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Kitchen Corner

parte 14

Warning!!!

 

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L’amore di ieri, quello sono le lacrime

Goro Miyazaki, La collina dei papaveri, End Theme

 

L’aria sa di autunno, di legna bruciata, di terreno umido sotto il fogliame. Gli pare quasi di sentirlo, il rumore delle foglie sotto i passi. Sentirla, come fosse ora, la mano di lei nella sua.

 

Lei alza il viso e sente l’aria sulla pelle, mentre le foglie si muovono, leggere, fruscianti e le sembra che forse sarà una bella stagione. Non c’è una nuvola e il cielo da un’impressione di libertà. E, allora, sente dentro un dolore, una commozione e tutto il peso, la solitudine, le possibilità colte, quelle negate, quel lavoro che sembra rivoltarsi contro di lei, a casa, per non poterlo fare, qui, per quello che manca.

Il lavoro è un esilio. L’esilio è un altrove, se non hai avuto scelta nel decidere di partire. Ricorda quella canzone che piaceva a lui.

 

Per sognarti devo averti vicino. E vicino non è ancora abbastanza. Ha ragione, de Gregori. Quanti cuscini e quante notti, senza lei. Ad allungare il braccio, con la memoria di un corpo. Che non c’è.

La tristezza passa domattina, ma solo per quell’attimo di risveglio. Poi, ti ricordi che non c’è. È come un trauma. E poi ritrovi la normalità di quell’assenza.

 

Si sveglia angosciata, spaventata. Una serie di tuffi al cuore, pensando a lui. Non sa come stia. È troppa, quella distanza. Non ha più senso, vuole tornare da lui, vuole ritrovarlo!

Al diavolo tutto!

Poi, lentamente ma implacabile, la coscienza dell’esilio riaffiora, insieme a lampi di ricordi sulle molte ragioni del distacco. Private e sociali.

Oggi può andare a lezione nella sala piccola. Lo stesso maestro insegna anche lì. La cifra è standard, l’ingresso libero, il prezzo si lascia sul pianoforte. Se vuol fare riscaldamento, va un’ora prima, mezzi permettendo, e lo fa spesso, perché le piace guardare i ballerini riscaldarsi, si impara sempre, osservando, si impara, non si sa rifare, ci si scoraggia, ma la passione resta. Se non si è cancellata in questi lunghi anni, qualcosa vorrà dire.

Come con lui. Anzi, forse lì è ancora peggio, perché troppe cose si mescolano e la rabbia, la solitudine, la delusione giocano troppo. Il fatto è che  in due non si è mai solamente due. C’è sempre quella cospicua schiera di eventi e di solerti terzi pronta a depredarti, sporcarti, rubarti.

Le diagonali sono troppo complicate, così resta nell’angolo a osservare e, ogni tanto, chiede lumi a qualche anima pia. La demoralizzano, queste parti della lezione, ma tutto vale, se non è quello, è palestra, o ginnastica sola in casa in zero spazio. E allora, almeno lì impara qualcosa.

Raccoglie la borsa e pensa che non è mai riuscita a comprarsi quella rosso rubino che aveva adocchiato troppi anni prima, e va in giro con questa, che è vecchia e viene da Parigi e dai ricordi del tempo che fu e in un attimo i ricordi le invadono la mente, gli occhi, e rivede il negozio sotto la sala prove e, poi, le prove, le compagne, l’insegnante, come fosse lì, tutto vivo, presente.

Si preparerà una zuppa di miso. Ne ha voglia, stasera. Qualcosa di caldo. Soprattutto, che la scaldi.

Ha annotato, sera per sera, come se non l’avesse lasciato – o, forse, proprio per questo –, ciò che ha immaginato di cucinargli. Le cose che preferiva. Le è sembrato un modo per non abbandonarlo. Anche se non s’è fatta sentire molto.

 

Non si è fatta sentire molto, riflette Andre.

E lui neanche, ma ha paura di passare dei limiti che lei ha posto. In più, sa che è in contatto con Al e con Lia, per cui si lascia andare alla sua tendenziale pigrizia affettiva, come un gatto sornione. Confida nell’intelligenza emotiva che, nei momenti catastrofici, lo ha smosso: si sta riscoprendo più orso del solito, anche se vede i colleghi, qualche amico, le persone con cui è rimasto in contatto. Il fatto è che, il più delle volte, c’è poco da dire, perché ne vedi troppe, tra lavoro e vita di tutti i giorni, e l’unica, spesso, è tacere. C’è un sacco di gente strana che ti tocca sorbire e quelli come lui tendono a rinchiudersi per non essere troppo feriti. Preferiscono avere meno amici, ma più leali. Persone con cui c’è effettivamente qualcosa da condividere. O che abbiano una percezione simile. Sorride. Una sera, a cena con Al e un’amica, parlando dei comportamenti che si subiscono, l'amica aveva buttato là, commentando con la sua corrosiva ironia alcuni atteggiamenti ed esternazioni tipo “La legge non ha senso di esistere perché tanto qualcuno la violerà” che “comunque si tratta di un concetto sommamente interessante e pregno di logica”. E aveva aggiunto, lapidaria: “Suggerisco la sopraccitata scopata: anzi più d'una!, ma mi pare di dedurre che le signore sostengano che l'ignoranza non ammette legge!!!!!!"[1] Si erano fatti una bella risata al pensiero delle ignorantes – in senso latino, a scanso di equivoci – che non ammettevano in primis la legge, e, in secundis, probabilmente non la capivano.

 

Per il volo se ne va quasi uno stipendio… se però si fa uno scalo, le cose migliorano, 14 ore più lo scalo più un’altra di volo… e tre di bus… a meno che qualcuno non la venga a prendere.

Lui non è avvisato. Quando le ha detto che partiva, non ha osato chiedere dove andasse. Per due giorni s’è macerata nel fastidio, nell’idea che qualcosa lo distraesse.

Alla fine Al ha cantato: udienza fuori. Lui lo accompagna, veni vidi vici. Turismo alimentare, cerchiamo cose interessanti, ci manchi, bacio!

E lei, come ogni volta che un allontanamento dura troppo, non ha voglia di ricongiungersi, continuerebbe a restare lì, nascosta, come un gatto, a viversi la sua vita, fare le sue cose, tanto lui ha la sua, e va bene così. No. Non va bene per niente, ma la necessità di adattarsi, la paura di essere delusi, di ritrovare gli stessi errori, blocca. Vorrebbe restare lì e uscire e svagarsi e andare a lezione e camminare, camminare tantissimo, e ogni tanto vedere il nuovo amico, che incontra in alcune delle ore di ballo e che è umano, simpatico, non c’è niente da pretendere, giusto farsi un po’ di compagnia, imparare qualcosa, scambiare un contatto umano.

 

 

È stanca. Spera di rilassarsi durante il viaggio. Si accomoda sul sedile, allunga le gambe, si sistema il golf. Vorrebbe apparire a se stessa rilassata, ma è impossibile. È agitatissima. A pensarci bene, sperimenta un mix inconciliabile di sentimenti. La paura, l’attesa. La sospensione. Il profondo desiderio di godersi il tempo del viaggio, sola. Il non vedere l’ora di infilarsi in vasca da bagno o, almeno, in doccia e rimanere sotto l’acqua bollente. Moderatamente bollente.

“Appena arrivo, doccia!”, ha avvisato bellicosa Al e Lia.

Si domanda, in questo sample di percezioni, visioni, aspettative, dove sia lui. Se si senta ancora ferita. Se, in fondo, non lo sia mai stata realmente e tutto sia stato dovuto solo alla necessità di un lavoro. Lui, che non è mai stato dato per desaparecido, eppure non è parte del piano. Eppure, è l’obiettivo primario del ritorno.

Lui che, sornione, le ha scaricato e inviato i nuovi episodi. Che lei si è religiosamente vista. Chissà che combina. Come sta davvero.

Se, però, si ferma a pensare a come stia lui davvero, sa che non sarebbe più capace di tirare avanti. Ha dovuto scegliere, con egoismo, per sopravvivere. Lavorare è importante. Provare a se stessi soprattutto di potersi distaccare è fondamentale. Ora sa di poterlo fare. Ora sa com’è. Ora può scegliere davvero.

Sono troppi, o, forse, nessuno, i fattori in ballo. Lui, la loro unione, casa loro. L’entourage attorno a lui, pesante. Quello attorno a lei, inqualificabile. Forse, alla fine, conterebbero poco, se, tra loro due, riuscissero – e fossero riusciti – a tenersi indenni e riparati. Se si ritrovassero davvero, come altre volte, i fattori esterni conterebbero poco. Ma è sempre stato difficile non farsi inquinare.

Andre a volte sembra non capire. Per lui le cose sono chiare, diritte. Anche se hanno pesi addosso. Non si rende conto, forse, invece sì, che quei pesi per lei sono schiaccianti. Lei vorrebbe solo vivere tranquilla nella sua casa, senza rotture, senza pesi, e poter lavorare.

Chissà come ritroverà casa, si domanda. Se sia cambiato qualcosa. Quale nuovo elettrodomestico sarà saltato fuori. Per lei, la casa è una tana. Non quella dei suoi, quella era un luogo da incubi in cui la notte non riusciva a dormire. Ma quella che hanno messo su loro, le dà un’idea di accoglienza, di tranquillità. Certo, non è tutta come avrebbe voluto, ma non le dispiace.

Alcune fan di Lady Oscar, per fortuna non molte, ritengono di dover rendere la propria casa, in un modo o nell’altro, oscariana.

Ora, in cosa consista, esattamente, lo stile oscariano, non è chiaro, anche perché ognuna ha della cosa un’idea diversa e fin troppo personale, esattamente come per Oscar e soprattutto il povero André. Ci sono dei terrificanti sirenetti, dei terribili bellocci oliato-palestrati che le fan, ovviamente differenziate per fasce anagrafiche, indicano come adeguati all’uopo. A lei sembrano spesso dei farmer volgari, ma tant’è. In fondo, il Grandier sarebbe un servo. Solo che noi lo vediamo come l’uomo ideale. Solitamente, però, lo stile oscariano viene interpretato nel vestire come camicie con pizzo e stivaloni, e nell’abitare come un confuso e caciaresco rococò, dal risultato vagamente trash, perché si tende a dimenticare il sobrio gustaviano, che pure era diffuso. Forse anche complice il fatto che in Giappone vi sia una certa tendenza a immaginare così ambienti simil-europei – giappo-style – s’intende. L’aberrante risultato è, così, spesso, uno strano accostamenti di divanetti con piedini ritorti, decorazioni e stucchi degni di artigiani in preda ad allucinazioni furibonde, letti in presunto stile, una cosa che manco la Du Barry probabilmente sarebbe arrivata a commissionare – o forse sì? –, salvo poi lasciare sulle asburgiche terga della Toinette l’ingrato compito di disfarsene e tacitare i fornitori. Più o meno come per la collana.

No, Andre non lo merita. Andre che le diceva, scompigliandole i capelli “Che importa cosa sei? Stiamo insieme… sei mia…” e a lei si stringeva il cuore, perché avrebbe tanto, totalmente, voluto essere serena, felice, anche, e trovare consolanti quelle parole, ma in realtà si sentiva sola, non compresa, infinitamente triste. E avrebbe giurato che non fosse la sindrome da episodio 29, ma un guardarsi dentro con onestà, fino a graffiarsi l’anima. Eppure, quando non aveva voluto davvero farsi del male, era stata al gioco. Vivere la vita che lui avrebbe voluto. Ed era stata quasi serena.

 

La vita che lui avrebbe voluto e vorrebbe, peraltro, non è poi così male. Sempre meglio di quella che i suoi le propongono: che non è chiara, non è comprensibile, ma fatta solo di negazioni, deviazioni continue senza un percorso base, frustrazioni. C’è da uscirne matti, non capendoci più niente. Non è questione di certezze, è che è difficile affrontare sempre deviazioni continue. Forse è questo il problema maggiore, che poi investe Andre e il resto della sua vita. Probabilmente Andre va benissimo, loro due vanno benissimo, semplicemente a lei, dopo tanti anni, si è rotto qualcosa dentro e qualcuno, lui, a cui di lei importa, ne fa le spese.

 

“Sali”, le apre la portiera, Al.

“Dove andiamo”, serra tra le dita la vecchia borsa piena di toppe. È sudata, dopo le prove, Lia.

“Sorpresa”, fa lui.

“Per chi?” indaga lei, perplessa.

“E non provare a fumare.”

 

Si allunga sul sedile. Si stringe il golf sulle spalle. Effettivamente va meglio da quando lo stronzo le versa un assegno.

Quando riapre gli occhi, sono in prossimità dell’aeroporto e Al sta cercando parcheggio.

“Ma dove…”

Non fa in tempo a parlare, che lui corre via e lei fatica a seguirlo.

“Che cavolo…”

 

Laura, marzo-ottobre 2012, revisione febbraio 2013 pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2013

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

[1] L’amica esiste realmente. È la grandissima Syd, donna di classe, ironica e caustica. Sempre che la nostra co-protagonista non sia gelosa. Syd ha così commentato alcuni eventi trash della vita reale. Laura ha talmente apprezzato che ha chiesto di poter citare.

 

 

Continua

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