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Kitchen Corner

parte 16

Warning!!!

 

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La guerra è finita/

tu perché non ritorni/

te lo chiedo da giorni

Mario Castelnuovo – La guerra è finita, 1991

Vorrei essere il tuo dolore/

per parlarti di me (…)

e tu neanche lo sai che esisto/

nel tuo sguardo non mi hai previsto/

io ti incrocio e, lo giuro,/

abbasso gli occhi e scappo via

Mario Castelnuovo - Il mago, 1996

 

“Oscar pensava alle molte forme dell’amore.

L’amore corrisposto e quello cercato e respinto.

L’amore richiesto con la forza da una persona inaspettata.

L’amore di chi è vicino ma di cui non ci si accorge.

L’amore di André verso di lei.

Lo stesso amore che Oscar aveva provato per Fersen.

Nessuno più di lei, quindi, poteva capire il dolore di André.

Ma proprio per questo Oscar voleva vederlo il meno possibile.

E sperava che di ciò lui la perdonasse.

(…)

Sono gli animi ad amarsi, ragazzo.

Gli occhi non servono, in questi casi.”[1]

 

Come diceva, la magistrale sceneggiatura originale del 28? Com’era bella… eppure, quest’altra forma di amore, invece, tenero, dimentico, lontano e ormai distante, l’aveva tralasciata. Non avevano avuto modo di sperimentarlo. Lo scempio che fa, poi, la vita. O noi stessi.

 

Sorride tra sé, abbassando gli occhi, Lia, appoggiandosi al muro.

“È fatta”, pensa. Raramente si concede l’appagamento di chi è abituato a vincere. Quel senso di totale assenza di catene a bloccare le idee, la vita, i progetti, anche le semplici speranze. Una cosa quasi ignota per gli habitué professionali delle batoste. Ora, vedendo quei due abbracciati –“allacciati”, per citare “La storia di Lady Oscar”, l’LP che uscì  all’epoca, e che, per la verità, riferiva il termine a Maria Antonietta e Fersen sotto gli occhi di Oscar –, per un attimo si sente bene. Bene davvero.

Poi, lo sguardo corre ad Al. Impietrito. Granitico. Commosso. Che guarda lontano, le mani in tasca, il cuore perennemente serrato. Come si fa ad amare l’innamorata cronica dell’amico più caro? Quello per cui hai più stima, affetto. Quello con cui hai preparato la maturità, vissuto le sbronze, i concerti dei Pink Floyd, le prime guide spericolate? Come ha fatto, Al, tutti questi anni, a fingere di guardare oltre, e vivere, anche. A finire così solo. E prova un moto di tristezza per lui, per sé, quel giro di coppie spaiate che erano stati loro quattro, l’intreccio tutto sbagliato dei tempi, le occasioni perse e mancate, le timidezze, le scoperte di quando è troppo tardi e non vai a rovinare la vita delle persone a cui tieni.

E, come in un fermo immagine di Dezaki, due si allontanano, due si uniscono.

 

“Ma dove andate?” Tuona Andre, inseguendoli, trascinandosi dietro la rediviva acciuffata per la mano.

“Mica vi perderete il tataki?”

Sguardi allibiti degli astanti, epiteti repressi che vanno dal cazzone al coglione. Lia, pratica, emerge: “Scusa, è appena tornata, non vorreste stare un po’ per conto vostro?”

“Abbiamo tutto il tempo! Forza, venite tutti a casa!”, mentre la reduce gli rivolge uno sguardo assassino carico di malumore, delusione, tristezza, affetto. Non cambierà mai. Una volta qualcuno aveva osservato che, con l’età, si peggiora. Mai, mai e poi mai avrebbe pensato di poter riferire una simile barbarie a lui! E invece.

 

Dietro la porta, si apre qualcosa di sé, ma anche di lontano. Casa. Casa, la prigione. Casa, la bella e luminosa. Casa il nido. La tana. Il rifugio. Una sensazione di ritorno e di distanza. Di catene e di speranze, con il tempo tiranno e gli automatismi che incombono, minacciando di riprendere il sopravvento. La luce inonda la stanza, quasi non vede, in controluce. Respira giusto un attimo l’atmosfera, che gliela fa apparire come nuova, dopo tanto. Ma non è forse il momento giusto, non è sola, né sola con lui. Pochi gradini per poggiare le valigie, sbrigandosi per fare spazio agli invasori, che la seguono.

La camera odora di pulito, di pulviscolo del tramonto. È quella di sempre. I gatti, dal letto, la osservano, scostanti, poi, quando si avvicina coi grattini, parte, quasi in sordina, un coro di ron ron che infine si dispiega.

Lentamente, oscura l’inquinamento acustico di là, le voci dei suoi affetti, e si guarda attorno. È ancora un suo luogo? È l’unico che abbia. Laggiù, lontano, è solo una sponda.

 

Torna un attimo di là, nella baldoria festosa.

Lui illumina ogni cosa. Un’espressione sollevata, stellata. Come se, in quel momento, senta di avere attorno tutto quello che gli basta. Che non è quello che vorrebbe lei. Non sempre, non in quel momento, non dopo tutto quel tempo.

Eppure, lui è talmente ecumenicamente felice, che vorrebbe coinvolgere i suoi affetti in quella gioia. Se la stringe contro, per la vita, l’avvolge in un bacio tra i capelli, incontenibile, incapace di capire quell’egoistico malumore di lei, brava a non farlo quasi trasparire, lei che, solo per qualche volta, vorrebbe lui, da solo, tutto per sé. Ritrovarlo. Perché lo considera smarrito, da qualche parte. Lo capisce e si sente anche schifosamente in colpa, perché comprende come lui possa sentirsi e non vorrebbe rovinargli la gioia, ma vorrebbe che, solo per qualche volta, esserci anche lei.

Eppure, eccolo lì, festante, bello, implacabile, cretino completo – no, non è giusto: non lo è completamente: semmai, affettivamente –, eccolo, il Master of the Kitchen.

“Vabbè, intanto mi eclisso causa doccia”, comunica, mentre lui ha tirato fuori l’aperitivo della perfetta padrona di casa (ahi autoironia veteromaschilista!) e brinda coi due ex-complici ora intrusi.

 

Scorre la cena.

Dopo una doccia torrenziale in cui ha apprezzato i fiotti d’acqua che si sono riversati e finalmente ha iniziato a rilassarsi. Erano le sue piastrelle. Le ha sfiorate con la mano. Si è commossa di quei colori, scelti da lei.

Ha sorriso dei saponi di lui. Glieli ha fregati. Compreso il preziosissimo intoccabile shampoo. Così impari ad essere troppo ospitale. Poi, già che c’era, gli ha fregato pure l’accappatoio. Vendetta in corso.

Dicevamo, scorre la cena.

Mentre il tramonto si perde nel nero. Assieme alle voci. Ai colori.

Immagini a cui non era più abituata. Il suono delle parole di lui, così rare, quando sono insieme, ora le circonda il cuore e lo ferisce. Gli sguardi che, ogni tanto, scorge. Lei stessa, è appena un attimo, fugace, gli sfiora la mano. Poi, se ne pente. Paura del rifiuto. Del ritorno. Del contatto. È, insieme ritrovare l’atmosfera, e sorprendersene. Si stupisce quando si scopre incerta se alzarsi e dare una mano o fare l’ospite. Poi, ritrova la se stessa di lì – perché, altrove, forse ce ne è un’altra, anzi, più d’una –, e via. Giusto la scusa del lungo viaggio. Dopo cena, mentre i momenti e le frasi abbandonano il tempo nel modo consueto, nell’acciottolare dei piatti e nell’aroma del whisky che profuma l’aria, svanisce.

 

Fuori, l’aria odora di erba tagliata. Un manto di nubi, la volta scura che tutto avvolge e sembra infinita. L’emozione le incorda il respiro. Li vede, da fuori. È davvero tornata, è davvero, di nuovo, lì? A casa? Serra gli occhi e le mani in un brivido, attorno alle spalle. Sono quelle le voci, quelli i colori che ricorda, quella la vita che faceva.

Sono domande.

Che restano lì, forse accorate. Spesso inutili. Questione di punti di vista.

Con una mano gli sfiora la spalla. Un bacio lieve, tra i capelli, e sfugge, lasciandoli soli. Si stupisce lei per prima di come fili con naturalezza verso lo studio, armata di portatile, per ritrovare i suoi luoghi e, magari, dedicarsi ai nuovi episodi in download che lui le ha fatto trovare. Visto che le pare di dover proseguire la vendetta.

Si muove lentamente. Ha quasi bisogno di tempo. Non per riconoscere la propria casa. O se stessa dentro quel contesto. Ma per riappropriarsi di spazi che sono stati solo di lui per tanto tempo. Anche se non sono stati usurpati. Sono rimasti lì, come conservati. Sorride, al pensiero. Una casa frigorifero? Vaga un po’, guarda. Come con timidezza. Quasi non osa toccare con mano. Quello strano silenzio dello studio, e il sottofondo chiassoso, di là. Piccoli passi per imparare a riavvicinarsi. A riprendersi le cose, i gesti, gli spazi. In fondo non è neanche così stanca. È troppo stanca, tanto da non riuscire a dormire. O, forse, soltanto una persona piuttosto sola, che, la sera del proprio ritorno, non avrebbe immaginato di finire a guardare il suo cartone preferito, la croce di tutta la sua vita. Diciamola com’è!

 

Apre giusto un attimo la porta, dopo essersi assentato dalla baldoria.

Eccola lì, e gli si stringe il cuore, a rivederla, lì, alla scrivania.

Amore.

E un pensiero.

Noi… noi siamo entrambi soli…

Tu basti a te stessa.

Io riesco a supplire alla tua assenza…

È mostruoso…

 

 

È impietrita, Oscar, mentre gli tiene stretta la mano gelata. Mentre ricorda che, proprio quel pomeriggio, l’ha dovuto trascinare di peso, lui non aveva voglia di andare, aggrappato fino all’ultimo momento a quel libro, concentrato, sui gradini in pietra. Per qualche ragione istintiva non se la sentiva.

Si era avvicinata, sbirciando le pagine in greco antico. “Dobbiamo andare… si fa tardi…”

“Ancora un attimo”, aveva risposto, la voce assorta.

“Dai, continui stanotte…”

Lui aveva sospirato.

Sempre, in fondo, l’aveva accontentata.

Aveva chiuso il libro.

Tendendogli la mano, l’aveva aiutato ad alzarsi.

Lui l’aveva tenuta tra le sue, quella mano. Più a lungo del consentito. Guardandola. Come se volesse dirle qualcosa di molto importante. Senza riuscire a liberare il suo sguardo da lei.

Uno sguardo da tuffo al cuore. Uno sguardo da innamorato.

“Il mantello”, gli aveva ricordato lei. Tutto era finito.

Con un sorriso disilluso, un’alzata di sopracciglia, si era abbassato a prenderlo.

E adesso è lì, e fuori è l’alba, con l’occhio devastato, uno squarcio nel fianco, e le viene da piangere se pensa a quanto dolore, a quelle ciglia lunghe che si chiudevano sullo sguardo luminoso, a lui, ferito, deturpato, senza rimedio; si domanda se guarirà dall’altra ferita, del tutto, in quanto tempo. Senza poter tornare indietro, nella vita, e riparare gli errori, riparare le ferite, ridargli un occhio sano, un corpo come prima come per magia, come non fosse accaduto mai niente, riprendere da ieri pomeriggio, e via.

 

Bussa piano. È strano bussare in casa propria, ma loro sono abituati così. Entra, non sentendo risposta. Abbandonata sulla poltrona, il computer dimenticato per terra. Scomodamente assopita.

Silenziosamente, la solleva, piano, scostandole i capelli.

Tra le braccia, la porta a letto.

E a lei, nel dormiveglia, in qualche modo, un groppo si forma in gola, e scivola piano dalle ciglia, perché ricorda almeno due scene simili, di quando avevano vent’anni e tutto era ancora nuovo e non c’erano malintesi, pensieri di troppo. Allora, c’erano soltanto loro due.

 

Una ciulata da brivido. Per citare Andrea Vitali. [2]

Ritrovare qualcosa di sé, forse parte del senso di loro due. Quello struggimento di comprendere, tutto, in un attimo.

Quanto dura, un attimo? Quanto silenzio occorre, per proteggere due che si amano dai rumori, dalle interferenze che la vita produce, che gli incuranti e i pessimi insinuano? In quanto si scava, fino  poi a distruggere, quei sentimenti ricercati, ritrovati? È che la vita dovrebbe tacere. Un sacco di gente dovrebbe tacere e farsi indietro, e lasciare i tempi, i silenzi, gli sguardi a quelli che si amano.

Eppure, non è così.

Lui è sprofondato nel sonno, lei, in quel silenzio denso di disturbi, rumori, lentamente fatica ad addormentarsi. Nonostante il jet lag.

Va di là, sciorina in cuffia LND video basic, dal minuto 3.39 torna allo 00.7 e la stessa scena si richiama. La voce si riavvolge e, potente, tenera, riprende. Un rivale per il nostro doppiatore preferito? Con tutto quel che di quel sequel si può dire, certe canzoni sono belle. Prendono. Avvincono. Ti fanno sognare. Vedi i nostri invece di loro e questo non vuol dire altro che certe cose sono universali. Al di là di tutto.

 

Non ha proprio voglia di andare via, stamattina. Non oggi. Si scolla da lei controvoglia. Con un’improvvisa paura che possa ripartire. Un pensiero che, fino a quel momento, non aveva concesso alla mente di formulare. La paura di svegliarsi di nuovo solo. Di non trovarla più.

 

I loro sguardi si sfuggono. In imbarazzo.

Nascondendosi, si scrutano come gatti cauti. L’ha salutata con un abbraccio, prima di uscire. “Vieni a prendermi all’uscita”, le dice.

Lo ama. Non c’è rimedio. Lo ama. Anche per i suoi difetti. Per la sua ecumenicità affettiva. Per una generosità che la stende. Lo ama. Con infinita nostalgia. Come se quell’amore abbia addosso mille pesi e mille storie. Lo ama per quando canta stonando a bassa voce il loro amato Guccini e ricorda i concerti visti insieme e quelli persi. E quegli anni, lontanissimi, le mancano e le stringono il respiro. Perché rivivere si può, nel ricordo. Ma andato, è andato.

Di fronte a una storia del genere, si può solo amare.

Lo ama e sente un vuoto. A volte. Un tempo sentiva la carica, la forza, era imbattibile, lei. Ora, il suo privato amore ha bisogno di piccole mille attenzione.

 

Riappropriarsi di spazi e tempi. Quello che era abituata a fare, prima. Quello che faceva altrove. Prova a chiamare Lia. Staccato, le manda un messaggio di chiamarla, se poi è libera e ha voglia di allenarsi, prove permettendo.

 

Si gira verso di lei. La voce debole. “È soltanto un taglio, stai tranquilla…”

Sente la stretta senza forze sul polso, sulla mano. Piegata su di sé, a ingoiare le lacrime. Perché non se ne accorga. La sente tremare, trattenersi, contratta. Allora la cerca, al buio, in una carezza. Come a consolarla. La mano lungo la guancia. Il collo. Tra i capelli. E quella carezza, all’improvviso, diventa un abbraccio. L’abbraccio disperato di lei che cede, e cerca rifugio in lui. E lo stringe, gli si stringe contro. Anche se ha paura di fargli male. E lui la protegge, e l’accoglie.

“Scusami…” non riesce quasi a parlare. “Scusami”, gli dice. “Non volevo…” e non sa se parli delle ferite o dell’abbraccio o di tutti quegli anni.

Ma lui, semplicemente, la sfiora in un bacio. Piano. Dolcemente. Senza quasi rendersene conto. Neanche osando. Come un gesto naturale. E lei resta lì. Tra le sue braccia. Pelle contro pelle. Le labbra sulle sue. Senza sapere cosa fare. Vinta. In un intreccio di dita, capelli, sguardo a cui niente risponde se non il respiro che si fa più intenso.

E, quando le confessa, piano, la voce roca “Io ti voglio bene.” E aggiunge “Ti amo”, allora non sa più se sia per il terrore provato, per quell’improvviso trovarsi di fronte alla perdita, se sia semplicemente terminato il tempo del silenzio, ma si stringe ancora di più a lui, e si arrende: “Anch’io… anch’io ti voglio bene… ti voglio bene…”, cullandolo in quelle parole ripetute.

 

 

Finalmente si dorme, dopo notti focose a dir poco. Rinverdire i fasti, recuperare i gesti, dopo tanta lontananza, richiede tempo. Ed energie. Riparare a mesi di astinenza, una roba che manco universitari disperati… Ora, lui ronfa, della grossa.

Lei pure, ronferebbe, tranne che, come sempre, di notte si è svegliata stupendosi, quello sì, di ritrovarselo vicino, abbracciato. L’espressione beata.

E di non inciampare. Di saper ancora indovinare angoli, nicchie, porte, stipiti. Movimenti. Interruttori.

Lui.

Abbracciato stretto. Pure comodo. Come piace a lei.

Solo che questi due miseri sventurati, quasi peggio di Renzo e Lucia, hanno qualcuno al plurale che deve avercela con loro. Oltre l’insonnia di lei. Il dubbio la assale quando, alle sette di mattina, il cellulare di lui attacca a devastare i timpani.

“What the fuck…” poi si rende conto di essere rimpatriata e corregge “Ma che minchia è?”, tornando a ritrovare se stessa.

“Cazzo…” riemerge lui dalle lenzuola, allungando un braccio a recuperare il telefono.

Guarda il numero. Una cifra diabolica, il primo pensiero. Non fa in tempo a domandarsi chi diavolo, appunto, possa essere che…

“A… a… vv… o… a… vvocat… o?” annaspa angosciosa una voce maschile in vari tentativi di identificazione.

Andre sommessamente suggerisce il proprio cognome per risolvere l’impasse, e dice “Buongiorno…” Buon’alba forse sarebbe più appropriato.

“Le passo mia moglie”. Imperioso, stavolta.

Perplesso, l’avvocato, mentre la consorte gli si rannicchia contro. Continua ad ascoltare, non percependo cambiamenti di voce finché la stessa, nel parlare, spiega “Sono la moglie”. E meno male che gliel’ha detto, cominciava a temere di trovarsi in Psycho.

Dopo un quarto d’ora di paziente silenzio, Andre tira le somme. “Va bene, ci pensi e semmai mi faccia sapere…” Lei lo guarda, ora. Ha chiuso la telefonata senza neanche salutare. Un bel vaffanculo ci sarebbe stato.

“Chi era…”

Scuote la testa. C’è solo da incazzarsi e lui non vuol rovinare il tempo insieme.

“....”

“Dai…”

“È una che vuol capire come deve fare e quanto costa una diffida e, per questo, sta rompendo le palle da tre mesi. Sostanzialmente avvocato a scrocco.”

“Potenziale cliente, insomma…”

“Neanche. Perché, come mi ha appena spiegato, è stato il marito a contattarmi, un sacco di domande, mi sono dovuto informare perdendo tempo, studiando verbali, tanta confusione e ora lei, che sento per la prima volta, mi ha urlato appunto che siccome è il marito ad occuparsi di tutto per lei…”

Se la ride, sarcastica, lei.

“… Appunto, lei è all’oscuro di tutto e ci deve pensare…”

“Ah. E chiama la mattina alle sette per dirtelo…”

“Aspetta. E non sa se vuole farlo…”

“Vada dallo strizzacervelli…”

“Sostanziale retromarcia rispetto a eventuali impegni presi dal matito cauteloso. Controllo dei cordoni della borsa. Il tutto, urlando.”

“…” Interrompendo il sonno altrui.

“Quindi forse richiamerà. Dopodiché ha tentato l’ennesimo scrocco di informazioni, perché voleva sapere quanto tempo ha per decidere. Prescrizione. Decadenza. Traducendo. Ho riattaccato.”

“Spegnilo. Stacca anche il fisso.”

“Già…” e si incupona. “Vieni qui…”

 

 

Una rara passeggiata, lei non è più abituata, come quando stavano insieme da poco, e sente il peso del braccio di lui sulla spalla.

Ad un certo punto, l’ha serrata, e ha fatto per dirle qualcosa, col tono incerto, impetuoso e troppo forte di quando si affronta un argomento capitale. Arrestandosi, lungo la strada. In quell’infinito istante, il tempo si è eclissato in un fermo immagine. Potrebbe descrivere luogo e atmosfera. Loro due. Strada. Case. Vestiti. Atmosfera. Fiume.

Lei ha capito. Ha sentito che stava per piombare qualcosa su di loro. Deve aver cambiato appena qualcosa nel proprio atteggiamento o, forse, lui era incerto. E, così, si è fermato, come ripensandoci o come se qualcosa l’abbia intimidito.

Dopo, non ha più parlato. È rimasto così, come pensoso, lontano. E lei, con quel dubbio. Di cosa. Se sia stato un ripensamento. O colpa di lei. Non lo sa. Quella scena, resta lì, tra loro due.

Fino a smarrirsi. Nella solita vita. Frenetica. Troppo vuota.

 

Vuota di lui. Che esce per il lavoro, poi per danza, che le dà appuntamento alla scuola, all’uscita, o a lezione, se vuole. Che, entusiasta, prosegue a cucinare indefesso. Per quattro.

È soddisfatto così, non lo nasconde. Preferisce non porsi altre domande.

E così, si ritrova col tempo da riempire. Un po’ non le dispiace, prendersi uno stop, rilassarsi, un po’ sente, con un disappunto che cerca di non alimentare, che non sono i suoi tempi, le sue scelte e decisioni. Che questo avviene mentre i suoi tempi si fanno via via più distanti. Fino a perdersi. Come prima.

Cammina. Cammina quanto può. Ritrova passi, immagini, luoghi. Dalle curve sotto il ponte, un odore pungente di gelsomini sale e la avvolge, assieme all’umidità dell’ombra e alla nostalgia mostruosa delle immagini di lui, più giovane, di parole scambiate sul ponte là sopra. Della luce che ricorda di quei momenti. Di chi, allora, c’era e ora no.

Si sparerebbe ore di danza forsennate. Ma non si può. Le scuole hanno i loro tempi. Madri e allieve anelano ai saggi e ai costumi. Esibizioni. Vestiti. Passerella. D’altronde, lei stessa finalizza il proprio lavoro ad un risultato concreto, sorride di sé, precisando. In questo singolo frangente, perché si tratta fortunatamente del suo attuale lavoro, lavoro che, incidentalmente, la separa da lui. Dilaniante. Devastante e necessaria anestesia dei sentimenti. Come le badanti che ogni tanto tornano in patria a ritrovare le famiglie. Non c’è differenza. A parte la merda.

E, così, cammina.

Corre.

Si infila nelle lezioni, in tutte quelle che può, per quello che possono essere le ore rubate degli ultimi turni prima degli spettacoli. Ne ha un bisogno fisico. Come se in quei rituali possa ritrovare un contatto con se stessa. E, anche, un modo per lavarsi via tanto di dosso.

All’inizio si è sentita a disagio, e quegli sguardi su di sé in cui tutta la diffidenza e l’ansia della concorrenza faticano a nascondersi, come ogni volta che, in ambienti chiusi, arriva il nuovo – o torna il reduce, il che può essere lo stesso –. Poi, è riuscita a fregarsene, in fondo, anche per le diagonali, aspetta il turno per ultima e parte sparata, per non rubare tempo a nessuno. Giusto quei 16 secondi per ogni lato.

 

Quasi si stupisce di non annoiarsi del ritorno alla vecchia routine. Di provare solo quel fastidio di adeguamento a tempi ed esigenze altrui. Di ritrovarcisi dentro come se non fosse mai stato diverso. Eppure, prova rabbia per quel ritorno a una vita vissuta di striscio, a guardare e costeggiare le esistenze degli altri. Che non bastano a ricreare una sua, nuova. Le vite degli altri la ispirerebbero nel lavoro, allora sì, ma qui è il limbo. Qui, a parte l’archivio nell’hard disk, che non è infinito, si arriva. E il concetto in sé, sebbene non sia male, a volte la rattrista per la mancanza di prospettive che la riguardano.

E, quindi, anche, camminare. E, sempre camminando, forsennatamente, come fosse una missione o una salvezza, ritrova la via di casa.

 

E ogni volta, sulla via di casa, incrocia il rifugio di Al.

Vede quasi più Al di lui. Il che non le dispiace. È sicuramente un soggetto interessante. Non le dispiace ma le pare pericoloso. Come dire…

E, così, di ritorno, passa di sotto, se nota segni di presenza, osa, timida, un cenno dalla finestra, lui che s’illumina nello scorgerla, e questo le scalda il cuore in certi tempi di magra – ma è corretto definire magra la fame di affetto? –, e apre. Enigmatico. Silenzioso. Felino. A volte, chiaro come la luce del sole. Al in mezzo alla sua casetta di risulta. Al solo. Al amico. Al bellissimo. Miraggio irraggiungibile.

Andre.

Andre.

Andrea, invece… lo pesterebbe di legnate. Sembra non rendersi conto. È  come se la routine, nonostante le distanze, nonostante il ritrovarsi, stia, lentamente, irrimediabilmente, fagocitando tutto. Spazzando, come granelli di sabbia nel greto di un torrente, quello che erano. Loro due.


 

[1] Lady Oscar ep. 29 Una nuova vita, Yamato, versione originale, sottotitoli a cura di Yamato video.

[2] Andrea Vitali, Galeotto fu il collier. Qui i debiti li onoriamo.

 

Laura, da febbraio ad agosto 2014 pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2014

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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