Lezioni proibite - Rose II

VII

Warning!!!

 

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Ho iniziato questo racconto il 7 gennaio 2015, ispirato da due miei disegni e dal mio testo “Rose”. Da anni avevo l’idea delle lezioni di ballo impartite da André ad Oscar, innestata sulle tematiche di “Rose”, in cui, però, i protagonisti erano poco più che ventenni; poi all’improvviso, arrivò la scena finale scritta sugli appunti del cellulare. Mentre scrivevo già da un po’, si innestarono nella storia considerazioni nate dagli scambi con Sara, per la sua “Essere una donna”.

 

 

7

Cambiamenti - Gran finale

 

Avrebbe dovuto sentirsi alle stelle. Oscar lo amava. Lo ricambiava. Lo aveva sempre saputo, in fondo, ma sentirlo dalla sua voce – che voce bellissima, aveva, dolce, forte, delicata, intensa –  gli aveva stretto il cuore in una morsa di affetto, di appagamento. Era felice. Lo era. Sarebbe stato disposto a dare tutto, per quello. Quando, a 19 anni, aveva promesso, un giorno, di ricambiare il gesto di Oscar di salvarlo, pensava alla vita. A donare se stesso, tutto. Ma, ora, si domandava, tutto davvero? Le mani gelate, un sudore freddo che gli intirizziva la schiena, aggrottava lo sguardo e appena percepiva ombre sfocate. Non sempre, ma, prima, non era mai successo. Da un po’, accadeva, all’improvviso. Durava sempre più. All’inizio, aveva pensato alla stanchezza. Ma non smetteva. Ed ora, aveva paura. L’occhio destro, l’unico sano, da troppi giorni gli dava problemi. Il dottore, pur evasivamente, non era stato possibilista.

Che avrebbe fatto, uno come lui, cieco? Come avrebbe fatto, con Oscar? A starle vicino. Ad aiutarla… tutte le piccole cose che faceva per lei, da sempre. Lei era il suo lavoro. Gli venne quasi da ridere, all’idea triste che la ragazza che amava fosse per lui un lavoro. Oscar e lui erano molto di più. Ma sicuramente, non avrebbe potuto lavorare, non alla stessa maniera, né nasconderlo. Fingere. Già ora, da un po’ di tempo, quando doveva aggiustarle l’uniforme, faceva fatica a cucire. A trovare i piccoli dettagli. A volte non vedeva la polvere sugli stivali. Si aiutava con la memoria, col tatto. Con l’udito. Aveva una percezione dello spazio diversa da prima e cercava di incrementarla. Ma aveva paura.

In pochissimo tempo, la sua prospettiva era il rischio della cecità. E non sapeva come affrontare la cosa.

 

“Ho ricevuto una lettera, Oscar, che mi informa che hai infangato il nome della nostra famiglia, intrattenendoti con il conte Fersen”.

“Scusate? E chi la manda?” Ancora questa storia, si disse… ma non finisce mai?

Non la lasciò parlare.

“E dato che ti sei dimostrata inutile, nel tuo incarico a Corte, tanto che, prosegue sempre quella lettera, la regina ti ha rimosso…”

“Padre, ma è falso! Questo è assolutamente falso e voi lo sapete!”

“Certo che lo so, Oscar”, ammise lui, “ma ormai è questa la versione ufficiale… dicevo, vista la situazione, ho chiesto al conte Girodel di prenderti in sposa. E di farti generare un figlio. Di modo che mio nipote prenda il tuo posto.”

“State scherzando? Io non voglio figli, non voglio sposare Girodel e non intendo lasciare il mio lavoro.”

“… Invece lo farai.”

“Adottate un nipote dalle mie sorelle!”

“Lo farai tu.”

“No.”

Nella mente di Oscar, nella rabbia, nella angoscia, una domanda.

“Lui che ha detto?”

“Che ha molta affinità con te – e, detto tra noi, non oso pensare a cosa potesse riferirsi –.

Oscar sperò di non arrossire.

“Che è innamorato di te da tempo”, proseguì, mentre Oscar annaspava, sentendo la voragine aprirsi sotto i suoi piedi e la terra cementarlesi sopra, “che è lusingato dalla proposta, ma che intende parlarne con te e prima non farà nessuna proposta”.

Santo Girodel, pensò Oscar.

Improvvisamente, suo padre chinò la testa, coprendosi gli occhi con le mani.

“Oscar, ora, sinceramente, dimmi una cosa.”

Lo scrutava.

“Ti abbiamo lasciato André accanto tutti questi anni. È un bel giovane. È evidentemente innamorato di te ed era chiaro a tutti.”

Lo guardava, esterrefatta.

“Pensavamo steste insieme.”

Oscar era incredula. “Scu… scusate?”

“Che” si schiarì la voce “provvedesse lui, con la riservatezza che gli è propria, alle tue necessità.”

Oscar avvampò. “Ma che…”

“Puoi, santo Iddio, spiegarmi perché, con discrezione, non ti sei sfogata con lui, e invece sei andata a scegliere un dongiovanni come Fersen? Me lo puoi spiegare? È questo che tua madre e io ti abbiamo insegnato?”

“Ma che dite?”

“Non dico che dovevi sposartelo, no, certo, un minimo di decenza, non è del nostro ceto, ma sicuramente era una persona più adatta a te di quel… quello…” Batté le mani sulla scrivania. “Oscar, io quello non so neanche come definirlo!”

Un porco, pensò lei. Ma tacque.

“Oscar, io ho amato tua madre, non è che non mi renda conto delle esigenze di una donna… ma dovevi essere più accorta!”

“Ma padre!!! Che cavolo dite????”

“Ora, la frittata è fatta…”

“Ma non è fatto proprio niente!”, protestò lei. “Io con Fersen non ho fatto niente!”

“Non è quello che hai fatto, è quello di cui ti accusano!”

“Mi accusano proprio perché non è successo!”

“…”

“Padre, come fate a crederci?”

“Non è che non ti credo… ma…”

Seguì un lungo silenzio, durante il quale il generale, severo, rattristato, sembrò considerare, soppesare dubbi, idee.

Infine, parlò.

“Daremo un ballo per ufficializzare la cosa. Do per scontato che dirai sì a Girodel. O chiunque sia.”

Scostò le mani dal viso. “Vestiti da donna e preparati”.

“Non scherziamo!”

“Quanto ad André”, proseguì il generale, facendo mostra di non averla neanche ascoltata, “ho disposto che sposerà una vedova con prole della nostra tenuta delle terre più a sud, e si trasferirà lì. I loro figli serviranno nelle nostre vigne.”

Serviranno? Riuscì a restare in silenzio.

“Ora vai, non ho altro da comunicare.”

 

Lo trovò assorto, lo sguardo lontano.

Stizzita, lo scosse. “André, mi ascolti?”

Lui riemerse, pallido, passandosi una mano tra i capelli, sciolti.

“Scusami…”

La abbracciò, stretta, più per nascondersi in lei, per trovare rifugio, che per proteggerla. Rimase così, a lungo, con l’odore dei suoi capelli. Della sua pelle, mentre, piano, la baciava. Sul viso. Scostandole i capelli. Orecchie. Collo. Poi, con ardore, come per scacciare un demone, pensieri bui, prese a baciarla, cercarla più intensamente.

“Devo parlarti…” protestò lei, debolmente.

“Dopo”, chiosò lui, imperativo, mentre gli abiti volavano attorno a loro.

 

“Cazzo, un altro ballo”, commentò André, la mente finalmente sgombra, quando, un paio di focose ore dopo, Oscar fu riuscita ad informarlo.

Lei alzò le spalle. Come a dire tanto, ormai…

“Stavolta non ti ci faccio andare”, fece lui, improvvisamente possessivo. “A meno che… beh, potrei ballare io con te…”

“Certo…”

Lo guardava, in piedi, i vestiti dimenticati in mano, contro la finestra, e lo trovava bello. Ma lo sentiva stanco, distante. C’era qualcosa di duro, nel suo sguardo. Come se un limite fosse stato oltrepassato. O qualcosa si fosse rotto. O perso.

Gli si mise alle spalle, prendendogli una mano. Lui provò un brivido alla pelle nuda di lei sulla sua. Ne aveva ancora voglia. Almeno, così, non pensava. Non era solo quello.

Lei lo cinse con le braccia. Era dimagrito.

Si voltò verso di lei, cercando di risalire dal limbo, dal buio, un sorriso inizialmente forzato, poi più sincero gli si era disegnato sulle labbra.

“Dai, la vedova attempata… mi ci vedi?” André se la rideva. “Tu hai idea di chi possa essere? Io no, sono anni che non andiamo laggiù…”

“È tutto un schifo”, mormorò lei. “Tutto predisposto!”

“La vendetta di Fersen”, spiegò André, stranamente divertito.

“Di che diavolo parli? E che hai da ridere???”

“Niente, niente… certo che è un bel casino…”

Mi serve il costume del cavaliere nero… considerò tra sé.

“Io… cosa facciamo…”

“Di certo non quello che vorrebbero imporci…”

“Come facciamo? Io non ho nessun potere…”

“Ce l’hai. E, comunque, siamo adulti, decidiamo noi delle nostre vite: non possono disporre di noi come pedine, come bambini… non possono imporci niente. Andremo via.”

“Mi toglieranno il lavoro, che faremo?”

“Per ora, il lavoro lo abbiamo… non diamoci per vinti prima…” obiettò, sorprendendo se stesso, e i suoi cupi pensieri, per primo.

Cosa che festeggiò rituffandosi in lei. Scopare per dimenticare, perché no?

 

“Ti ho fatto chiamare”, esordì Jarjayes, “per comunicarti che, d’ora in avanti, non avrai più diritto di stare qui.”

Aggrottò le sopracciglia.

“Ti trasferirai con le tue cose al sud, nelle nostre tenute”, la voce che non riusciva solida quanto avrebbe voluto.

“No.” Si udì rispondere.

“Come?”

“No, signor generale.”

“Oscar sposerà Girodel. Mettitelo in testa. Qui non hai più diritto di stare”, aggiunse. Gli dispiaceva, era affezionato anche lui ad André, ma, solo eliminando lui, avrebbe fiaccato Oscar.

“Io sto dove sta Oscar. Sono il suo attendente. Mettetevelo voi, in testa. Sono l’unico in grado di proteggerla”, mentì, in fondo sapendo che era vero.

“Fai come vuoi. Non hai più una stanza.”

“Dormirò in camera di Oscar. Come sempre.” E se ne andò, lasciando sul campo il generale in procinto di una sincope.

 

Le voci giravano. Il Depôt era la sua nuova sede di lavoro. I soldati non la volevano. Era stanca. Uno la guardava in un modo assurdo, come volesse spogliarla, le era parso. Ma lei, nonostante tutto, abbastanza digiuna di corteggiamenti, semplicemente, non lo guardava. Rispondeva alla sua aggressività da macho con la forza, la perizia, e lo abbatteva.

In cambio, lui aveva preso in simpatia André, forse perché lo trovava così diverso, rispetto al contesto. “Sembri un nobile”, lo canzonava.

“Non lo sono”, protestava lui.

“Non ho detto che lo sei. Ho detto che lo sembri”, lo provocava. In realtà, aveva intuito quello che poteva esserci tra loro. E André gli piaceva. Pure lei, a dire la verità, ma era inaccessibile. E probabilmente la sua donna.

 

Ne ebbe la conferma quando trovò André, aggredito dai commilitoni, visto che non potevano altrimenti prendersela col comandante, a terra, semisvenuto, che, tra le labbra, tratteneva il nome di lei.

E lei, che, le lacrime che salivano, si era inginocchiata, piano, e lo aveva sfiorato con una carezza.

“Aiutami a portarlo in infermeria”, gli aveva detto, con una voce che non le conosceva. Allora, davvero, aveva visto che donna era il suo comandante.

Allora, rientrato nelle camerate, aveva fatto un discorso minaccioso ai compagni, a quegli imbecilli, che avevano quasi spaccato le costole a una brava persona, colpevole solo di essere finito tra loro per amore.

 

Quando il medico dell’infermeria l’aveva visitato, si era accorto che qualcosa non andava.

Aveva preso Oscar da parte. “Comandante, credo che quel ragazzo abbia problemi alla vista.”

“Che cosa…” Oscar, prima incredula. “Ma cosa…”poi, allarmata.

Allora, aveva cercato il dottor Lassonne.

“Sì, è vero…” aveva confermato. “Non vi ha detto niente? Dopo tutto, siete il suo padrone…” poi si fermò, di fronte all’espressione angosciata di lei. “Ma voi, forse…”

Lei sbarrò gli occhi, imponendogli di tacere, in quello sguardo.

“Scusate… non…”

“Voglio sapere tutto. E cosa si può o cosa posso fare.”

 

“A proposito, che abbiamo da fare oggi?” Le chiese, riemergendo dalle sue gambe, ansimando.

“Una capatina in sartoria…” rispose lei, indolente.

 

Attese che fosse di nuovo pronta, poi la prese.

 

L’abito era nuovo, ma rimase nella confezione.

“Però devi promettermi che lo indosserai per me…” le disse. “Voglio spogliarti, strato per strato, e farti mia”.

Quella sera, quando apparve nella sala con André appena un passo dietro, espressioni attonite, silenzi, gesti muti fecero da cornice.

La musica era lieve e riempiva il salone.

André sembrava svettare, bello, in nero, distinto da tutti lì dentro, eppure rimase in disparte. Volutamente.

Il segnale era chiaro ugualmente. Quello che dovevano dirsi, era privato. Quello che lei gli aveva chiesto, fiducia, era un peso enorme per lui. In realtà non si fidava affatto, ma le carte da giocare ormai erano quelle.

C’era Fersen, e André doveva tenere d’occhio lui. Come avesse osato ripresentarsi, non era ben chiaro, eppure era lì.

E poi c’era Victor.

E c’erano persone interessate a Oscar, uomini e donne. Incuriositi da quello strano spettacolo che andava in scena. Un secondo atto, dopo il ballo a corte.

Oscar, dopo l’anatema della regina, non appariva poi così in disgrazia.

 

Girodel l’attendeva nella penombra.

“Che volete?”

“Parlare con voi.”

“Avreste dovuto farlo prima di farlo con mio padre.”

“Oscar, sono stato di parola. È lui che ha contattato me.”

“Sì, ma avreste dovuto rispondergli di no.”

La prese per mano. Lei si ritirò. Insisté: “Venite con me”.

 

Fersen li aveva notati ed era pronto a seguirli.

“Fermatevi”, una voce chiara, udì passi fermi.

Qualcuno gli si parò davanti.

“Che diavolo fai, sporco villano! Vuoi fare il prosseneta? Non vedi che si stanno appartando?” Mentre una presa d’acciaio gli bloccava un braccio.

“Disgraziatamente, conte, come vedete ho un occhio solo.”

 

Prese a baciarla, e Oscar non seppe mai perché lo lasciò fare. Forse perché sperava che l’avrebbe fatta impazzire, come quella sera, quando giocava coi suoi seni, cercandoli attraverso la stoffa.

Riuscì ad allontanarlo da sé.

“Per favore…”

Scosse la testa, lui, le carezzò le braccia. Le prese le mani. Le tenne, a lungo, mentre uno sguardo infinito le trafiggeva gli occhi.

Poi, lentamente, le aprì l’uniforme, sentì le sue mani attraverso la camicia.

La osservava respirare, attento, i capelli e la stoffa che la nascondevano. “Voglio solo guardarvi…” Le slacciò la fascia. Si sedette a terra e, tendendole una mano, la fece sistemare vicino a sé.

Mentre, ancora, di nuovo, tornò a sfiorarle, circondarle i seni, con le mani, e ora, facendola sussultare, le carezzava languidamente il ventre, disegnandone i contorni, indugiando. Allungò una mano e strinse tra le dita i petali di una, due rose. Le carezzò la pelle con quelli.

La sentì fremere.

“Siete bella.” Mentre lasciava i petali, leggeri, su di lei, che li accolse in un tremito. Si voltò a guardarlo, ostile, stanca, stravolta. Fece per muoversi. “No, per favore”, le serrò le braccia. “Lasciatemi parlare.”

Continuava a percorrerla. Giocava con i petali e la sua pelle. Era assurdo. Era bello.

“Dio, quanto vorrei stare dentro di voi… anche solo una volta…” le disse, piano.

La sentì irrigidirsi. Le strinse le spalle. La tenne contro di sé. “No, per favore… ascoltatemi soltanto… non farò niente…”

“Io sto bene col mio ruolo di cadetto. Non mi è mai importato.” Confessò. “Mi piace la vita che faccio.”

“Anche a me, la mia…” disse lei.

Annuì. “Lo capisco.” Poi, aggiunse: “Non ho mai pensato di avere figli.”

“Neanche io.”

“E non vorrei mai mettervi incinta… o, forse, già lo siete…”

Lei aggrottò le sopracciglia. La sentì irrigidirsi.

Sorrise, lui. “Non vorrei, non perché non vi desideri. Vi desidero moltissimo. Ogni volta che vi penso, me ne rendo conto. E quando un uomo desidera, perdonatemi la franchezza e il linguaggio, vuole mettervelo dentro, e darvelo, tutto. Possedervi. Darvisi.” Alzò le spalle, quasi noncurante. Come fosse normale fare al suo ex superiore seminuda tra le sue braccia discorsi del genere.

“Ma io non vorrei rovinare questo corpo da statua, così perfetto… né voi… sarebbe troppo per voi…”

Era vero, ammise lei, sorpresa che lui la comprendesse così bene. Sarebbe stato troppo.

Ora le sue dita le sentiva calde indugiare, giocare sul ventre delicato. “Non ho mai visto un ventre come il vostro… così piatto…” Sentiva il tocco delicato dei fiori. “Io vi adoro…” Sentiva la sua lingua, il suo fiato. “Se fosse per vostro padre, per farlo contento, potremmo farne uno….” La sentì irrigidirsi, “uno e basta…”, mentre la carezzava, “e poi cercare di vivere la nostra vita…”

Oscar tremava… la mia vita… vivere la mia vita… non la nostra…

“Accettereste di stare al servizio di mio padre?” Gli domandò, seria. “Dei suoi piani?”

“…”

“Accettereste che un essere umano sia fatto nascere per uno scopo, strumentale a quello? Alla volontà di un’altra persona? Senza neanche poterlo consigliare? Per un destino già scritto?” Lo incalzò. “Voi lo fareste?”

“Forse…” le rispose, dopo un lungo silenzio, mentre le dita la sfioravano. “Se è il prezzo per avere voi…”

Rimasero così un tempo infinito, con lui che la teneva contro di sé e, sensuale, le carezzava pigramente il seno, il ventre, il respiro sulla pelle, i capezzoli che si sollevavano, tesi. Le rose. I petali.

“Io non sono una cosa…” mentre, razionalmente, tentava di sfuggire a quelle assurde sensazioni contrastanti, il velluto delle rose, le mani di lui. La voce che sussurrava. La leggera brezza, che spirava, sensuale, sulla pelle, agitando i petali, carezzando i seni, tesi al contatto coi pizzi di lui.

Lo sentì scuotere la testa. “No… lo so… infatti non insisto… Però… promettetemi di pensarci”, le sussurrò, languido, tra i capelli. “Vorrei prendervi… darvi me stesso… fino a farmi crescere dentro di voi. Restare ad ammirarvi, mentre nostro figlio cresce, in voi. Dopo, vi rispetterei e mai più vi chiederei di farne un altro. Vi amerei, ma con ogni attenzione… Oscar… questo, questo, almeno, potete capirlo? Dopo, sareste libera.”

Ma non riusciva a pensare. Era come una tabula rasa. Forse quella era davvero la soluzione? Girodel rischiava di risvegliare in lei istinti che aveva sempre misconosciuto, senza neanche bisogno di reprimerli. Era vero, la sua vita le piaceva. Non era “da uomo”, era la vita di una donna che lavora e ha fatto le proprie scelte consapevolmente. Ed era vero, sarebbe stato troppo. Lui, che languidamente, le accarezzava il ventre, l’aveva capito. E André? Anche lui? E se quella fosse davvero stata la soluzione?

Mentre si inarcava, la testa appoggiata alla spalla di lui, ascoltò la propria voce rispondere, senza quasi riconoscerla.

 

Più tardi, attese André nella sua stanza.

Lo volle.

 

“Devo dirti una cosa.” La voce improvvisamente ferma, quasi triste.

A lui si fermò il cuore.

 

Qualche mattina dopo, trovarono il conte Fersen corcato di botte, giusto all’uscita della residenza della sua amante parigina, il marito della quale era rientrato improvvisamente, stranamente messo sull’avviso da qualche anonimo benefattore, costringendo lo svedese, seminudo, in fuga coi cagnolini. Pare che, durante l’ingloriosa ritirata, qualcuno avesse provveduto, forse, a un regolamento di conti, a un angolo di una strada. I cani erano fortunatamente stati tratti in salvo.

 

Oscar ottenne un’udienza urgente dal re.

“Maestà…”

“Oh, madamigella Oscar… mi dispiace, davvero, per tutta questa storia… sono informato. Correttamente”, sentì il dovere di aggiungere.

Lei lo guardò, incredula.

“Sono venuta a domandarvi alcune cose…”

 

“Ero serio quella volta…”

“L’avevo capito…”

“È davvero un peccato”, osservò Victor, malinconico.

Oscar lo guardò.

“Sapete che ho ragione”, osservò Victor. “Stiamo bene insieme…”

Oscar gli sorrise, scuotendo la testa. “Voi non avete idea di come sono…”

Gli venne da ridere. “Un’idea me la sono fatta”, ammise, facendola arrossire. “E, il resto… avrei voluto scoprirlo…, però… però vi ho fatto una promessa. Ve l’ho detto, quella volta…”

“Io…” Oscar ritornò sui suoi passi. Avrebbe voluto spiegargli che era fango, e non era la realtà. Ma non sarebbe servito.

“No, non serve, lo so già…” disse lui. Poi, aggiunse: “Oscar… io vi amo… io voglio davvero sposarvi.”

“Io sono innamorata di qualcuno…”

“André…”

Lei annuì.

“Peccato, non essere arrivato prima…”

“Lui era lì da sempre…”

“Ma non ve ne eravate accorta… o l’avete nascosto bene…”

“Entrambe le cose”, ammise, triste.

 

“Signor generale, devo parlarvi.”

L’aveva atteso nell’ombra, nelle scuderie.

Jarjayes aggrottò le sopracciglia, infastidito. Forse più perché rimproverava André di non aver svolto il compito a cui, inconsciamente, oscuramente, l’aveva destinato, che per essersi innamorato di sua figlia.

“Lascia stare, André. Io sono affezionato a te, e so che l’avresti fatta felice, se fosse stato possibile”, gli disse, le mani sulle sue spalle. “Ma, ora come ora, non mi interessa sapere niente.”

“Forse, invece, qualcosa sì…” osò lui.

 

 

La casa odorava di legno e di nuovo.

Lo sposo, i capelli sciolti, soddisfatto, aprì la porta, mentre teneva tra le braccia la sposa.

La depositò, orgoglioso, sul letto, dopo un lungo percorso, guidato dalla luce delle stanze.

Senza poter attendere oltre, la prese, impetuosamente, tra le gonne e le balze, felice come non mai, di lei, della nuova sistemazione.

 

Ore dopo, tenendola abbracciata a sé, mentre la percorreva, languidamente, ammise: “Beh, non è male, no?”

“Cosa?” domandò pigramente lei, attraendolo di nuovo a sé.

Sul comò, accanto al certificato delle nozze, un nastro sciolto attorno al sigillo della patente reale, in doppia copia autentica, che autorizzava il matrimonio, appena celebrato, e che confermava a tempo indeterminato l’incarico attuale o eventuali promozioni di grado.

Dalla finestra, i tetti di Parigi rilucevano nel tramonto.

FINE

 

 

Laura, da gennaio 2015 a dicembre 2015, revisione estate 2016, inverno 2017, febbraio 2018, pubblicazione sul sito Little Corner febbraio 2018

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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