Kitchen Corner
parte 18
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“Non devi indossare per forza la maschera della persona vincente…”
“Ma, dopo, quando sarò stata una perdente troppo a lungo, allora, ti avrò stancato…” Lo dice guardando lontano. Tutte le volte che l’hanno scardinata. Quante persone ha incontrato, sulla sua strada, che hanno voluto spianarla – non era neanche un rimetterla al proprio posto, era toglierle tutto il possibile, senza nessuna ragione se non, forse, abbassarla al loro livello e sotto ancora, umiliarla, poterla ricordare senza lavoro, senza dignità. E, allora, chiederle lavoro senza titolo, gratis, come un favore. Ancora oggi, ogni volta che accadeva, non se lo spiegava –.
Scuote la testa, lui. Come se possieda la consapevolezza che non può essere possibile.
Sorride con tristezza, lei. Come se, invece, già lo sappia.
Le circonda le spalle col braccio. “Adesso non pensiamoci. Andiamo! Voglio organizzare una cena!”
Si sente smarrita, sola, non pienamente compresa. Eppure, quella è sempre stata la cura. E le piace quando lui, incosciente, festante, si lascia andare a quelle botte di entusiasmo da ragazzino.
“Eccomi!!!” E si trasforma, nel sorriso. Lui la illumina. Sempre. “Che menù hai in mente?”
Piove. A dirotto. Da ore.
Barricati nella casetta, dopo la spesa, le braccia cariche di buste, dopo una scopata galattica, che li ha pacificati, lui che consulta ricette del suo archivio e in rete, lei che osserva il fitto muro di gocce, come corde, infrangersi in cerchi, spezzati da altri cerchi opposti. L’acqua senza forma che scompagina l’acqua. Tutto è completamente assorbito dal suono della pioggia, ogni cosa sospesa. Se potessero esserlo anche loro due. Rimanere lì. Continuare ad esistere, insieme, in quella impossibilità temporale.
Riflette sullo stesso tema, Andre. Perché casa loro, in fondo, è un po’ così, somiglia a quella casina lontana. E allora, si domanda, perché non ti abbandoni a me, perché non resti con me, impari a fregartene? Gliel’ha domandato, anni fa e, ancora, prima, mentre erano abbracciati, e lei guardava lontano, malinconica, senza sapere cosa rispondere se non che quello era il suo lavoro. E sembrava a lui che qualcosa si potesse essere spezzato, dentro, poi, quasi immediatamente, riparato dall’affetto di sempre, ma era difficile… era facile, scontato, ovvio, da un lato, ma era maledettamente difficile lasciarla partire, stare senza di lei, ripiombare nell’abitudine di non averla vicina.
Il ronzio di un sms invade il silenzio.
Andre posa gli occhiali.
Si ferma a osservarlo, lei, mentre lui legge. È così bello. Poi, da quel lato del profilo, è ancora più bello. Lo stesso che ricorda, dai banchi di scuola. Una tenerezza dolorosa quasi le strappa il cuore. Com’è possibile essere così innamorati, ancora, dopo tanto tempo?
Eppure, bisogna allontanarsi…
“Era l’omonimo”, la richiama dai pensieri, lui.
“Dice che arriverebbe tra un paio d’ore per dare una mano… e mangiare!”
Venuto a salvarci, pensa lei, mentre Andre si è alzato e gira attorno alla Nespresso e, incapace di resistere, la mette in funzione.
“Gioca”, pensa lei, e ricorda casa loro…
Lo abbraccia, forte. Come se, così, riesca a non allontanarsene mai. Se potesse, farebbe ron ron come un gatto!
Gli odori si spandono dalla cucina al soggiorno, dove, sul tavolo, sono sparse le vivande.
André, quello straniero, è entrato, l’impermeabile grondante, i capelli che lasciano gocciolare la pioggia sul viso, sugli zigomi. Sembra più bello, in quella luce. Emana un fascino strano.
Insieme, in cucina, i due si divertono, lei manovalanza spicciola, divertita, li osserva, fa foto, a loro, al making of dei piatti. Le foto, poi, scalderanno gli strascichi di nostalgia. Saranno conversazioni, ricordi, post… quei due sembrano fratelli, tanto sono affiatati. Anche se i fratelli veri, riflette lei, spesso non sono affatto così. Sono bestie feroci. Carnefici. Sono freddi calcolatori. Esattori. Sanguisughe. Fratelli… chissà com’era Oscar con le sorelle, pensa… la mente si perde, tanto per cambiare, poi, torna ai due eroi della serata.
La sera trascorre, la cena si crea, compare in tavola, si dissolve. Cameratismo, si domanda? Affinità? O, forse, semplice incontro di solitudini. Ogni cosa si stempera nei saluti, nelle promesse di rivedersi, di foto, di ricette.
Arriva la notte e poi muore, la fine della vacanza si avvicina, e tutto inizia a sapere di malinconia.
Se solo si potesse portare con sé il viaggio. Riempirsi delle sensazioni di una vita nuova, senza troppi pesi e ombre.
Quanti dei luoghi che aveva visto con lei avrebbe desiderato diventassero casa...
Sente uno struggimento indescrivibile. Desidera averla tutto il tempo lì, con lui.
Non vuole pensare a tutte quelle sere, da solo, in cui rientrava e le luci, le uniche spente, erano quelle di casa loro. Nessuno ad attenderlo. Nessuno, per lui.
Quando il motore di un’auto si avvicinava, sommesso, e lui, povero illuso, come un gatto che attenda il ritorno dell’umano, come un bambino speranzoso, correva al terrazzo. Ma non era lei e la delusione gli stringeva il cuore in una morsa.
Quante erano state le volte in cui, solo, aveva sperato tornasse all’improvviso?
Deve fare qualcosa. Non può lasciarla partire di nuovo.
Si sente impotente.
Eppure, c’è ancora una telefonata. Quella che ha rimandato fino ad ora.
Se partisse, anche stavolta, non l’inseguirebbe, come fa André in “Martinique” di Stellato… come potrebbe? Il lavoro, è tutto lì… ha costruito tutto lì, pensando a loro due, e non ha previsto… l’imprevedibile…
Prima di ripartire, hanno visitato il piccolo atelier del loro ospite. Lei si è innamorata di un paio di disegni, e Andre, come sempre, glieli ha comprati.
Lei è felice.
Lui pensa che sarà felice di poterli contemplare, a casa.
Poi, passeggiando per le strade che ormai sono diventate quasi anche le loro, si sono specchiati, casualmente, in una vetrina. Giusto loro due. Perfetti insieme. Sono rimasti, quasi stupiti, a guardarsi. Appena un attimo.
Poi, in lontananza, una musica.
Si arresta all’improvviso. Una musica nota.
Cerca con lo sguardo.
Cerca anche lui.
Dalle vetrate sulla strada, mentre osservano le giovani allieve mentre provano pirouette spezzate en pointe, braccia allo specchio, scendi subito, emergono i ricordi, al ritmo, “un, deux, trois – et- quatre!” Scandisce l’insegnante.
Rimangono affatati, tutti e due, lei, che l’ha trascinato, curiosa, entusiasta, lui, incantato.
Lei, che non è nuova a parentesi di derive affettive, in puro stile Amélie, ricorda quando aveva conosciuto lui, a danza. E si era presa una cotta.
Lo guardava, e provava una stretta al cuore. Non si sarebbe dovuta rendere conto, allora, e, invece, sì.
Lo ricordava, alle prove. Le parole che le aveva detto. Il rossore sulle guance. L’emozione mascherata da indifferenza.
Poi, al saggio, tutto era filato perfetto, lei inghirlandata in nastri e balze, come molte altre, e altre, più grandi, più belle, a farsi notare.
Poi, tutto il resto.
Il diploma, l’ Accademia, la decisione di aprire una scuola.
E, tra le allieve, una bambina.
Le si era legata molto. Era brava. Veramente appassionata di ballo.
Ricordava quando le insegnava le pirouette, sali, parallela allo specchio, braccia in seconda, chiudi, scendi.
Lei, adulta, la guardava, e vedeva in un brivido in lei i colori di Andre. La figlia che non avrebbero mai avuto.
La piccola la guardava, ammirata, e le diceva “Sei brava, tu”, e lei arrossiva.
Poi, era finito.
Finito.
Lei era andata via. E la ragazzina si era smarrita dietro i talent. Era delusa. Avrebbe preferito non saperlo.
E il suo problema è che i ricordi non finiscono. Li ricaccia indietro, lontano, ma il cuore, come se possa essere ancora, lì, tutto, presente, fa male.
Lei, la ragazzina non l’ha dimenticata. E neanche il resto. Le ragioni per cui era fuggita.
È lì, in quella scuola, che Andre si è accordato per partecipare a qualche classe, prima di ripartire. Le fa anche lei, giusto per tenersi in forma. È tanto che non fanno una lezione insieme, tranquilli. Lo osserva, la schiena dritta, la muscolatura, i dégagé flessuosi, precisi. Lui è sempre stato bravo, lei aveva solo passione, ma lui aveva qualcosa in più.
È contenta che, in quel viaggio, anche lui abbia potuto dedicarsi a quello che ama. La Nespresso. Cucinare, danzare.
Poi, a volte, il tempo di partire, giunge, fin troppo importuno.
Ti lascia stupito, ferito, la velocità con cui il tempo bello svanisce.
È finita la vacanza, quel tempo della mattina scandito dai nove minuti entro i quali la Pixie blu metallico si auto spegneva.
Adesso sono i nove minuti di quella di casa. Rosso arancio. Bellissima. Anche casa è bellissima. Ma casa, per lei, è partire. Col cuore strappato in mille horcrux, vorrebbe davvero poter creare attorno a sé una bolla difensiva, e non essere né più attaccata, né più ferita.
Si costringe a fare la telefonata che ha temuto ed evitato di fare a lungo, Andre. Solo al ritorno.
Sono gli ultimi giorni. Le ferie sono quasi finite. La partenza si avvicina. Ogni cosa che non è stare insieme, è sottratta, sacrilega, al loro tempo in due.
Le passa un foglietto, con un indirizzo, un numero di telefono.
Lei non vorrebbe, sente che non ha senso, eppure, lei si presta. Non è convinta, ha presente il tipo di persone, ma lo fa.
Non sa cosa sperare, ma non ha bisogno di sperare. Va decisamente male.
Fin dal principio. Per il colloquio non la contatta la persona a cui lui si è rivolto, ma uno, da lui delegato, che è perfino più pieno di boria dell’altro.
Sconcertata, imponendosi un’ ἐποχή asettica e forse doverosa, annaspa per cercare dove diavolo sia il luogo. Riesce a scovare, infine, una specie di fondaco buio, arredato in pompa magna. Legni scuri, lucidi. Tavolo di cristallo a cui sta, assiso, tipo Re Vega – gli mancano le antennine, ma il colorito è decisamente rossiccio e ha una panza debordante –, il tipo, colui che, di quando in quando, si prostra dagli alti lidi fino al misero borgo, a cogliere i frutti del contado, quali dovuti privilegi feudali. Marginale, davanti alla porta del cessetto, a un piccolo tavolo da appoggio, siede, curvo, muto, l’anziano factotum. Quello che manda avanti la baracca-succursale pensata per mungere con facilità i villici.
Sdegnato, il rictus fisso di disgusto neanche malcelato per quella spiacevole incombenza, una evidente perdita di tempo, la pronuncia blesa, marcatamente regionale – e forse lui si sente figo così, a mascherare le origini –, la brutta voce arrogante, il padrone, anzi, lo stronzo, emesso dal padrone, si accomoda meglio sullo scranno, ponendole qualche domanda, mentre, tronfio – o è ingrassato? – emana la sensazione di appagato congiungimento con la propria perfezione. E, di conseguenza, arrota i presunti deboli – è un suo diritto –. Lei compresa.
Il sopracciglio arcuato nel ribrezzo, mentre ascolta la risposta alla domanda “Di cosa ti occupi”, la interrompe dopo 40” per prospettarle di lavorare sotto una molto meno formata di lei, che dovrebbe farle da mentore.
Quello che lei ha fatto, in quel limbo che lui crea, non conta più niente. Le parla sopra. Ingrana la prima, poi passa alla 4x4 e, così, niente, semplicemente, la investe. Nota solo le mancanze e non le presenze. Poi, lascia cadere il discorso. Nessuna proposta.
Lei se lo imprime nella memoria. Neanche volontariamente. È che sono cose che scavano una voragine, dentro, e non si può non ricordarle, ma intanto la dignità evapora, si sente una cretina, vorrebbe alzarsi e andare via, invece, resta lì solo per lui che ha voluto quell’incontro. Ma, fin da quando è entrata, ha capito l’andazzo. Si tratta di portarlo a termine, di non lasciarsi mettere i piedi in testa, eppure, quasi balbetta, di fronte al quel coglione.
Come ci si senta, a essere sottoposti gratuitamente a un’umiliazione del genere, forse non vale la pena raccontarlo. Lo sopporta solo per lui. O, forse, per se stessa. Per non dovergli dire: “Me ne sono andata prima della fine, non ho ascoltato fino in fondo, se mai ci fosse stata una possibilità l’avrei colta.” Ma non c’è proprio stata. È stata una cosa da risolvere velocemente. Una perdita di tempo.
Non solo per il feudatario.
Non che la cosa sia del tutto inattesa, visto il tipo, ma essere richiesta per un colloquio, per poi essere trattata in quel modo…
Ripensa a quando, anni prima, aveva assistito a qualcosa di analogo: la scena di una sua collega, in commissione, che infliggeva gratuitamente una pubblica umiliazione a una ragazza che lei aveva conosciuto a inizio studi, e lei era intervenuta. Ma ora non c’è nessun Avenger, né Thor, biondo e bello come Fersen o come Mathias, il cacciatore-raccoglitore di Fred Vargas, né quel matto simpatico di Tony Stark, né quel Loki inquietante, che era stato Martinnson nel Wallander di Branagh, a vendicare lei, e neanche a tirarla fuori dalla situazione. Non c’è neanche uno straccio di Grandier mascherato da Cavaliere nero. Neanche Rosalie, disposta a sparare per lei. Sta proprio messa male. Aspetta solo, come si attende che l’abuso finisca, sperando di limitare i danni, che quello, che le sta riversando addosso la propria presupponenza, termini presto, rimetta a posto, metaforicamente parlando, l’uccello, e si ritiri soddisfatto.
Esce frastornata, come l’abbia investita un treno. Tutto le balla attorno. O, forse, frana. Si dice lascia perdere, tanto lo sapevi… ma non sente niente. Ricorda la strada, i palazzi. Poi, è un vuoto fino a quando apre la porta di casa.
Dove lui la osserva, le labbra serrate. Serio.
Controluce, seduto, attende di sapere, la figura rivolta verso di lei.
E, allora, lentamente, senza quasi udirsi, la voce piatta, cerca le parole, faticando anche a recuperarle. sceglierle. Bisognerebbe prima trovare l’aria da respirare e forzarla nei polmoni.
Poi, siccome è stato lui la ragione del contatto, cavandosi la voce dalla gola, ancora sotto shock, cercando l’obiettività in mezzo a sensazioni chiarissime, parla.
“Mi dispiace”, ammette lui, alla fine del penoso resoconto, durante il quale ha annuito, serio.
Lei alza le spalle.
“Vuoi ripartire?” Le domanda, versandole del whisky.
Un lungo silenzio.
Va alla finestra, serrandosi il corpo con le braccia.
“Per forza, devo almeno finire corsi e poi...” le mani nei capelli. Non voglio! No…
La raggiunge.
La cinge, da dietro.
“Poi?” Domanda speranzoso. Ma non è un accenno a un dopo, quello che lo aspetta nella risposta di lei. È il centro del dilemma.
“Poi…” e quasi non riesce a dire, “… Poi cosa dovrei fare, qui?”
La abbraccia stretta. “Non puoi essere semplicemente mia? Mia moglie?”
E non trova risposta se non stringersi a lui, infelice, felice, commossa, arrabbiata, perché entrambi sanno che non è possibile.
La volta verso di sé.
“Resterai?”
Speranzoso.”Per favore…”
Seria. Troppo.
Abbassa la testa. “Dobbiamo parlare.”
La ascolta. Poi, sbotta: “Ma dove vuoi andare? Perché? È un errore? Vuoi punirmi perché non riesco ad aiutarti?”
Scuote la testa, gli occhi pieni di lacrime. Si nasconde, tra i capelli, il viso verso la finestra.
“E tu, invece, non puoi venirmi a trovare?” Si gira, incazzata, triste, nera, addolorata, felice che almeno tra loro ci sia un amore per cui combattono. È tutto così strano. Così assurdo.
La guarda.
Ha capito.
È finita.
Finita la speranza.
Di tenerla lì con un lavoro.
Andre è una persona perbene.
E, così, solo fuggevolmente ripensa al giorno in cui aveva aiutato quelle persone. Quei traditori. Rettitudine. Gratitudine. Non sono concetti per gente come quella. Gente che, intuendo come lui fosse, con quelle scuse l’aveva abbindolato, considerandolo un serbatoio di risparmi a cui attingere. Un cazzone risparmiatore. Uno che, ai loro occhi, non sa sputtanare, godersi la vita.
Chiude le saracinesche dei pensieri. Schifato, allibito. Arrabbiato con se stesso.
Non serve a niente.
Lei è perduta.
Non era rimasta che quell’occasione per impedirle di ripartire.
Non ci sono più alternative.
Lei è perduta.
Loro due sono perduti.
Andò a letto, quella notte.
Insonne, come molte delle altre.
Guardò per abitudine antica il suo profilo e, sconvolta, vi ritrovò quello di lui, a quindici anni.
Non voglio partire!
Quel profilo che scrutava, da lontano, assieme alle mani, trovandole bellissime.
Non voglio partire!
Si sentì sprofondare in un abisso.
Si domandò come avrebbe potuto accettare di allontanarsi da lui. Ancora una volta. Innamorata com’era.
Ormai è quasi ora. Sente lo scoramento di Andre, all’avvicinarsi della partenza, ma non è solo una sensazione di lui. Anche lei non vorrebbe. Anche lei, impotente come e più di prima, quando se ne era dovuta andare, sta cercando in tutti i modi che conosce un appoggio, un appiglio, un lavoro che la trattenga lì. Non è rimasta con le mani in mano.
Ha mandato mail, cercato contatti. Niente. Più rifiuti di prima. Una cosa che credeva umanamente impossibile.
Anche quest’ultimo tentativo non è andato. Non voleva neanche aprire la posta elettronica, temendo un no. Non pienamente neppure giustificato, eppure un no.
Legge, forse un po’ se lo aspettava, ma rilegge anche. Resta lì, a guardare lo schermo, l’ennesima botta in giornate in cui tenersi su non è facile e il rifiuto non aiuta. Le competenze non c’entrano. È che ci vogliono appoggi e contatti che non ha. È che non basta più essere apprezzati all’estero, avere citazioni internazionali. È sempre la stessa storia, peggiorata dalla scusa della crisi. C’è sempre una scusa pronta. La riforma M. La riforma F. Le norme editoriali. La crisi, quando non si sa più a cosa appigliarsi.
Si sente gelata. Senza più forza nelle braccia. Si sente una donna inutile che non ha neanche il buongusto di rifugiarsi nell’idea di produrre un figlio per far fronte al vuoto della propria esistenza. Ma il fatto è che quel vuoto nasce da altro. Da rifiuti. Da scelte sbagliate. Da situazioni che a volte non dipendono da lei.
Ed eccola qui, con l’unica prospettiva di lavoro a miglia di distanza.
È un momento molto brutto.
Un lungo momento molto brutto.
Al computer, controlla i voli. Poi, lo spegne.
Ormai, è fatta.
Corre, corre via. Non vuole sentire più niente. Sotto la pioggia, piange, senza riuscire a smettere.
Prende il cellulare con mani tremanti. Vorrebbe dire qualcosa, esprimersi, sfogarsi.
Ma le tremano le dita, non riesce a fare niente.
Ricorda ogni passo di quella lunga fuga. Tutto, dal principio, fino al ritorno a casa, nel buio che avanza. Le case scorrerle di fianco. I negozi.
Arriva a casa, e ancora piange.
Si addormenta così, rannicchiata.
Creando il conforto nei sogni.
“Io ora sono la compagna di André Grandier.” Le trema la voce a pensarlo. Figuriamoci a dirlo. “E voglio vivere in un modo diverso, sentendomi più utile. Qui, a Corte, per me, non ha più senso.” No. Non lo ha. Il burattino della regina. È ora che la bambola cominci a camminare.
“Oscar”, sorride la regina un po’ canzonatoria, “è bello che quello che era chiaro a tutti si sia chiarito anche a voi, e nessuno più di me può comprendervi. Ma perché andare via? Io vi sono affezionata, mi mancherete immensamente.”
Le sbarra gli occhi in viso, Oscar, perché aveva sempre pensato che in fondo tra loro due ci fosse un sottile legame, ma una bordata del genere, affettivamente parlando, no, non se l’aspettava.
“Se resterete qui, almeno vostro padre avrà un motivo di lamentela in meno…” aggiunge, pratica.
Già, il generale…
Arrossisce e vorrebbe commentare “Non ditemelo”, ma non osa.
“Maestà, credo che sia meglio…”
In un altro momento, l’avrebbe fatto per non farlo soffrire, per allontanarsi dai suoi pensieri, ora lo fa per sentirsi più libera con lui. In un ambiente diverso, dove lui non sia il bel giocattolo che soddisfa gli ardori della contessa. Dove gli sguardi che certe volte Girodel le riserva scompaiano.
Una nuova vita.
Laura, da novembre 2014 ad ottobre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2015
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Continua
Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com