Kitchen Corner
parte 17
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Lo osserva, di spalle, nella stanza inondata di luce, intento nella stirata maxima di una pila di camicie. Così concentrato. Attento. Scuote la testa. Un attimo infinito di tenerezza le colma il cuore.
Lo abbraccia, da dietro. Incollandosi per bene. Senza volersi staccare.
Vorrebbe solo rimanere, infinitamente, lì.
Dimenticare tutto.
Nascondersi. In lui.
Non pensare più a niente, non volere più niente.
Avere il beneficio del saper rinunciare. Del saper dire basta, io mi fermo qui. Smetto di lottare.
Di chiudere per sempre quei giorni frenetici. Deludenti. In cui sta provando, in tutti i modi, a creare le circostanze per poter restare.
Nasconde un peso enorme nel cuore.
Non gliene ha parlato.
Delle peregrinazioni di quei giorni.
La scena è ancora vivida.
La sportellista dell’ennesima agenzia gronda astio e rivalsa. Situazione spiacevole. Non è mica una colpa se, adolescenti, una studiava e si sacrificava, mentre l’altra se la spassava libera. Cosa che, evidentemente, ora giace sepolta sotto un aspro risentimento sociale, mentre, la tipa la squadra, seccata, e assesta, infastidita, impietosa, una ruminata spregiativa alla gomma a ogni ulteriore titolo che lei osa, provocatoriamente, manco volesse offenderla, sciorinare in sua presenza. Lei la osserva, incredula. Esiste davvero gente così? Non hanno di meglio da fare? Non sono ferocemente soddisfatti da una società che ha vanificato il merito con la scusa della crisi, azzerando curriculum, titoli?
Dall’altro lato del banco, controllando l’esattezza dei dati che la tipa immette, legge quello che faticosamente sta compitando, con fantasiosa ortografia, che le verrebbe di correggere. “Maturita clasica ano…“ Sotto, l’impiegata ha aperta una chat e l’immancabile social, su cui sbircia impaziente, mentre sgomita sulla tastiera, sbuffando contro la richiedente, colpevole di elenco troppo lungo e complicato. “Diploma gian…” legge, sconcertata. Le maiuscole! È scritto sbagliato!
“Essì, figurati!” erompe, animosamente la sportellista, agitando le mani.
Lei la guarda, la testa appena piegata di lato. “Prego?”
Poi, si allunga verso lo schermo. “Qui, maiuscola… qui… scritto così…” glielo scrive lei.
“E che tutti stanno a sapere il latino?” Sbotta quella.
“Francese…” rettifica.
“Fatti una vita! C’ha altro da fare la gente, sai?, mica come voi!”
Aggrotta le sopracciglia. Dovrebbe soprassedere, roba che poi quella fa sparire la sua scheda. Ma se le invalidano la domanda perché è scritta così? Quando, però, legge: “La diciarante aferma di posedere dotoratto”, la stoppa.
“Mi scusi, signora. Non affermo di possedere, ho”. Nota dietro le spalle la porta con la targa “direttore”.
“Tutti uguali voi…” dichiara. Poi, in un crescendo, parossistico più che rossiniano. “La laurea non serve a un cazzo! Chi cazzo sei tu? Niente, sei! Io c’ho i contatti sul social, ch’ho i seguaci!” Ulula, nel mentre si è issata in piedi dalla postazione e la gente attorno osserva incuriosita. Qualcuno s’è affacciato dalla porta alle spalle. Qualcuno filma.
“Vedo che li ha anche qui”, se la ride lei, guardandola, fredda. Poi, controllando lo smartphone. “Ora, vediamo di correggere”.
Tutte queste peregrinazioni finiscono per rivelarsi una enorme perdita di tempo, di ore, in mezzo a gente che mai avrebbe immaginato. L’impegno principale consiste nella compilazioni di moduli, crocette, freccette, nel rispondere a domande inutili, constatare che l’autocertificazione dei titoli quasi non conta perché, oltre aver studiato, essersi sacrificati, bisogna avere la possibilità di pagare corsi tenuti da chi ignora i programmi o le materie che chi li frequenta conosce, ma che certificheranno la conoscenza delle basi. Basi a chi? Dopo aver avuto a che fare con gente simile? Meccanismi insulsi che forse servono a giustificare presenze dietro lo sportello e a trastullare, nelle lunghe attese, la massa, ma esauriscono lì il loro scopo. E, comunque, alla fine, dopo aver spiegato cosa è e cosa non è, si è ritrovata con niente in mano, dal momento che risulta occupata.
Non che ci avesse puntato, ma una minima percentuale di speranza c’era stata. Umiliante, rabbiosa, ma c’era stata.
Non vorrebbe ripartire definitivamente.
Non dover finire a confermare di lavorare laggiù per i prossimi due anni.
Con il respiro contratto, schifata, si è dedicata all’impresa titanica di tentare di inserirsi in graduatorie solo temporanee, non sia mai!, tra modulistica, iscrizioni, contro iscrizioni, conferme di iscrizioni, pin provvisori, controlli di persona, perdite di tempo, indi pin definitivi, in un’inverosimile e surreale pletora di complicati passaggi, escogitati, probabilmente, anche qui, per tenere occupati gli inoccupati – come se un essere umano non abbia di meglio da fare e cercare un lavoro retribuito in patria costituisca una ragione per umiliare la dignità –. Punteggione nonostante la non ammissibilità di titoli che possiede e che nella materia sarebbero pure rilevanti… ma inutile: tutto fermo. Anche qui, preferibilmente bisogna pagare per frequentare corsi, per poi fare esami, per poi stare in graduatoria finché questa non scada e non la si debba ricreare rifacendo da capo la trafila. Idem, pagare per certificazioni di lingua straniera quando se ne hanno già di valide a livello aziendale. In attesa che la normativa cambi vanificando ulteriormente il tutto. Neanche collocabili a settant’anni, a conti fatti.
Il cibo è buono e la compagnia ottima.
La casa sembra essersi riempita di un’atmosfera festosa, rianimata da tutte le presenze a cui doveva essere stata abituata in passato.
Piena di luce.
Di colori.
Di sapori.
Lui è su un altro pianeta. Se ha pensieri, non vuole lasciarsene oscurare. È una forza, in questo campo.
Lei. Lei…
L’aveva osservata da lontano, Al, nei giorni precedenti. Correre, stampare. Tornare. Rabbuiata.
Sapeva qualcosa perché aveva beccato Lia, nei mesi passati, a spedire domande per lei.
Aveva scambiato occhiate preoccupate con Andre. Silenziose. Ma Andre gli aveva fatto cenno di lasciar andare.
Lei continuava a far finta di niente.
È lì, con loro, durante quella cena. In quell’atmosfera rasserenata.
Appare un po’ distante. Un po’ distratta. Lui, contento, è tra le persone che ama, sta bene così, mentre, dopo giorni impegnativissimi, si rilassa, godendosi l’apprezzamento degli amici ai suoi manicaretti, scusa ufficiale il collaudo di una nuova pentola turchese che lei gli ha regalato.
“Questo allo zenzero è fenomenale!”, e Al tende la ciotola per un bis, mentre si sbraca meglio sulla sedia.
Lei osserva Andre e davvero lo trova appagato, una capacità di saper stare bene, che glielo fa amare, la intenerisce, la commuove.
Un’occhiata al suo studio silenzioso e buio. Una fitta di tristezza. Sulla scrivania giacciono le buste con le risposte alle sue peregrinazioni.
Non ce ne è una che lasci uno spiraglio.
I posti sono tutti opzionati, come le ha confermato qualche telefonata informale in giro, se non bastassero le risposte formali. Concorsi per docenze, si sa, domande respinte; concorsi per posti più duraturi, si sa anche quello; poi, per quando si fossero tenuti, lei sarebbe già ripartita. Insegnamento alle superiori, vedi sopra. Il futuro è un’ipotesi, cantava qualcuno. Appunto.
Resta la possibilità di macinare lavoro, articoli, saggi. Materiale buono per fare curriculum, almeno, con la speranza di spenderlo in un futuro. Ma sembrano impraticabili, ormai, anche quei contatti di lavoro che erano esistiti e avevano funzionato.
Alcuni proprio hanno evitato di rispondere. E, così, ogni volta che controlla la posta elettronica, è un calvario. L’attesa disillusa, il barlume di speranza, poi, la desolazione. Ogni singola volta.
Non sono mancati gli asettici “non rientra nella linea editoriale”.
Altri hanno opposto motivazioni talmente assurde, che si è domandata se, in quegli anni, non siano di nuovo intervenuti gli alti inquisiti:
Sembrano sprangati gli infinitesimi spiragli che erano stati lasciati leggermente accostati, e in cui si era insinuata. “Sono impegnato ti scrivo…” breve messaggio, poi un nulla vuoto, che la lascia a interrogarsi. Gelosia professionale? Qualche inspiegabile risentimento? Forse ha dimenticato di fare i complimenti per l’ultimo libro? Le speranze di una persona appese a menate ridicole.
“Non me ne voglia”, legge sbalordita un ulteriore rifiuto. “Le nostre norme editoriali…” prosegue tra le righe, ”… sarebbe impossibile… bla bla” E lei, delusissima, incredula, triste, infine sconcertata, si è astenuta dal rispondere: “Sono cose che si modificano velocemente col trova e sostituisci, con la formattazione corpo del testo o paragrafo.” Forse avrebbe dovuto scriverglielo. E, soprattutto, chi le rispondeva, saperlo. Non poteva non saperlo.
Ma, senza santi in paradiso e in epoca di crisi, può accadere che l’esibita apparente ignoranza delle basi più elementari dei word processor o norme editoriali funzionalmente mutevoli offrano, più che la ragione, una cadente, rinsecchita foglia di fico. È talmente surreale che sarebbe comico, se non si trattasse della sua vita.
Di qualcosa che colpisce lei. Penalizza lei. E loro due. Il tutto, per essersi innamorata di una materia, avervi dedicato anni di studio e impegno e aver avuto la ὕβϱις di farne un lavoro.
Non capisce. Forse, più che non capire, non accetta. Rimugina silenziosa, rintronata. È una strana costante della sua vita, quella di essere scacciata. Non voluta. Rifiutata.
Un troppo che dà fastidio. Che bisogna ridimensionare. Spianare.
Non vuole credere che si siano di nuovo messi in mezzo, dopo tutto quanto. Davvero, non basta mai?
Sono cose che fanno male, anche perché significano che, se vuole restare, non lavorerà. Niente lavoro. Niente soldi. Niente definizione di sé.
Dipendenza.
Cercava di non pensarci.
Aveva sempre una scelta.
E, comunque, ora era lì. Con lui. Finalmente.
Mentre passa dietro di lei, al computer, poggiandole le mani sulle spalle e depositantole un bacio tra i capelli.
E lei, precipitosamente, chiude la schermata.
È felice. Di essere lì, ma ha delle botte di malinconia assurde, un magone immane.
Quanto sarebbe meglio mollare tutto. Restare.
Dalla scrivania erano solo spariti degli stampati. Quelli su cui aveva puntato per rientrare. Li aveva sottratti alla vista, forse per orgoglio ferito, forse per evitare la tristezza. Tra i preferiti, l’application form. Sapeva che c’era. Evitava di aprirlo. Usava anche un browser diverso. Ma era lì. Invitante. Tentatore. La sua condanna all’assenza.
Era successa una cosa strana. Il potere dei ricordi.
Riguardando il Live in Berlin, aveva tirato fuori le cose che le aveva regalato lui tanti anni prima.
Si era domandata se lui le avesse riconosciute. Dentro, c’erano ancora i due biglietti che le aveva scritto. Si era intenerita a guardarli. Ripensava a lui, com’era allora.
Dio, quanto tempo è passato…
Si riscuote improvvisamente. Fuori tuona.
I colori, però, sono bellissimi. Si sono fatti come più leggeri, nel velo della pioggia. Quasi trasparenti. Poi, dopo, torneranno più intensi. È una cosa meravigliosa.
Si sente bene.
Lì, in quel piccolo luogo, pieno di niente, mille minuscole attività, volendo. Potendo. Ecco, così è più corretto. Buone, con una certa dose di iniziativa personale e di fortuna, per sforare la solitudine. I tempi neri. Un bel posto, anche. C’è molto. E manca tanto. Tutte cose troppo importanti. Sarebbe un perfetto buen retiro. Forse, è semplicemente ora di ritirarsi. Lasciar perdere tutto. Rinchiudersi nel privato. Fare l’orso nella caverna. Avrebbero tassato pure la caverna e l’orso sarebbe dovuto fuggire. Chiaro.
Ma all’orso restava la libertà di suicidarsi.
Cercando angoli di serenità, riguarda le foto dei loro viaggi. Inseguendo, assieme alle immagini di quei luoghi, in hard disk e in rete, l’emozione delle sensazioni, dei ricordi, del vento addosso. Di quello e di altri momenti, prima, dopo.
Prova una commozione improvvisa. Indescrivibile. Straziante.
Per una foto, trovata in internet, di uno scorcio che ha ricordato, in quell’istante, di aver visto. Quel rosso. Quell’angolo. Che gliene ha portato alla memoria un altro, anni dopo, ma simile.
Andre, Andre, Andre… quanto poteva amarlo? Quanto, infinitamente, era in lei, da quanto lunghissimo tempo…
Eppure, i ricordi e la realtà non sempre collimano. Quando il non collimare la ferisce troppo, si arrischia a domandarsi cosa ricordi lui.
Quelle che possiede lei sono immagini. Sensazioni. Stati di pienezza emotiva. Di appagamento.
Anche oggi.
Quel bisogno di abbracciare il mondo per gioia, per condivisione. Di sentire affetto.
La sensazione, poi, di qualcosa che, irrimediabilmente, passa. Senza poter tornare. Sensazione straziante, soprattutto, quando si tratta di cose belle. Di cose felici.
Amore.
Eppure, anche lì, a casa, a volte si era sentita così sola. Come se davvero le mancasse lui. Che, pure, era lì. Come se sentisse che aveva bisogno di vivere assieme a lui, non solo di abitare insieme. Di condividere. Coesistere. Erano cose diverse, considera, mentre annota che, negli anni, la distanza fra di loro a volte si era fatta abissale. A volte si era ridotta. Altre, annullata. Ma è sempre più difficile colmare l’abisso. Combattere sempre e difendere i sentimenti. Proteggerli. Anche dal tempo. Anche da noi stessi.
E difficile è anche cedere le armi, rinunciare: l’unica soluzione per rimanere assieme.
Le loro immagini. Come i loro libri. Nei quali ritrova cose che amano entrambi.
Non chiude il libro. L’ultima pagina, fino all’ultima riga, l’ultima parola centellinata restano lì. Non a rileggerle. A scorrerle lentamente. Per non arrivare alla fine. Commossa, come ogni volta, per quel finale della Trilogia, che ormai non sa più quante volte ha riletto.
E, poi, il protagonista le ricorda troppo Alain!
Il mix di odori che lo colpisce, quando lei passa, dopo la doccia, lo stordisce. Allunga il braccio e la afferra per il polso.
“Vieni qui…” attraendola a sé.
“Ti ho fatto una sorpresa!” Esordisce, rientrando, festante.
Aggrotta le sopracciglia, in allarme. La sua personale idea delle sorprese è qualcosa che scombussola l’ordine che ogni volta fatica a ricrearsi. In effetti, invidia il carattere giocoso di lui.
Poi, si dice di non essere la solita orsa, e sorride. “Dimmi”.
“Ho affittato un piccolo cottage, indovina dove! Partiamo dopodomani!”
E, allora, gli salta letteralmente al collo, perché, questa sì, è una sorpresa. Bellissima. Come se sia riuscito a leggerle nella mente. Come se possa esistere, a tratti, ancora, una sintonia.
Restano così, lui che l’avvolge, quasi la protegge, in quell’abbraccio.
È entusiasta. Ha voluto vedere le foto, tutto. L’itinerario. Anche per fargli capire quanto apprezzi.
Sembra un posto carino. Sembra una perfetta idea di casa.
“In fondo”, le dice voltandosi verso di lei, che lo abbraccia da dietro, “qui non riusciamo quasi a stare soli”. Poi, ridendosela, “Il lato positivo è che per qualche giorno possiamo mollare tutto ad Al e Lia senza preoccuparci.”
Dovevi metterti con lei, rimugina quel pensiero negativo, importuno. Forse era più adatta di me… ma poi trova di una tale ingiustizia anche il solo formulare una cosa simile, con lui che, ostinatamente, resta con lei, che è meglio azzerare le tristezze troppo coltivate nel dolore.
Era tanto, che non tornavano lì, ma sembra subito di ritrovare i colori. Le atmosfere. I grigi. Gli azzurri. I verdi.
Continuano a tenersi per mano. Quasi senza parlare. Per tutto il viaggio.
Un vento leggero si è alzato, ma è piacevole.
Sorride. Hanno le stesse giacche a vento di allora. Nelle poche foto.
Si apre il cielo, sul lato del mare.
Un confine di alberi. Coste. Allevamenti di ostriche. Mulini.
Guarda fuori, guarda nello specchietto dell’auto a noleggio. Mentre la strada scorre. Il tempo si avvicina. Fino a ricongiungersi.
Sente il cuore gonfio d’amore. Un amore totale. Pieno di generosità ed egoismo. Talmente intenso da fare quasi male. Da commuovere.
L’ardesia dei tetti, e le pietre. Si arriva a una piazzetta, poi, bisogna svoltare.
Consultando i fogli e lo smartphone, alza gli occhi “Dovrebbe essere là…” e si struscia a lui, come un gatto, una coccola improvvisa. Curiosa, contenta.
Qualche gradino in pietra. Una porta un po’ scrostata che avrebbe bisogno di cura, ma è molto carina, dall’esterno.
“Il tizio dice che, se vogliamo, poi possiamo incontrarci.”
Subito ostile “E chi ha voglia di incrociare un vecchio babbione?” Ripensa all’inquietante individuo che affittava case quando andava all’università, un antico gentiluomo con in casa una madre tipo Psycho…
Se la ride, lui. “Che ne sai…”
La piccola casa che si rivela loro li accoglie in un’atmosfera fresca, azzurrina, ovattata.
Lei gli resta un passo dietro. Piega la testa di lato. Sbircia da dietro la spalla. Curiosa. Intimidita. Speranzosa.
Lui, apre gli scuri.
Lei aggrotta le sopracciglia. Scrutando nell’aria.
Per ora, le piace.
Sorride. E, nell’intuire il sorriso di lei, è come se lui si tolga finalmente un peso di dosso. Come se sia riuscito a conquistarne l’approvazione. Fare una cosa bella per lei.
La luce rivela un piccolo soggiorno, con un paio di tavoli, probabilmente uno deve servire da ufficio, più riparato, addossato al muro e a una finestra. Un piccolo divano che sembra comodo. Lunghe e vecchie assi di legno per pavimento, vissute. Che ricordano quelle di danza.
Accanto, si apre una zona cucina graziosissima, dipinta in un turchese dilavato, un po’ fané, coi piani in pietra e una magnifica cucina Aga ibrida in tinta, che, da sola, probabilmente, vale quanto l’intera casina.
“Ma che bella…”
Lui, quasi intimidito, passa la mano sul metallo. “Non avrei mai pensato di venire a contatto con una di queste, in tutta la mia vita…” estatico. “Anche se non è il modello tradizionale…” considera, già preso.
“Dillo che l’hai scelta per questa!!!” Lo prende in giro, abbracciandolo da dietro.
“Ma no, era chiaramente per la Nespresso!!!”, se la ride lui, mentre lei è partita all’esplorazione, trascinandoselo dietro.
Sempre più curiosi, proseguono. Decisamente conquistati da quello che vedono.
“Evvaiii!!!! Guarda che carine queste piastrelle…”
È divertita, le pare quasi come se l’abbia arredata lei e, ogni volta che, viaggiando, ritrova qualcosa che le pare bello, scelto con gusto, già solo per questo prova un’assurda felicità, forse molto infantile, come per la gioia di poter condividere almeno il contatto con quello che piace.
C’è una stanza da letto, con una finestra che dà sul giardino. E uno studio. Con un vecchio tavolo. Su cui uno di loro potrebbe piazzare il laptop.
“Che bello sarebbe, poterla comprare…” già sognano.
Lei lo cinge per la vita.
Lui le tiene un braccio attorno alle spalle. Se la tiene stretta contro.
Sembra un sogno.
“Ah, dev’essere il proprietario.” Mentre si scioglie dall’abbraccio.
Riemerge, accigliata, prontamente infastidita dal turbamento della quiete turistica. “Che strazio… chi ha voglia di incontrarlo???”
E, scornata, a testa bassa, va ad aprire.
Spera di essere stata veloce a cancellare prima l’aria imbronciata, poi lo stupore e le stelline negli occhi, di fronte alla visione.
Un individuo decisamente grandieriano, il viso immerso in un foglietto, l’espressione aggrottata, che solleva lo sguardo e articola, stentato: “Ehm…Piacere di conoscervi” in un delizioso accento indigeno.
Tende la mano, sempre continuando a consultare gli appunti.
“Io mi chiamo…”
“André”, sussurra lei, senza nemmeno lasciarlo finire.
“Précisement!” erompe lui. “Oh, désolé… ehm…” di nuovo consultazione dell’oracolo, “vuole parlare…”
“Pas de problème”, fa lei, divertita dai tentativi di accogliere lo straniero. “Please, this way…”
Mentre compare l’omonimo.
“Andre”, dice. Un po’ stupito, mentre gli tende la mano.
“André”, dice pure lui, e si sorridono, imbarazzati, evitando di scrutarsi troppo, sorpresi, fino al ritrovarsi di rito, tutti e tre, al tavolo, con le immancabili mappe squadernate, ma poi lo rassicurano che sono già stati lì e, più o meno, si orientano.
Andre, gourmet incallito, si fa dare indicazioni alimentari, che in parte ha già sondato via internet, ma il consulto dell’esperto locale non guasta. E, prima di separarsi, si fa promettere dall’altro che tornerà per un doveroso omaggio collettivo all’ambitissima cucina e, ottenuto appuntamento, è ancora più vacanziero ed entusiasta. Tanto che lei è quasi scornata, e si domanda se siano venuti lì a romanticamente rivangare il passato o, invece, per una cucina o per un indigeno grandieriano.
Li saluta dalla strada, più o meno li ha informati e indirizzati e, ora, con la giacca sulla spalla e il maglioncino verde sui jeans, se ne va.
“Che strano tipo…” fa lui.
“Dillo, è per la Aga che hai scelto la casa”, se la ride.
“Ma naturalmente!” Scuote la testa lui.
“Ah, mi pareva…”
Passeggiano per le strade, mentre il crepuscolo si avvicina. Le botteghe, le vetrine. I negozi. La libreria antiquaria. Le pietre del selciato. Le imposte azzurre e le finestre verniciate. Gli alberi, lontani, sfumati, e, dopo, il mare. Le mura lungo la costa.
Ritrovano posti. Altri li scoprono. Sorridenti, guardandosi attorno. Rilassati, mentre lui le circonda le spalle con un braccio, protettivo. Possessivo.
“Il tizio…” guardando lontano. “Mi incuriosisce…”
“Se non ho capito male, è una vecchia casa di famiglia. Della ragazza. Lui l’ha risistemata, un po’ per volta, per le vacanze. Lei poi si è trasferita. La casa è rimasta vuota. Così la affittano.”
“… È messa su molto bene.”
Sorride. “Quando ci siamo scritti mi ha spiegato che, quando ha pensato di affittarla, un’agenzia voleva definirla maison de charme, e gli pareva impossibile, per lui era il loro vecchio cottage.”
“Molto carino…”
“Decisamente.”
“E lui? Che fa?” Lo interroga. “A parte affittare…”
“Credo prima avesse un buon lavoro. Poi, per qualche ragione, qualche anno fa, accennava a qualcosa che ha cambiato il suo modo di vedere..
“Tipo?”
“Non sono stato a chiedere… non mi pareva il caso…”
Annuisce.
“Comunque, ora si dedica a vendere acquerelli e fare il maratoneta.”
Lo guarda, stupita.
“Lui?”
“Così pare…”
“E gli acquerelli, come sono?” Lo incalza. “Li hai visti?”
“Qualcosa, in rete. Probabilmente ti piacerebbero…” Le scompiglia i capelli.
Certo che è difficile tenerlo lontano da quel monumento alla cucina, soprattutto dopo la visita di spiegazioni di André l’affittante, che ha aperto un pdf con un gigantesco manuale di istruzioni, con annessa cena conviviale preparata a quattro mani – e manovalanza spicciola, scherza lei –. D’altronde, due bei ragazzi, simpatici, bravi pure a cucinare: quale donna ingrata mai si lamenterebbe? Se non quella a dieta perenne… ma qui si disquisisce e non è lo scopo del testo.
Eppure, Andre il goloso non dimentica di inseguire in tour né le crêpes, né le galette, né le degustazioni di calvados, salvo poi passare un’ora e mezzo ogni mattina a correre e fare pesi per smaltire, trascinandosi dietro pure lei.
Finalmente, la vede più serena.
Forse, ora, potrebbero parlarne.
Se solo temesse di non rovinare tutto.
Di rompere l’incanto. O tregua. È lo stesso.
Sono giornate perfette. Di ore perfette.
Come se, a volte, cambiare set possa davvero modificare il risultato della recita.
Sente le mani gelate di lei nelle sue. Le scosta i capelli dal viso per guardarla negli occhi. Non smette di abbracciarla.
Tutto sembra andare bene.
Anche se lei, a tratti, si rabbuia.
Se ne accorge, mentre traffica attorno alla Nespresso, la mattina. Quando spreme le arance e, per qualche attimo, lo sguardo vaga, smarrito. Pieno di domande che vorrebbero risposte diverse.
Quando camminano, e lei parla di niente, per occupare il silenzio. Per non parlare.
O, a volte, tace, troppo a lungo, perché dire è inutile. Fa solo del male. Rovina.
Un po’ girano in auto. Per posti scavati dal vento e dalle onde.
Dove i raggi del sole, obliqui, disegnano scorci, annodano colori. Ombre.
Un po’ camminano. A lungo, come per imprimere nella memoria i percorsi. Quell’angolo. Tornarci. Ritrovarlo. Il loro gioco di dire quando torneremo, vorrei vedere anche questo… Il gusto di pensare che vorrebbero comprare quella cosa, covando quell’idea, tornandoci sopra, tenendosi l’acquisto per l’ultimo giorno.
Lui, a domandarsi se in aereo quella enorme pentola smaltata scombinerebbe il bagaglio.
“Prossima volta, in macchina”, ride lei, mentre se lo abbraccia. E già la malinconia la invade.
Sono seduti sui massi e la guarda da dietro, quando inizia il punto di non ritorno. Il vento sferza e muove i capelli.
“Spiegami cosa succede.”
Le si serra il cuore. “Niente”, guarda lontano. La voce trema.
“Ti ho vista, a casa. Eri strana”. Un passo verso di lei, le mani in tasca. “Triste”.
Non sa come dirglielo. Non vuole dirglielo.
Ammettere la sconfitta con lui equivale a darsi davvero per vinta. A non lasciare uno spiraglio.
Si siede vicino a lei.
“Anche adesso. Ogni tanto…”
Cerca la mano.
Quella di lui è calda.
Allora, lei abbassa la testa.
“Mi dispiace…”
Mentre le lacrime, piccole, scendono e il vento subito le gela.
“Non volevo rovinare il nostro viaggio…”
Scuote la testa. “Non lo rovini…” Proteggendola, serrandola contro di sé.
Ma non può salvarla. Non ha questo potere.
Non riesce a parlargli in modo approfondito della enorme delusione sul lavoro.
Della mancanza di prospettive concrete.
Dell’ostracismo che sta subendo.
Giusto qualche frase.
“Mi avevi detto che stavi prendendo contatti…”
Annuisce, mentre continua a fissare il vento.
Si scosta i capelli con le dita, come per prendere tempo.
“Sapevo delle citazioni estere, era una buona cosa…”
Annuisce ancora.
Tutto sembra sospeso, rarefatto. Tra quelle parole.
“Parla…”
Respira piano.
“Mi hanno respinto tutte le domande per un posto…”
Annuisce, lui. È un problema che conosce bene.
“Non è qualcosa di diverso da quello che potevamo aspettarci…”
Un sorriso le stira vago le labbra. Guarda lontano.
“Però hai i tuoi saggi, quelli non hanno problemi…”
“Non li vogliono.”
Lui la osserva.
“Non… li pubblicano più.”
Resta in silenzio.
“Cioè?” sonda lui.
“È strano”, prova a spiegargli. “Non funziona più con il peer review con revisioni a doppio cieco. Ora chiedono di pagare. Anche per le riviste.”
“Ma non… non è così! Non sono libri, sono articoli!”
“Lo so.” Concorda. “Infatti ho pensato di sondare, di chiedere quanto volessero. Tanto per capire. A quel punto, altro stop. Per questioni di formattazione, norme editoriali. Tutte cose che, ogni volta, prima, ho sistemato col trova e sostituisci… col corpo carattere, l’interlinea… cose così…”
Respira.
“Mi è sembrato tutto assurdo… non… non plausibile…”
Le si fa più vicino. “Lo credo…”
Non aveva immaginato una cosa simile. Non un simile sbarramento. Non a quel punto.
Guardava lei, quasi da dietro. Guardava le loro mani.
Poi, il mare.
Le onde.
Chissà come doveva essersi sentita. Tutti quei rifiuti. Magari pilotati da ex colleghi, spietati. Lui aveva sempre avuto dubbi anche su altre questioni. A volte, gli pareva plausibile dare credito a quei dubbi. Anche se taceva.
Più di tutto, questo significava ragioni per non restare.
Buttarla fuori dalla propria vita.
A volte, avrebbe voluto trovarseli davanti, quelli che avevano deciso in modo così condizionante, con arroganza, senza rispetto, la sua, la loro esistenza. Guardarli in faccia. Senza sapere, poi, cosa avrebbe fatto.
Cosa le avevano fatto…
C’erano posti in cui lei non aveva più voluto mettere piede. Quando, del tutto casualmente, aveva visto uno di loro, inquisito, in televisione, aveva cambiato canale in fretta. Di quel periodo della sua vita, che lui ricordava con tenerezza e affetto, lei non parlava mai. L’aveva cementato sotto una sorta di lastra tombale.
Ma lui sapeva che era anche colpa sua. Ammesso che si potesse parlare di colpe, di fronte a certe iniquità.
Avrebbe voluto essere stato diverso.
Essere, chissà, un coraggioso vendicatore, uno forte, uno che li avrebbe messi alle strette. Consegnati alla giustizia. Che poi tanto chi di dovere sa come insabbiare. O legnarli, con soddisfazione.
Più di tutto, avrebbe voluto poterla portare via, lontano. Proteggerla. Aiutarla a non pensarci più. Lasciarselo alle spalle.
Ricomprarle un nuovo mondo. Una nuova vita.
Tenerla con sé, non lasciarla mai andare via.
Si sentiva impotente.
Sentiva di non bastarle.
Sentiva di non averla protetta a sufficienza.
E ora sembrava troppo tardi per rimediare.
Rannicchiata contro il petto di lui, abbandonata, finalmente sembrava riposare.
Dopo aver cercato un Ballantyne per terra e per mare, lui che la trascinava per le strade, tenendola per mano, e, finalmente, essersi presa un po’ di relax.
Non dormiva, invece, lui. Pensieroso. Lo sguardo corrucciato.
Aveva sbagliato tutto?
Perché non l’aveva mai aiutata? Ne temeva l’orgoglio? I vincoli o i rancori che ne sarebbero potuti scaturire? Tutte le richieste dei suoi, che, comunque, non erano mancate ugualmente? Le loro recriminazioni, le invidie?
Quanti aveva accontentato, quanti ingrati, ignari, dimentichi. Come se tutto fosse dovuto. A troppi. Tranne a lei.
E ora era troppo tardi. Le loro vite avevano preso da tempo direzioni divergenti. Non sarebbe stato possibile ripartire ora. Riparare uno strappo, una mancanza di anni.
Sognò Oscar e André, quella notte.
Chiaro sogno compensatorio?
“Non lo dimenticherò. La bellezza del quadro. La tua vera bellezza.” Si commuove, Oscar. Perché, ora lo sa, quelle parole non sono scontate e non sono una frase fatta. Né sono, soltanto, parole gentili. Sono la voce della tristezza che erompe, di fronte alla realtà di non poterla più vedere, la voce di una speranza disperata. Allora, ricordarla, ricordarla finché potrà, sarà l’unica cosa che gli resta. Forse, dopo, quando il buio l’avrà inghiottito, poter scorrere le dita sulla tela del quadro. Sentirne l’odore. Forse solo quello rimarrà. E ora, Oscar, non può dirgli niente. Non può rompere il loro doppio inganno, né smascherare lui e se stessa. Non ora. Non di fronte agli altri. Ma vorrebbe. Vorrebbe sempre più. Ormai, non vuole più nascondersi.
Gli si avvicina, piano, da dietro. Nella sfocatura abbagliante del tramonto. Controluce. Lo sente irrigidirsi, quando lo stringe, da dietro. Abbandonarsi contro di lei, quando lei gli si serra contro. Timidamente. Finché le braccia di lui non si stringono attorno alle sue. E restano così. Mentre cade il tramonto e il buio avanza. Soli. Insieme. Senza osare muoversi. Quasi, neanche respirare.[1] |
Si svegliò un po’ più serena, la mattina dopo.
Uscì.
Non si era accorto che si fosse alzata.
Provò una sensazione di panico, a svegliarsi solo. Anche se avrebbe dovuto esserci abituato. Non era così. Inconsciamente, sapeva esattamente quando lei era presente e modellava sensazioni, gesti, anche percezioni su questo. Girarsi nel letto, allungare un braccio e sentire che mancava, nel gesto dell’abbraccio, era un segnale di allarme. Mancava la sua presenza.
Rimase in attesa. A lungo.
Poi, si rese conto che non tornava.
Allora, ebbe paura.
Per qualche ora, si sentì perduta. E libera.
Camminò senza meta. Senza lui.
Sola.
Vagando. Cercando posti. Ritrovandoli. Guardando con libertà, senza paura di dover rendere conto.
Poi, sarebbe tornata.
Ma ora aveva davvero bisogno di se stessa.
Non le importava che si preoccupasse, al risveglio. Anzi, quasi provava un piacere perverso e doloroso all’idea. Convinta com’era che lui avrebbe dato per scontato che era solo via per un giro.
Non fu così, anche se la ragione gli diceva cose che il cuore, spaventato, si rifiutava di recepire.
Rimase quasi un’ora, intontito, al tavolo.
Poi, uscì a cercarla.
Mentre la pioggia iniziava.
Gocce pesanti.
Che dilavavano i colori.
Ma che, invece, inondavano di un suono immenso, totale, le pietre grigie, le strade. Il verde e il mare.
La trovò qualche chilometro più in là, che fissava il mare dalle mura. Persa. Sospesa.
Senza dirle niente, la abbracciò da dietro, coprendola con la giacca.
Lei gli si appoggiò.
Poi, la portò con sé. “Ti porto via…” disse solo.
[1] 12-3-2014. Ispirata dall’aver riguardato “Insieme per sempre”. Mentre scrivevo, ho scelto di descrivere un disegno che ho realizzato, Controluce II- Abbraccio IV e che, a sua volta, nei colori notturni delle nuvole, è ispirato da X, il fantasy di Sydreana.
Laura, da novembre 2014 ad aprile 2015 pubblicazione sul sito Little Corner aprile 2015
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Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com