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Kitchen Corner

parte 15

Warning!!!

 

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“E quindi?” lo guarda, un po’ sconvolta per il tradimento. L’ha smottata più questa notizia che le corna ripetute del marito.

“Allora sto definendo i dettagli, ma di sicuro parto.”

“Per la Costa azzurra…”

“…”

“???”

“Perché mi hanno offerto il restyling di alcuni immobili acquistati da magnati, carta libera, e mi sembra una cosa interessante.” Una pausa, dopo una sbirciata alla sua espressione. “Utile per il mio lavoro”, si sente in dovere di precisare…

“Ok, quindi Andre rimane solo…” chiosa, pratica.

“Ma che solo…” cose che solo un maschio può sostenere…

“Solo.”

“Se lei sta tornando…”

“Ed è probabile che riparta…” Che cazzo di casino…

 

Ha le ali ai piedi al check-in. È felice. Svaligerebbe il duty-free e in effetti qualcosa compra. In certi momenti riesce a non pensare, a sentire soltanto, e allora è felice.

Non vede l’ora di arrivare, di rivederlo. Di fargli una sorpresa. Non vuole pensare che potrebbe restare delusa. Che potrebbe essere tutto come sempre, senza nessun cambiamento. Ora, per un po’, vorrebbe fosse tutto come quando stavano insieme da poco, ed erano solo loro due, e solo cose belle, e l’essere innamorati e non avere pesi attorno. Come quando l’amore mette le ali ai piedi e, felice, studi fino alle tre di notte e inanelli un sacco di esami all’università. Quando, all’improvviso, non conta più niente, se non ritrovarsi. Stare insieme.

Magari fosse così. Magari fosse stato così, almeno per un po’.

Ripensa a lui. Che è allegro, e lei, tutta presa dai troppi guasti, nemmeno la vedeva più, quell’allegria. Non vedeva la gioia dei piccoli momenti, lui che si illuminava per qualcosa. No. Lei si spegneva e, affievolendosi, spegneva lui. Non era stata sola, in quel gioco al massacro.

Tutti, invece, si erano buttati su loro due, spolpandoli, facendo a brandelli le loro forze, energie, tutto. Sempre gente attorno, sempre pesi. Non capiva perché. Forse, si amavano troppo, e risplendevano troppo, e quel bagliore dava fastidio a chi era meschino e li invidiava? Cosa ci guadagnavano, tutti quelli là fuori, ad accanirsi su di loro, a sottrarre loro il tempo, le occasioni, il loro poter stare materialmente insieme? E così, da subito, era stata una lotta contro il tempo, contro tutti, e ora si domandava, dopo tanti anni, se avessero vinto loro due, a resistere, o gli altri. Guarda fuori dal finestrino, le nubi. Prova una stretta al cuore, al pensiero di lui. Ali ai piedi, all’idea di rivederlo. Rabbia, per come (non) sono andate le cose.

Fa freddo, lassù in alto. Tenta di cambiare posizione sul sedile.

Devo cercare di affrontare il drago, si dice.

Troppi pensieri comporta un volo di ritorno. Il concetto di ritorno dovrebbe riportarle alla mente la fanfic di Daniela, il reditus, il nostos. E invece. Se la nostalgia di lui e di casa è invadente, quasi molesta perché le fa andare il cuore a mille, è la pressione a salirle a duemila quando, per caso o forse no, due molestissimi tarli le si presentano alla mente.

Lavoro, ricordi spiacevoli. Quell’autoreferenzialità tutta nostrana, che sigilla occasioni, spazi, incarichi, notizie di posti, finanziamenti, denaro e, di conseguenza, vita a pochi, soliti, adepti di gruppi ristretti e immarcescibili. Quel dover essere presentati e snocciolare la scala per arrivare al contatto giusto. Quanto spreco. Quella penultima telefonata, a spese sue. Le persone si mandano via neanche guardandole negli occhi, al telefono, a loro carico. L’ultima telefonata era solo stata la pietra tombale, ma ormai quasi tutto era fatto. Quel poco che rimaneva era stato intralciare in modo sempre efficace partecipazioni e pubblicazioni: chi nega un favore a un collega? La sgobbona che in fondo era pure patetica, con i suoi fulgidi premi impallinati in un curriculum stile Istituto Luce,[1] le sue appartenenze, la sua recentemente acquisita esse manageriale (ma un corso di dizione no?), venerabilmente destinata, incarico dopo incarico, a diventare almeno ministro. Se non Grande Puffo. Miserie ormai lontane, nel tempo e nella portata galattica, ma chi aveva voglia di tornare e rifare i conti, sia pure nel corso di malumori accidentali, con certi fantasmi? Rovinarsi la salute e la serenità? Andre e casa sua e il suo mondo e il suo non essere, là, in patria, valevano quello? Sì. Se ci fosse stato un sì lavoro, sì. Ma il lavoro non c’era. Andre però sì.

Ma ha senso arrivare con le scatole girate per cose che non è in nostro potere cambiare? Che scarsamente, anche in passato, sono dipese da noi? Non che il non dipendere da noi sia una scusa buona sempre. Ma per come vanno le cose da noi, in certi casi, è semplicemente la verità.

Meglio distrarsi. Tanto la modalità aereo le consente la visione. Meglio, come al solito, pensare ad Oscar.

È come sempre.

Ogni volta, si dice “Sì, lo conosco, so come continua”, ma la magia, quel qualcosa in quella storia che, ancora, incolla a seguirla, è sempre lì.

E, come sempre, un colpo al cuore.

 

Fa freddo. Terribilmente freddo e vorrebbe essere a casa, con lei, davanti al camino. Alternativamente, a dormire, ben sotto le coperte. Ha nevicato e l’acqua nelle fontane è ghiacciata.

È stato da poco il compleanno di Oscar.

 

“Che bella…” si è sorpresa, nel trovarsi nelle mani la morbida lana della sciarpa, candida. “Grazie”, inaspettatamente, l’ha abbracciato. Forse è cambiato qualcosa, dopo quella sera, al ballo. Lui le ha dato un bacio, lieve. Timido. Lei non è fuggita. Non si è irrigidita.

 

Ora nasconde la sciarpa sotto il mantello. Lo scruta. Mentre, tra gli alberi, lo attende. Tocca la sciarpa col guanto.

 

Nascosto dal buio, vestito di scuro, è uscito dall’ombra per aggredirlo.

È stato tutto troppo improvviso.

Ha sguainato la spada, ha colpito, anche col calcio della pistola.

André l’ha disarmato. Oscar, accigliata, segue lo scontro, che ora è a mani nude.

André è inaspettatamente forte.

Si chiede quanto trattenga, quella forza, con lei.

Lo atterra. Lo ha schiacciato a terra e gli è addosso col proprio peso. Il ladro è sconfitto. “Oscar”, alza il viso per gridare, “dobbiamo legarlo!”

È in quel momento che qualcosa scintilla nel buio.

Sente la voce di André, più un gemito.

André si piega, porta l’altra mano al polso destro.

Un’altra pugnalata. Al fianco.

Poi, quel grido.

 

Improvvisamente, ogni cosa diventa buia.

Sente solo un dolore fortissimo. Gli manca il sangue. Gli mancano le forze.

 

Improvvisamente, per Oscar ogni cosa perde importanza. Perde colore. Non vede il ladro che fugge. Vede solo lui, piegato a terra.

Corre verso di lui. Lo abbraccia. Lo avvolge.

Lo costringe a sollevare il viso.

Vede sangue. Sulle mani. Sangue che cola dall’occhio.

“André!”

Poi, nota la ferita al fianco.

Lo abbraccia.

Il sangue che le imbratta il mantello. La sciarpa.

Lo tiene stretto.

 

Rientra carico di borse della spesa, dopo essersi fumato i maroni per parcheggiare in un francobollo di asfalto, i jeans azzurri sui mocassini neri, la giacca buttata sulle spalle. Ignaro.

Le borse spandono per terra il contenuto. “Merda…” Un’arancia rotola sul pavimento. I gatti si precipitano ad annusare, annusano anche i rumori, in attesa della ciotola. Appoggia la cartella di lavoro e la borsa da danza. Cibo ai gatti, roba in frigo, verdure a lavare.

Si guarda attorno nella casa. Vuota a parte i gatti. Guarda da lontano la porta che non osa mai aprire. Quella del suo studio – suo di lei –. La apre. Cazzo. Etti di ragnatele e polvere. Ennò, cazzo, prima di cucinare, una bella pulita. Studio di lei o meno, ricordi o meno, in una casa civile, questo no! E inforca l’aspirapolvere.

Due ore dopo, mentre “la stanza” risplende di Mastrolindo parquet e di Vetril – ha lucidato pure i monitor –, dopo una doccia ristoratrice di quelle alla Montalbano, da spardare l’acqua, decisamente poco ecologica ma sacrosanta e meritata, si ritrova di nuovo solo.

Si aggira per la casa. Come un fantasma. Relitti, la casa e lui.

Arriva al suo posto. Come Capitan Harlock al posto di comando. L’angolo cottura. E lì, tutto sommato, recupera la sua ottica. Disastrata, magari, ma ancora dotata di un certo equilibrio.

“Stasera, tataki”, annuncia. E, a giudicare dalle codine dei gatti, la cosa è apprezzata.

 

Ok, ma per quanti cucinare?

Mentre mette su un blu-ray di Le Corsaire, da cui sta recuperando una variazione, chiama Al sul cellulare.

Ride di sé, una perfetta interpretazione della mogliettina in ansia. Sente un casino incredibile: “Dove sei?” domanda, infatti.

“In giro”, glissa lui, che non sa mentire.

Ad Andre pare di sentire delle voci. Gli pare di riconoscerne qualcuna.

“Rientri, sì? A che ora?”

“Che prepari?”

“Tataki.”

“Eccerto che rientro. Rientriamo. C’è anche Lia.”

“Ottimo”, approva Andre. “Preparo per tre.”

“..,. mhh…”

“Che c’è?”

“Meglio per quattro-cinque, magari portiamo qualcun altro.”

“Va bene”, chiude lui, perplesso.

Prepara. Infila tutto in frigo a marinare, corre a lezione.

 

Al chiude la conversazione.

“Passiamo prima a prendere la Coca cola, dopo”, decide. “E le Corona”.

 

I monitor di bordo segnalano la distanza. La voce dello speaker annuncia l’imminente discesa. Dopo una full immersion di training autogeno a colpi di Lady Oscar versione drammatica, torna nel secolo per trovare di fronte a sé una delle hostess, visibilmente in panico da atterraggio. Le fa quasi pena. Fino a un istante prima, era una professionale ragazzona compita, ora sta lì tutta contratta. Strano lavoro che si è scelta, riflette. Ma tant’è. Le sorride, la ragazza ricambia, grata. Siamo sulla stessa barca. Aereo, pardon.

 

Quasi non pare vero.

Eccola qui, di ritorno da molto, molto lontano.

La trova bene.

Al non osava fare un passo, al terminal. Quando l’ha avvistata, da lontano. Non arrivava mai. Dovevano averle quasi smarrito il bagaglio.

Poi, l’ha praticamente stritolata in un abbraccio. Dopo qualche metro di incertezze in cui pareva comicamente diventato di marmo.

“Finalmente…”

 

Ha l’ennesimo tuffo al cuore allo sgargiante paesaggio dell’interna. Rotta verso il centro commerciale.

E ora sono al bar, che complottano. Seduta lì, Coca munita.

 

“Perché vuoi che ti alleni io? Chiedi ad Andre.”

Controlla la posta sul cellulare. “No. Meglio tu. Mi sento meno a disagio. Sono quasi ferma da troppo tempo.”

Lia pare soppesare per qualche istante quel “quasi” e un lampo le brilla negli occhi.

“Tu sei allenata…”

Abbassa gli occhi. “Ho fatto le solite cose”, confessa, “ma il resto, diagonali, passi, piccoli salti, combinazioni… praticamente più niente.” Tormenta il tovagliolo di carta. “…” Poi, sbotta: “Non so neanche se ne sono più capace, magari è la volta che mollo.”

“Tu non smetteresti”.

“No, di allenarmi no. Di ballare.”

Alza gli occhi su di lei.

“Perché non dovrei, dopo tanto tempo?”

“Perché quando ballo, sono felice. Tu no?”

 

“E tu?” Le dà un buffetto sulla guancia.

“Quando balli. E poi?”

Le sorride, disarmante. “Dipende…” Lo sai, come a dire?

 

“Io pensavo fosse André. Invece era un coglione”. In queste brevi parole chiosava la sua storia, Lia. Che era un po’ quella di tante. Perché il Grandier la piazza l’ha rovinata davvero. A un sacco di maschi. Ma, diciamocelo, anche a un sacco di fanciulle, pronte a incarnare il proprio qualunquemente-uomo negli idealistici panni del nostro Mr. G. Poveri uomini. E povere donne. Illuse perenni.

La sera che si scoprì l’inghippo, Lia un po’ e da un po’ se l’aspettava. Disattenzione. Nervosismo. Calze di donna trovate nelle valigie. Cartoline strane con sopra la firma di lui e un nome femminile. Voci durante le telefonate. La suocera che le aveva donato un romanzo della Piñeiro in cui la moglie scopriva le corna. Bisogna essere onesti: qualche segnale, sia pure modesto, c’era. Quando lui confessò, lei, furibonda, stranita, una tramvata, avrebbe voluto sotterrarlo di schiaffi, di legnate, sfogare il malumore di anni trattati da zero a serva, pronta a sbottare e a lasciar uscire tutta la rabbia, la frustrazione che aveva accumulato. E, infatti, nera in viso, si era alzata e si era chiusa la porta dietro di sé. Tentando di sbatterla.

Si domandò una cosa che aveva sempre messo a tacere. Osò rispondersi all’interrogativo se, davvero, fosse stata mai innamorata di quel coglione che, sempre più sporadicamente, con medie ormai annuali, albergava talvolta tra le sue gambe. O nel culo. Lui preferiva.

Mise le cose che aveva in un paio di valigie e filò via. Dovette farlo a piedi, perché l’unica auto era intestata a lui. Per fortuna, sua madre non abitava tanto lontano. A quell’ora, di bus manco a parlarne. La madre, che non vedeva l’ora di avere compagnia e qualcuno su cui sfogarsi – non con cui: concetti diversi, tattiche diverse –, se la riprese in casa non risparmiando i “te l’avevo detto, io”. Quella notte, Lia, dormì nel suo vecchio letto, senza riconoscerlo. Le lenzuola puzzavano di fumo e di stantio. Soffioni di polvere esalavano dai cassetti sotto la rete. L’intonaco del soffitto era staccato in macchie di umidità. I poster avevano fatto le bolle. Non era la miseria, ma ci andava vicina.

Quanto a lui, che da tempo si barcamenava tra trasferte e viaggi con la collega, e che si era da altrettanto tempo almeno stancato di Lia, del suo farsi sempre più niente, del suo essere troppo comprensiva, una debole – dimenticando che per prima lo era stata con lui, che della cosa aveva ampiamente approfittato –, non trovò gran differenza, magari un certo sollievo a non vedersela, piccola, smunta, incompresa, infelice, attorno. Semmai un certo disagio lo provò quando si rese conto che, con la moglie, gli erano venute a mancare anche la serva e la cuoca. Perché trovare un pasto caldo, casa in ordine e pulita, la roba stirata era, quello sì, qualcosa di non rinunciabile.

Rimediò presto, così pensava. In casa portò la sostituta. Che gli fece prendere donna delle pulizie, stiratrice, baby sitter per il figlio quasi in cantiere e per quelli a venire. Chiaro che, così, a lui non restava grossa capienza per l’assegno di mantenimento di Lia.

I quotidiani squallori, quelli che non si raccontano. Per dignità.

Lo sapeva. Quanto Lia avesse sofferto e tenuto tutto dentro. Quel vivere dimenticata. Dai genitori. Dal perfido. Quelle volte che le era sfuggito che lui da tanto non le si accostava. La freddezza di quel giovane ammodo. Tutto preso dal lavoro. Dalla sua vita. Dimentico.

 

Lia non sa quando inizi a finire, un amore. Non sa neppure se, dopo tanto, o se, in certi casi, si possa parlare di amore.

Sa che con lui è finita e lei non se ne è accorta. Come un lento distanziarsi, che, però, Lia ha subito.

Le volte che lei si accostava, un bacio fraterno. La distanza che cresceva. L’età, forse, si era detta. Ma non era così, non per le altre. Le amiche trombavano, normalmente. Erano loro due. Tutto affondava nella normalità. Negli orari. Gli usuali passi di tutti i giorni.

Gli orari sempre meno coincidenti. Lui che, nel letto, la raggiungeva dopo aver guardato i porno ed essersi chiuso in bagno. E, non appena si schiantava sul cuscino, dormiva. E lei si domandava come mai. Prima, stupita. Poi, rassegnata. Si sentiva sbagliata. Molto sola. Si domandava che vita era. Poi, pentita, pensava solo che fosse normale. Che poteva anche andarle bene.

Non ci pensava. Viveva in un mondo tutto suo, per non soccombere. Fare le stesse cose, crederci, costringersi. Per non mollare. Per non perdere se stessa, dopo aver perso tanto del resto.

Quando è rimasta senza lavoro. E, allora, si è inventata una routine, relativamente flessibile, di cose da fare. Anche per non lasciare spazio alla delusione. Suo marito aveva trovato un buon lavoro a cani e porci. Perché solo a lei no? Eppure, non gliel’aveva mai rinfacciato. Aveva sempre pensato che lui non volesse metterla alla prova e sapere che potesse fallire. Un modo per preservarla. “Tanto ti mantengo”, le aveva detto, un giorno, umiliante e noncurante.

Aveva rinunciato anche a danza, arrivando a farsi lezione da sola, depressa, abbattuta, con un peso addosso, tra le spalle, che ogni giorno aumentava. Allora era comparso Andre, che l’aveva coinvolta nelle sue lezioni. Lei, orgogliosa, avrebbe rifiutato e lui non gliel’ha consentito e, ogni volta, dopo quelle ore rubate, almeno è felice di averle fatte, si sente meglio. Di aver fatto qualcosa per se stessa.

Lia è sua amica. Vuole bene a Lia, eppure anche lei non è stata in grado di aiutarla. Andre sì, invece. Ora, Lia potrebbe aiutare lei.

 

Quel viaggio di ritorno in auto, quegli ultimi chilometri sembrano memorabili.

Ha paura. Fretta e paura.

Mille pensieri. Lui, i ricordi, la scuola di ballo. Le compagne. Di cui non ci sono notizie. E i balletti, tantissimi. I teatri. Forse è tutto per non affrontare l’idea di lui. Che, quella mattina, si è svegliato, ignaro, e, come al solito, ha ripetuto gli stessi gesti, fatto le stesse cose di anni e anni.

Le fa paura pensare a un rifiuto. Anche solo a un’occhiata sbagliata. Non si era mai allontanata, fino a quel momento. E non sa com’è tornare. Era sempre lui, quello che tornava.

E non è solo questo. La scusa con cui si è forzata a tornare non è poi così una scusa. Ha davvero voglia di rientrare nel corpo di ballo. Di rimettersi alla prova. Ha una strizza pazzesca. Paura di non essere più in grado. Ma lo desidera. E vorrebbe tentare.

Le altre allieve, quelle che ballavano, sono andate.

Ne ricorda una, in particolare.

Claudia era bella. Silenziosa. Sorniona.

La prima volta che l’ha incontrata – e, poi, ogni altra, via via che cresceva –, ha pensato che, se fosse esistita Oscar, sarebbe stata proprio così. Mai visti capelli come i suoi. Un fisico così.

La ricorda benissimo. Con struggimento e rimpianto. Per non averla conosciuta meglio. Per la timidezza di entrambe. Perché il tempo passa e spazza tutto. Chissà cosa fa, ora. Si vociferava che, davvero, facesse la ballerina professionista. E magari fosse vero! La ricorda in una delle variazioni di Giselle, bella, leggera. In Riverdance, coi ricci prepotenti sciolti, biondissimi. Gli occhi acuti.

Claudia era bella e così diversa, così tanto diversa, da lei, eppure le somigliava per atteggiamento. Noncuranza, superiorità, silenzio. Io non gioco, io qui mi impegno, poi, in realtà, con le amiche, era una piccola peste scatenata che rideva incontenibilmente, allegrissima, l’anima della compagnia. Ma una faccia così seria, a volte, che incuteva soggezione.

Ha una strizza pazzesca, a mano a mano che la meta si avvicina. Non sente le ore di aereo e neanche quelle di auto. Non sente più niente, ora, sulla tangenziale, passato il cavalcavia, e si stupisce di conoscerla ancora a memoria, dopo tanta assenza.

Nella solita tasca esterna ha le chiavi di casa. Sempre quella sbeccata, sempre con il segno in su.

Il cuore martella. Suda freddo e le tremano le mani. Gelate. Spera non le tremi la voce.

Entra. L’odore è quello di sempre, quello che, da decenni, associa alle scarpe da ballo, alla pece, ai body.

Stanno provando e, in fondo, gli specchi, dietro le sbarre, moltiplicano la scena.

Lui è di spalle.

Moltiplicano lei.

È così che la vede.

 

È un sogno.

L’ha sognata, proprio stanotte, domandandosi come mai non la sentisse da qualche giorno, ed ora, che varca, bella, la soglia della saletta prove, rimane bloccato come quell’ebete del Grandier con le stelline agli occhi. E due lacrimoni.

E le ragazzine tutte attorno a lui, sorprese.

“Ma…”

“Ma sei tu!!! Bentornata!”

Serena, che era la sua prediletta, le salta in braccio e sente le guance contro le sue. Tiziana, la sorella, è alta ormai quasi come lei.

 

Lui è rimasto lì. Sopraffatto? Sorpreso, si domanda. “Di’ qualcosa… non farmi pentire di essere qui…” pensa, scornata.

Quando Serena scende, gli si para davanti. “Buona sera”. Come se fosse normale. “Niente da dire a tua moglie rediviva?”

E, per la seconda volta, in quelle ore, un bel ragazzo l’avvolge in un abbraccio.


 

[1] Copy Sydreana.

Laura, marzo-ottobre 2012, revisione estate-autunno 2013 pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2013

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Continua

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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