Kitchen Corner

II SEASON - parte 20

Warning!!!

 

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“Guarda, amore, ti piace?” Aveva digitato, preoccupato di essere ripreso per l’ennesimo acquisto o per la scarsa adesione ai colori dei dintorni degli altri elettrodomestici da appaiare.

“Bellissima!!!” Gli aveva risposto, nel cuore della notte, entusiasta, scornata – e sentendosi in colpa per lo scornamento – non si sarebbe mai riaddormentata, lo sapeva -. “È un colore bellissimo!” Un “Ti amo” di approvazione era volato sui tasti.

Si era sentito felice, leggero. Poi, in ansia: “Vieni a provarla?” Senza quando.

Una stretta al cuore. “Certo”, aveva esitato. “Appena riesco.”

“Mi manchi…”

“Anche tu…” maschio romantico e colpevolizzatore.

In seguito, era stata l’ennesima friggitrice ad aria, di cui erano giunte fotine, compresi Al e Lia impegnati nel collaudo, che le facevano ciao con la mano e sorridevano come due scemi. Aveva divorato ogni immagine. Ingrandito al Photoshop ogni particolare. Poi, senza ritegno – in realtà, trattenendosi -, lo aveva interrogato su tutto.

Infine ammonito: “Guarda che se ci metti il sale prima della cottura, si ammollano”.

E lui, contento, ritroso, entusiasta, aveva risposto: “Ma io le ho messe in ammollo…”

“Per togliere l’amido”, aveva approvato, in un sorriso, che lui non avrebbe visto.

“Mandami le ricette”, aveva intimato – e sapeva che, nonostante il tempo, scarsissimo, e la difficoltà di reperire gli ingredienti, le avrebbe testate -.

Poi, mandava le foto di ritorno “Ecco il mio tentativo. Ti amo, sempre. PS mi manchi un carinissimo…”

“Un carinissimo, con la S, vorrai dire.”

“Va bene… quello…”

Vorrei essere lì, avrebbe voluto concludere.

Ma, mentre lo pensava, aveva disconnesso le dita, sempre velocissime, allenate, dalla tastiera.

Che cazzo sto scrivendo… con una stretta dilaniante al cuore.

Lui non rispose.

Avrebbe voluto rispondere “Allora, vieni”. Era una persona entusiasta, gentile. Dolce.

Ma aveva capito che, se avesse, appena quel poco, tirato la corda, lei sarebbe tornata sulla difensiva.

Come una brava moglie, toccava a lui blandirla, non farla accorgere (troppo) del gioco.

 

Con un tuffo al cuore, ricevette il pacco.

Emozionato, curioso, felice, aprì il biglietto.

“Ho letto che va parecchio di moda. Manda foto di dove lo metti. E… usalo. P.S. Manda foto del collaudo. Dai!!! Ti amo, sempre”, implorava, il biglietto, rendendo alla perfezione tutta la presenza di lei, festante, saltellante, burbera, puntigliosa, contenta, come fosse lì, davvero, libretto di istruzioni alla mano. Davvero, la sentì lì, accanto a sé.

Come un bambino al compleanno, spacchettò religiosamente il tutto, mandandole fotine testimoniali dell’evoluzione.

Che lei riceveva, emozionata. Col cuore in gola. Come non era stata neanche quando si erano sposati. O, forse, sì.

Ti piace, si domandava. Ti piace’?

 

Così, con ansia, attendeva quelle che lei definiva “le fotine”.

“Ricordi, che bella, quella cucina a vista di Amsterdam? Quel bancone…” sognante, manco stessero parlando della tipica vacanza da sogno alle Maldive. No, quelli erano i loro must. “Pensa quanta roba ci entrerebbe, ci vorrebbe una stanza…” Ma, subito, si era rabbuiata. Certo, la loro casina era piccola, ma era lì che era il loro nucleo. Il loro cuore. Toccava creare spazi, inventare soluzioni. O, magari, smettere di comprare small e meno small kitchen appliances.

Il varo progressivo dell’ultima delle quali fu carinissimo ed ansiopatico, come al solito. Andre inanellava millemila ricette sul desktop del suo pc. Non essendoci lei a impostare, avendolo letto – rigorosamente di straforo, alla voce di “mamma, quanto è bello il tuo monitor…” – sperava le cose procedessero.

 

Al e Lia furono di nuovo chiamati al collaudo ufficiale. E approvarono.

La stanza si era animata, pareva più calda, riempita dai commenti, dai racconti. Una vena, solida, di tristezza, però, velava le voci, gli sguardi. Ad un certo punto, André aprì la finestra sul terrazzo, perso a scrutare una luna gigante, una brezza leggera che, come le dita di lei, gli sfiorava la pelle, lo carezzava.

Il Ballantyne nel tumbler, dimenticato tra le dita.

Ma era triste anche Al. E Lia non mancava nel potersi definire tale. Quello che era delle loro vite, in quel singolo istante, appariva impietosamente collocato nel gioco della società, del dover essere. Nonostante, in tre, stessero cercando di esorcizzarlo, almeno di dimenticarlo per una serata. Ma la realtà rimaneva. Loro tre si sarebbero dovuti allontanare.

In silenzio, si scambiarono uno sguardo. Sparecchiarono. Misero via le varie cose.

Al appoggiò una mano sulla spalla di Andre.

Lia si avvicinò. “Dai, che torna…”

Andre serrò le labbra, trattenendo le parole.

Al scambiò un’occhiata veloce con Lia. Bisognava distrarlo. “Dai, chiamiamola in chat!”

 

Andre, bellissimo, stremato, si era profondamente addormentato sul divano. L’ennesimo tumbler abbandonato accanto, sul pavimento. Il computer ancora acceso, i fogli sparsi, sul tavolo del soggiorno.

 

E se venissi a trovarti, si sorprese a immaginare, in un pensiero fulmineo, svegliandosi di colpo.

Il cuore gli batteva forte, all’emozione di quella idea. Si mise seduto, i gomiti sulle ginocchia, a considerare la questione. Mamma mia, che casino le distanze. Che casino sopravvivere.

 

Lei era là. Nella distanza. Remota. In un tempo astratto e, tuttavia, presente.

Se pensava a se stessa, in un concreto tempo di riflessione, si scopriva trentaduenne.

Prima, per lunghi anni, ne aveva avuti diciassette. Poi, ventitré. Poi, forse – e qui era parecchio incerta – ventisei. O ventisette.

Era un fatto non solo mentale. Quando la vedevano con sua madre, le chiamavano le due sorelle. Le veniva da ridere. Più che sorella, lei aveva letteralmente dovuto farle da madre. Ma le aveva voluto un gran bene, credeva ricambiato.

La mamma è come una caverna.

Quando non c’è, senti un abisso dietro le tue spalle. Manca qualcosa a cui puoi appoggiarti. In cui cercare rifugio. Qualcosa di ancestrale. Ti senti perduto.

 

Stava per raggiungerla, quando prima ancora di indovinarne i contorni, nella penombra, sentì, percependone nettamente la sensazione, le sue lacrime.

Soffocate nei singhiozzi.

Teneva la benda ancora stretta tra le dita, avrebbe solo voluto dirle di non preoccuparsi. Che, in fondo, non era cambiato quasi niente, nella sua vita.

Ma si era fermato e, ora, quasi si nascondeva, di fronte a quel dolore.

Oscar stava piangendo. Forse, per lui.

Piegata su se stessa, alla scrivania appena illuminata da un lume, quasi al buio. Un vaso di rose, vellutate, il cui bianco, gli pareva, danzava, animandosi di riverberi, tra la luce fioca del lume e l’oscurità della sera, che, da fuori, incombeva, avvolgente - o, forse, era la vista a ingannarlo -, col bianco della camicia di lei.

Avrebbe voluto raggiungerla, prenderla per le spalle, rassicurarla.

Ti voglio bene, avrebbe voluto dirle.

Non voleva che fosse triste.

 

“Ricordi il ristorante cinese?”

“No… non c’era un cinese…”

Quasi deluso, da quella mancanza di memoria delle loro cose insieme. “Come no? Si scendeva per delle scale…”

Allora, aveva sentito, come sempre, il cuore gonfio di amore. Di una dolcezza struggente e terribile. Per quello che erano stati. Per il tempo che era passato e non sarebbe tornato. Per il loro amore.

Lo ricordava, adesso. Il cinese di piazza Garibaldi. Si scendeva davvero per le scale. Ricordò all’improvviso la sala, l’atmosfera. Quel tempo che era stato. E, nella mente, all’improvviso, le immagini, le scene, la sostanza stessa dell’aria, fina, limpida, di quei momenti, di quello spiazzo, e le emozioni, si erano ricomposte.

 

 

Era possibile, davvero possibile, che fossero passati tutti quegli anni, tutta quella vita? Ed essersene dimenticata. E quante altre cose non ricordava, che avevano vissuto? Perché nella sua memoria erano selezionate, e ben presenti, altre scene ancora, diverse? Di quella domenica in avanscoperta sulla strada Regina. Il verde della Valdaso, di altri viaggi. Perché, invece, lui ne ricordava altre? E cosa crea, cosa imprime tra i ricordi la selezione? Non sapeva rispondersi, ma, per quello che era stato, tra loro, provò una tenerezza bellissima e dolorosa.

Allora, lo aveva abbracciato. Stretto. Premendosi forte contro di lui. Come ad imprimersi in lui.

 

Aveva il cuore gonfio di amore. E di rimpianto. Ora, che ci faceva lì?

Voleva tornare a casa. Non ne poteva più di stare lontana. Mai come adesso quella distanza le pesava. Le troppe ore. Le difficoltà.

Lo cercò in un messaggio. “Ti voglio un casino di bene…”

Ma a cosa sarebbe servito? Non è che lui non sapesse che gli voleva bene.

Però, finché non ebbe sentito quel suono, finché, col cuore sospeso, non ebbe letto, non ebbe quasi più respiro.

“Anch’io…”

Allora, come se, finalmente, potesse lasciarsi andare, strinse il telefono contro di sé, come riscaldata dalla sostanza di quelle due parole e, addossandosi alla parete, lentamente, fino a rannicchiarsi a terra, pianse, pianse lacrime, respiri, pensieri. Ogni pensiero d’amore che le stringeva il cuore. Sperò volassero, tutti, fino a lui. Che gli raccontassero quanto, infinitamente, lo amava.

Anche se non era sicura di riuscire a manifestare davvero il proprio amore.

 

Si disse che avrebbe dovuto non dimenticare quelle sensazioni. Quegli stati d’animo così viscerali, intensi. Perché, a volte, come per il cinese di Piazza Garibaldi, si dimentica. E non si dovrebbe. Quando si dimentica, si perde il senso del valore. E, alle cose, alle persone, bisogna dare valore.

 

A volte, invece, dimenticare o, meglio, passare oltre (o sopra? Si domandò, meditabonda, modello schiacciasassi), diventava necessario alla sopravvivenza. Per non essere coperti di immondizia inutile e deleteria.

 

Dormiva poco, male.

Quell’incubo la perseguitava. Era con Andre, erano fuori casa. Poi, si separavano, per una sciocchezza. Non erano più insieme. Non lo trovava più. Era giusto un attimo. Fare un passo. Vederlo ancora davanti a sé, poi si allontanava sempre più. Fino a sparire.

Allora, si sentiva strozzare il respiro. Iniziava a cercarlo.

Ma non lo vedeva più.

Affannata, preoccupata, angosciata, lo cercava.

Muoveva lo sguardo attorno a sé.

Vedeva ambienti, locali.

Altra gente.

Cercandolo, arrivava lontano da dov’erano inizialmente. Senza sapere, nell’illogicità del sogno, come fosse finita così distante. Perché.

Si era girata, ad un certo punto, non si era accorta a che punto. Ed andava in direzione contraria.

Quando l’aveva compreso, aveva tentato di tornare sui propri passi, ma non era riuscita più a muovere le gambe. Pesavano, rigide come colonne. Pietrificate. Senza riuscire ad alzarle.

Tentava di fare il movimento, di imprimere il segnale agli arti.

Ma non si spostavano.

Niente di niente.

Erano di legno.

Di cemento.

Vedeva il percorso, davanti a sé. Immaginava di fare dei passi, congiungerli con gli altri. Di spostarsi di 60, 70 cm. Invece, le gambe non si animavano.

E, così, si era ritrovata, ormai lontanissima da dove erano insieme, a cercare di raggiungerlo, di muovere mezzo passo. Ogni centimetro era un’impresa, e non era detto riuscisse. Era un incubo. Terrificante. Quando riusciva appena ad avanzare, di pochissimo, con uno sforzo enorme, sentiva i passi affondare nel cemento liquefatto.

Ad un certo punto, quando era riuscita ad avanzare di un infinitesimo, tutto si era fatto grigio e una grandine fortissima aveva iniziato a sferzarla.

Il tepore di prima ora si era fatto gelo.

Tutto era desaturato nelle tinte. Aveva freddo. Si era stretta nei vestiti, leggeri.

Allora, lo aveva visto, davanti a sé.

Angosciatissima, col cuore dilaniato, gli aveva urlato “Ma cosa fai? Non stare lì, è pericoloso!”

Lui la guardava, pallido. Sembrava non capire.

Ma lei non riusciva più a raggiungerlo.

Lui era sempre troppo distante.

 

Finalmente, quando arrivava il sonno, agognato, era popolato di quei paesaggi angoscianti. Ogni notte, svegliandosi, supplicava di poter dormire ancora un po’. Se quelli erano i risultati, mille volte meglio svegliarsi. Ma era così stanca.

 

Un’altra volta, aveva sognato una spiaggia, e i robottoni che sparavano, mentre il cielo si faceva ramato dal fumo delle esplosioni, i copertoni che volavano, il nastro della vicina strada, tra auto in corsa e altre parcheggiate, devastato. E Goldrake, che, alla fine, appariva in soccorso. Una cosa surreale. Da panico e straniamento.

Poi aveva sognato suo fratello che la sparava, mentre le mura della casa si crepavano e lui voleva ucciderla. Questo era già meno strano. Ma egualmente parecchio angosciante.

 

 

La volta stellata, sopra di sé. Questo ricordava. André si voltò verso di lei, uno sguardo dolce, limpido. Pieno di tenerezza, ardore. Amore.

La luce soffusa della luna rischiarava appena, di azzurro. Un azzurro che sapeva di infinito, profondo, chissà cosa c’era oltre quelle stelle…

André le tese la mano. Accolse la sua, racchiudendola, dolce. Una stretta delicata, salda.

“Non avere paura”, aveva sussurrato.

Si disse che avrebbe ricordato per sempre quei momenti.

 

“Tutto sta per cominciare…” con la voce, sempre più debole, che si spegne in un filo, André.

“Tutto deve ancora cominciare…” Alain, con gli occhi gonfi di lacrime.

Addossata al muro, nella notte fredda, mentre le lacrime si scioglievano, diventando aria, brezza, senza poter trovare nessuna consolazione, nessun conforto, si domandò: “È davvero tutto finito?”

 

 


 

 

Laura,  marzo-maggio 2019, aprile-giugno 2020, pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2020

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