in silenzio.

Troppa tensione.

L’ha aspettata. Ora, resta lì, in silenzio. Non osa disturbarla.

Lunghi istanti.

Poi, lei alza il viso. Sussulta. Lo vede. Illuminato dalle lanterne tremolanti e deboli.

Lo guarda a lungo.

Lui fa un passo.

Lei resta in silenzio.

Poi, si avvicina.

Lei non lo scansa.

Le tende una mano. Poi l’altra. Resta in piedi, di fronte a lei. Come un giudice impietoso, si domanda lei? O, forse, più come la madre che in fondo non ha mai avuto. Come un amico che ti vuole bene. Un complice. Lui.

“È stato un errore”, sospira piano, infine.

Lui la osserva. Le si siede accanto.

“Uno stupido capriccio…”

“Mi dispiace”. Non ti meriti di non essere apprezzata…

Lei si abbandona contro la sua spalla. Guarda lontano, scuote un po’ la testa.

Lui la osserva, alla luce tenue della luna e delle lanterne sulle scale. Quel ricciolo che le adombra la guancia, le ciglia, quel velo di trucco. La trova bellissima. E, se anche fosse circondato da donne, come è Fersen, non avrebbe dubbi, sceglierebbe lei. Cosa che, per fortuna, pare non sia accaduta.

 

Ripensa a com’è cominciata. Quasi una sfida.

Decisamente un periodo felice. Stavano così bene, insieme. Dopo la missione di Jeanne, quella lunga trasferta in cui gli pareva che si fossero avvicinati ancora di più, le sere, davanti al camino, a pianificare, poi, stanchi, a scambiarsi le parole di sempre, ma come più uniti. E in una di quelle serate, complice forse il vino, s’erano quasi baciati e lui non ci poteva credere.

Era successo quando gli altri si erano allontanati. Libera uscita per il casino ufficiali o il bordello popolare.

“Vai pure”, aveva detto Oscar, un cenno verso la porta.

“No.” Aveva spostato la sedia e si era seduto accanto a lei.

Lei aveva alzato le sopracciglia, appena girato la testa, un cenno strano.

E lui, alzando le spalle, “Non mi interessa…”

“Casto e puro?” Ironica.

Appena percettibile, qualcosa di triste aveva aleggiato sul suo viso.

Le aveva versato da bere.

Aveva atteso, con lei, di fronte al fuoco. Gli avambracci poggiati sulle gambe, leggermente chino in avanti.

“Non è questo.” Aveva detto piano, lo sguardo come perso nelle fiamme.

E lei c’era rimasta male. Perché, anche se evitava di pensarci, in fondo l’aveva sempre considerato qualcosa di suo e non riusciva a immaginare… ci riusciva, ma, appunto, chiudeva la mente e negava. Così aveva annuito, semplicemente.

“Se tu pensi al sesso”, le aveva detto, dopo un lungo silenzio meditativo, facendola avvampare, “immagini di farlo con qualcuno che ami o di farlo e basta?”

“Ma che? Ti pare il discorso…” era saltata su lei.

“Siamo qui, da soli, stiamo parlando… avanti, rispondimi…”

Allora, aveva ragionato, per dargli la sua opinione.

“No. Cioè… con qualcuno che si ama”, aveva usato la forma impersonale.

Lui aveva sorriso.

“Vedi? È semplice. Per me è lo stesso. Non mi va di fare sesso se capita. Ne ho voglia, è normale, penso anche tu, no?”, e qui lei aveva vuotato il calice, “ma preferisco farlo con una persona che amo.”

E si era girato verso di lei, guardandola con due occhi ardenti, pieni di malinconia, di qualcosa di trattenuto che quasi parlava, attraverso di essi.

Le aveva preso la mano. L’aveva portata verso di sé, continuando a guardarla, alle labbra, senza dire niente, quindi avvicinando il viso al suo, la guancia. Ne aveva sentito la pelle, il velo di barba. Il respiro.

Le aveva passato la mano tra i capelli, in una carezza. Poi, appena sfiorate le labbra. Con le dita, con la bocca. Appena un lungo attimo. Tenendole la mano nella sua, ancora.

Oscar non sapeva che fare. Non capiva cosa significava. Nel senso che lo capiva, ma non quanto a se stessa. Era rimasta lì, attratta, sapendosi inesperta, sentendosi goffa, inadeguata, incapace. Poi, lui l’aveva attratta a sé, “Ti prego, resta così”, le aveva sussurrato, facendola appoggiare contro di sé. Erano rimasti così, insieme, a scaldarsi al fuoco, a bere.

Qualcosa di raro, strano, fragile. Tanto che Oscar, stranita, come sospesa, nella notte, si era domandata il senso di quei gesti, se davvero volesse dire che André potesse provare qualcosa per lei.

 

Era corso, quando l’aveva sentita gridare, e non era bravo con la spada e le armi da fuoco come lei, ma l’aveva salvata, l’aveva tirata fuori di lì ed era il suo nome, quello che aveva urlato. Aveva chiamato lui. E soltanto lui l’aveva sentita.

Era corso avanti con la paura, l’apprensione, una pena sorda nel cuore. Rimproverandosi di averla lasciata andare sola.

Dopo, ricordava la mano nella sua, la guancia contro la sua. Il corpo che premeva sul suo. Lei che, lentamente - pareva trascorso un istante infinito -, aveva tentato di muoversi, sotto di lui, quasi schiacciata in quella protezione. Poi, quando si erano separati. Uno sguardo muto. E il ritorno a casa. Quando, ancora soli, si erano persi in un lungo abbraccio, ufficialmente cameratesco, nelle stalle, nascosti dai mantelli, le labbra, le mani di lui che la cercavano, timide, poi febbrili, le sue strette dietro la sua schiena. Poi il tempo era finito in momenti concitati. I complimenti del generale, quasi commosso.

Tutto, finché un giorno, sul prato, si erano stesi, dopo gli allenamenti, spalla contro spalla. Lui, pensoso, giocava coi fili d’erba. Coi suoi capelli. Lei, sdraiata lì accanto, l’aveva lasciato fare, il viso verso la macchia d’alberi. Il collo scoperto. Le mani, abbandonate. La sentiva respirare.

La guardava. Gli pareva bellissima. L’attaccatura dei capelli alla fronte, la pelle eburnea, i colori perfetti. La dolcezza che mostrava solo di rado. Gli sguardi scoperti. Accesi.

Mentre le dita giocavano con le ciocche.

Osò.

Le prese una mano. Lei non disse niente.

Si avvicinò. Lei continuava a guardare lontano, ma aveva il respiro sospeso.

La baciò, piano. Prima su una guancia. Poi, sulle labbra. Lei lo lasciava fare. Timidamente, osò, scendere. Orecchio. Collo. Scostandole i riccioli delicati.

“Oscar…”

Lei lo guardò. Meravigliata. Stranita. Lui le piantò gli occhi nei suoi. “Sei così bella…”

Io?... Una domanda le fece spalancare gli occhi, ma rimase senza voce. Giusto la testa, piegata in un cenno interrogativo. Sentiva la sua pelle, le sue labbra, dolci, calde, sulle sue. Sentiva le mani sulle sue spalle. Sui seni. Si irrigidì, tentò di spostargliele.

“Aspetta…” non riuscì a dire altro, mentre lui li toccava, con trasporto, in certi istanti con insistenza.

Avrebbe voluto chiedergli perché, ma non sapeva cosa fare. Non voleva smettesse. Era sorpresa, ma era anche bello.

“Per favore, fermati…” osò, e gli prese il viso tra le mani. Sembrava volesse accarezzarlo.

Gli passò le dita tra i capelli. Si sciolsero, il nastro scivolò via. Lui ebbe un cenno di sorpresa, distogliendo un attimo lo sguardo, come fosse in imbarazzo.

Rimase a guardarlo, scrutandolo. Il respiro che le sollevava il petto. Scuotendo la testa, incredula. Raddolcita da quelle strane, inusuali attenzioni. Le sembrava di vederlo, ora, quasi per la prima volta. Lui restava sopra di lei, gli occhi, intensissimi, nei suoi.

“Io…”

La fece passare, impacciata, sopra di sé. Mentre i capelli di lei gli spiovevano addosso, li accarezzò, rapito. Poi il viso, il collo. Gesti teneri e, insieme, audaci. Sentiva addosso il respiro di lei, che lo guardava con occhi infiniti. Ne avvertiva il cuore battere, contro di sé. Sentì i battiti accelerare, quando le serrò i capezzoli, sotto la stoffa.

“Scusami…” disse quando lei si irrigidì, senza però fermarsi.

“Ti prego”, gli chiese, imbarazzata. Allora, ubbidì, eppure, ora a lei dispiaceva avesse smesso, non sentire più lui, né quel contatto con lui, né quella sorta di piacere. Avrebbe voluto dirgli di continuare, ma non ne era capace.

Rimasero così, in un tempo sospeso. Senza altre parole.

Senza osare muoversi.

Poi.

“Io… ti amo…” osò confessarle. Mentre la copriva di carezze lievi.

Lei quasi lo supplicava di non parlare.

“Da tanto tempo…” sembrava quasi triste.

Lei si sentì triste per lui. “Ti prego, non respingermi…” ma non poté continuare, perché Oscar lo aveva abbracciato, e si teneva stretta a lui. Lui non poté, né volle fare altro. La strinse forte, il viso nei suoi capelli.

Restarono così, a lungo.

Fino alle prime gocce di pioggia. Che si fecero diluvio.

 

La prese per mano. Raccolsero in fretta le armi, i mantelli, sotto la pioggia che li colpiva, sferzante. Tutto si era fatto buio, l’erba luccicava. La corsa a perdifiato fino alle scuderie. Senza ancora riuscire a pensare. Senza poter dare un senso ai gesti. Solo lampi, che si affacciavano nella memoria e intorno a loro. La mano di lui attorno alla sua.

Grondanti, ansimavano quando arrivarono. Nessuno di loro osava parlare. André appoggiato al legno, una pozza d’acqua che si allargava ai loro piedi.

Le scostò i capelli dal viso, in un gesto intenerito.

“Sali”, le disse, un sorriso gentile. “Vai ad asciugarti. Sistemo qui poi arrivo anch’io…” Sembrava quasi un appuntamento.

Fu in quel momento, in quello sguardo che si scambiarono, che irruppe il generale.

“André”, tuonò. “Meno male che sei qui! Occupati del cavallo!”

Poi, rivolto ad Oscar: “Vai a prepararti, ho ospiti a cena. E datti una sistemata!”, con un’occhiata impietosa. “Guardati, sei indecente!”

Lei si allontanò in silenzio, uno sguardo indescrivibile che restava ancorato ad André, che, un attimo solo, la ricambiò, prima di darle le spalle. Il cuore in tumulto, come un adolescente al primo amore. Quello era, in effetti, rise di sé, incredulo, sulle nuvole, perso negli sprazzi delle immagini che la sua mente ricostruiva. Inebriato, quasi felice.

 

Salì le scale senza sentire neanche i brividi. Come un automa. Cos’era successo? Perché?

Le parole di lui le risuonavano nella mente. Da tanto tempo… si domandava se fosse possibile, come fosse possibile. Poi, qualcosa le diceva che forse era così davvero, solo che…

Era confusa. Sconvolta. Forse più dalla propria mancanza di reazione negativa che da lui.

Non che non ci avesse mai pensato, semplicemente, lo aveva barrato dalla casella delle possibilità. Loro due erano un mondo a parte, un limbo.

Le mani gelate, si liberò degli abiti, tamponandosi con i teli come meglio poteva. Poi, fu giusto un attimo, quello in cui scorse la propria immagine nello specchio. Il seno teso, appena sfiorato dalla stoffa, e l’improvviso pensiero che lui l’aveva toccata. I capelli che la incorniciavano. Si rese indistintamente conto che era una bella immagine. Era lei, quella che, velocemente, era sparita, incredula. Una statua avvolta in un peplum. Non aveva mai fatto troppo caso a se stessa. Sì, si piaceva. Si rendeva conto di essere carina. Ma la cosa finiva lì e di poter avere attrattive per un uomo secondo i canoni tradizionali proprio non l’aveva considerato, perché era un’altra la vita che doveva fare e perché André non l’aveva mai fatta sentire anormale, pensò, sistemandosi accanto al caminetto, avvolta in una coperta, ad asciugare i capelli.

Sorridendo, un attimo, e scuotendo la testa. Sentendosi strana. Continuava a pensare a lui. Alle sue mani su di lei. Alle sue parole.

Arrossendo, esitante si toccò il seno, indugiando, respirando piano.

Mentre l’altra mano scendeva più giù.

 

Le chiacchiere erano un brusio fastidioso di sottofondo, che disturbava i suoi pensieri a malapena celati da sguardi svagati e disinteressati. Aveva ancora freddo.

Suo padre e Girodel chiacchieravano. Il giovane figlio cadetto era piuttosto apprezzato dal generale, col quale si trovava a proprio agio. Lei, invece, sospendeva il giudizio, indifferente su quello che, a guardarlo, era anche un bel ragazzo. Semplicemente, non lo considerava in nessun modo.

André aiutava a servire a tavola, quella sera, cosa che a lei causava imbarazzo, sempre, tanto che preferiva cenare con lui e la nonna, di solito. Si scambiarono occhiate eloquenti, sopra le teste degli altri commensali, lui filò via con un’espressione buffa, prima che lei rischiasse di scoppiare a ridere.

Dopo, passando, la fece trasalire, quando, in un gesto di un attimo, quasi intimo, le posò una mano sulla spalla, stringendo un po’, come a dire “coraggio, ti capisco…”

Si sentiva frastornata. Le luci abbagliavano, quella sera tutte le sue percezioni erano come esasperate. Continuava a risentire le parole di lui. Ti amo… e si domandava se davvero non stesse scherzando, e perché mai, poi, uno come lui avrebbe dovuto scherzarci sopra?

Pensava che quando aveva considerato André qualcosa di diverso dal suo doppio, e quindi un ragazzo, e l’aveva osservato di scorcio, senza permettersi di indugiare da quella prospettiva, aveva subito ricacciato indietro il pensiero, importuno, inopportuno, come non adatto - non per se stessa, ma per quanto ci si aspettava da lei -. Lei doveva fare una sorta di vita apparentemente monacale, nei piani del genitore, e tutto, fino ad allora, era stato soffocato sull’altare dei desideri della sua famiglia, anzi, di suo padre. La madre seguiva silenziosamente i piani del marito e, se disapprovava, taceva. Comunque, era troppo occupata.

Lei, in quella che, apparentemente, era la vita che conduceva, sufficientemente attiva e piena, fin da adolescente, se aveva esigenza di sesso, aveva imparato a masturbarsi. Inizialmente, senza sapere bene come fare, solo, oscuramente, rendendosi conto di una necessità di soddisfare quella eccitazione che le nasceva dentro. Non gliene parlava nessuno, ma aveva visto le sorelle allacciate, di nascosto, ai fidanzati, che le toccavano, infilavano mani, palpavano. Sia lei sia André avevano assistito, per caso, passando per i corridoi, imbarazzati, arrossendo, ridendone. “Guarda quelle sceme!”, gli diceva lei, sottovoce, per sdrammatizzare, ma l’espressione di lui la preoccupava, perché le pareva un po’ grave, un po’ seria. Forse aveva semplicemente le idee più chiare, le venne il dubbio la volta che le rispose: “Ma è normale!” In altre occasioni, aveva sorpreso le sorelle, che ridacchiavano come oche, assiepate in biblioteca attorno a dei libri che prontamente avevano occultato. “Che fate?”, si era interessata, ingenua. “Vai via, non è cosa per te”, si era sentita rispondere. “Sono di mamma…” Allora, si era incuriosita. Era da quell’epoca che aveva iniziato ad avere una maggiore consapevolezza e, dopo, cercando di nascosto tra i libri di sua madre, appunto, sulle tracce delle sorelle, aveva scovato, sotto chiave ma, evidentemente, non troppo, quelli di letteratura erotica, illustrati, per giunta, quegli stessi che la donna consultava, la sera tardi, a letto col marito. Allora, a parte averli condivisi, trionfante, con André, che la guardava con tanto d’occhi, ammirato, aveva compreso che era la necessità di darsi piacere, quello che sentiva. E, in fondo, per quanto frustrante, finiva lì.

Almeno fino alla missione per Jeanne.

O fino a quel pomeriggio.

 

 

Pensava all’infatuazione che aveva avuto per Fersen, che sembrava passata. Fersen, che era spuntato come il primo reale elemento maschile non doppio di sé e non fraterno nella sua vita, nonostante il lì presente Victor, appunto, per dire quanto lei lo notasse. E che, ai suoi occhi, probabilmente, aveva incarnato una sorta di ideale di amor cortese, sebbene questo non fosse affatto vero e il giovanotto mostrasse una propensione alla infedeltà e alla promiscuità quasi allarmante, perlomeno dal suo punto di vista, molto meno ampio e condiscendente di quello di una dama di mondo. Ufficialmente fedele all’in fondo quasi platonico amore alla regina, beccato varie volte nei giardini di Versailles di ritorno dai sovrani convegni galanti, un certo numero di amiche fisse, pardon, amanti. Oscar si domandava ora se davvero una come lei, una che, forse, avrebbe preteso un innamorato perlomeno fedele e non un fedifrago incallito, avesse potuto provare un interesse che andasse oltre il mero sogno idealizzato per un individuo simile. Bello, affascinante, ma totalmente inadatto. Eppure, era successo. Poi, riteneva fosse scemato. Un po’ il tempo, un po’ André, che, in effetti, era un’ottima compagnia e forse, a pensarci, sarebbe stato un ottimo compagno. Perché, se ci pensava…

André si chinò verso di lei, mentre passava, e le comunicò, piano, complice: “La nonna ti ha messo da parte i biscotti in cucina…” segno che poteva saltare il complicato dolce che stava per essere servito. Lei arrossì. Sentiva la sua pelle vicinissima. Il suo calore. Il tocco delle sue ciglia quasi sulla guancia. La sua voce…

La sua voce…

Già… André, in tutto questo, lei, semplicemente, non aveva osato considerarlo sotto quel punto di vista. Vedeva che era bello, ma era abituata a non ammetterlo. Era un dato di fatto. Sapeva di stare bene con lui, ma doveva non pensarci. Soffocando ogni pensiero, che, talvolta, in qualche moto d’affetto poco fraterno, era passato all’atto. Il cercarsi le mani, stesi sull’erba, dopo un duello. Rimanere lì, spalla contro spalla. Il prendersi per la vita, dopo le esercitazioni, stanchi. Un buffetto affettuoso su una guancia. Questo, era tutto quanto si erano permessi. Sguardi interrotti, discorsi in cui avrebbero potuto dire altro, ma, almeno, il flusso di parole segnava un legame ancora esistente. Sbronzarsi insieme. Vivere vicini. Era stata educata insieme in modo moderno, illuminista, come un maschio, con le migliori possibilità disponibili; ma, nel contempo, in modo rigido, a obbedire e a fare quello che la famiglia le chiedeva. E però, era una figlia sperimentale, quella che aveva studiato da uomo, soleva ridere lei, e osava molto di più di quanto non avessero osato le sue sorelle. Cosa che le era costata schiaffoni e botte e urla da parte del padre. Un maschio coraggioso, una ragazza che aveva infine preso le proprie decisioni autonomamente, quello era lei. Che, certo, aveva sì scelto quella vita, ma per vivere più libera. Per non perdere quello che, fino ad allora, aveva avuto. Lei non voleva finire quindicenne moglie di qualcuno. Alienata da sé e anche da André. Voleva disporre di sé, del proprio corpo, della propria libertà. Non voleva essere una dote. Una verginità venduta a un maschio. Una fattrice di eredi da piazzare. Oscar, proprio per colpa di suo padre, non era una marionetta, ma una abituata a pensare con la propria testa. E, purtroppo per il generale, tendeva ad usarla oltre gli scopi per cui lui desiderava brillasse.

In tutto questo, forse, la questione André andava riconsiderata. L’oggetto dei suoi pensieri, intanto, era altrettanto oggetto di sguardi di un paio delle ragazze di servizio. Cosa che le serrò la gola in una morsa. Che le stritolò anche il cuore. “Stronze fottute, mollatelo!”, si ritrovò a pensare. E si alzò da tavola, sotto sguardi disapprovanti, scusandosi con gli altri, e sottraendolo alle deficienti con una scusa.

Forse lei aveva sbagliato ad assumere pedissequamente il punto di vista della sua famiglia, senza mai considerarlo quello che era. Un giovane educato come lei, rispettoso, o perlomeno fino ad allora lo era stato, che semplicemente lei non aveva mai neanche osato guardare, come un fratello – esattamente così come non aveva mai preso in esame l’aspetto delle proprie sorelle. Erano belle? Di buon carattere? E di lui, se si soffermava a pensarci, cosa poteva dire? –

Era questo che, forse, aveva sempre bloccato qualsiasi cosa fra di loro, assieme al loro gioco di ruoli. Che, un pochino, si era interrotto durante la caccia a Jeanne, quando lui si era mostrato in una luce diversa, con una forza, una determinazione che lei, che aveva trovato spesso comodo bollarlo come pigro dormiglione, non gli conosceva, ma che l’aveva colpita.

In fondo, era grazie a lui se era viva. Ricordava la commozione di suo padre, quando erano rientrati e aveva saputo cos’era realmente successo, a parte l’abbraccio davanti al camino e quello nelle stalle, che, forse, avrebbe gradito meno. In fondo, era il suo lavoro alle spalle che le consentiva di avere sempre informazioni corrette, rapporti perfettamente stilati, un quadro d’insieme di cose che a lei non interessavano minimamente, e forse neppure a lui, ma che lui, attento e osservatore per natura, e puntiglioso nel proprio lavoro, riportava. Erano tutte cose che aveva sempre dato per scontate.

Ed era grazie a lui se si era sempre sentita una donna, solo, con un lavoro e responsabilità prettamente maschili. Non solo era così che André l’aveva sempre considerata e trattata - non certo un uomo, né una strana creatura asessuata -. Ma anche, sapendo che loro due erano sempre insieme, fin da bambini, gli estranei tendevano a osservare lui come modello di comportamento a cui rifarsi con lei. Questo era stato normalizzante. In effetti, tutti sapevano di lei, a corte e tra le sue frequentazioni e se, all’inizio, era stato strano, imbarazzante, avere gli sguardi addosso - e in fondo lo era ogni volta che entrava in contatto con qualcuno di nuovo -, ormai per chi la conosceva lei era del tutto normale. E questo era accaduto grazie ad André.

Poi, c’era stato quel pomeriggio inspiegabile. Beh, non del tutto.

Forse, invece, era normale. Del tutto spiegabile. Forse, invece, intuì, come in una rivelazione, con stupore, angoscia, sorpresa, stordimento, negli anni, André le era stato lasciato accanto, nessuno aveva stranamente disposto del suo destino, proprio per quello. Proprio perché tutti si aspettavano, in quella vita da vestale, che o lui si sacrificasse con lei, o fosse suo. Comunque, in qualche modo, destinato a lei.

Se davvero era così, forse, però, sarebbe stato più onesto dirglielo prima. Non farle passare tutti quegli anni così… forse si aspettavano che lei comprendesse da sola. Invece lei era lì, incastrata, compresa sì, ma nel ruolo. Persino più testardamente di chi glielo aveva cucito addosso.

 

 

Con i brividi ancora nella schiena, si avvicinò alla stanza.

“Devo parlarti”, sentì nel buio.

Trasalì, sorpresa.

“Sono io…”

“Che ti prende?” Lo rimproverò a bassa voce. “Non potevi fare come tutte le altre volte? Entra. E chiudi a chiave.”

“Scusami”, sorrise lui, incerto, “non volevo che tuo padre…”

“Se cominci a comportarti in modo strano, di sicuro noterà qualcosa…”

Si rifugiò a sedersi accanto alla finestra, in zona di sicurezza. Percepì lo sguardo di lui addosso.

Sentiva l’imbarazzo. Non sapeva come rendergli le cose più semplici. Per lei la cosa più facile era restare in silenzio. Aspettare che fosse lui a parlare. Anzi, la cosa migliore sarebbe stata che niente mai fosse cambiato. Che tutto il suo mondo si cristallizzasse lì, in quella vita, in quegli istanti.

Ma, forse, non era questo che si augurava lui, rifletté. E forse non era questa immobilità artificialmente mantenuta, vivere, assistere al trascorrere degli anni. Vicini, ma sempre distanti.

“Scusami, per oggi…” fece lui, muovendo qualche passo verso di lei, piazzandosi di fronte alla finestra. Guardava lontano. Poi, abbassò lo sguardo su di lei, che non sapeva se accogliere con sollievo o delusione quelle parole. È già tutto svanito, si domandò, dopo che il caos era arrivato ad agitare il suo mare calmo.

“Scusami”, ripeté. “Forse avrei dovuto chiederti cosa ne pensavi…” sorrise. “Senza forse”, si corresse.

Lei lo squadrò, giusto un attimo. Sorrise. “Già…” un sorriso che scaldò il gelo. Non mi è dispiaciuto, avrebbe voluto dirgli.

Le si sedette accanto, prendendole, la mano. La tenne tra le sue, accarezzandola.

Lei non la ritrasse. Respirava piano, come sospesa.

“Era vero quello che ti ho detto…” ammise a voce bassa. “Oggi”, precisò, voltandosi a guardarla, così vicina.

E si rese conto, allora, che non gli era possibile resistere. Si domandò come vi fosse riuscito, per tutti quegli anni. Le sfiorò la guancia in una carezza dolce, delicata, sfumando le dita tra i capelli.

Poi, l’attrasse a sé, in un bacio.

Che si moltiplicò in altri. Infiniti, impacciati, dolci. Poi, più ardenti.

 

Fu così per molte sere. E per ogni altro istante in cui potevano nascondersi.

 


Continua

 

Laura, da gennaio 2015 a settembre 2015, revisione ottobre-novembre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2015

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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