Kitchen Corner
parte 12
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Le hanno proprio rotto tutti quanti le palle!
Quella mattina, quando si è svegliata e il tempo tendeva al grigio. Verso la metà della mattinata, una cappa plumbea gravava ormai su tutta la zona. E su di lei.
È triste, a volte. Quando si accorge, con sconcerto, di non ricordare dove tenesse, a casa, un certo oggetto. E si rende conto di quanto tempo è passato. E di cosa, questo, significhi. Perché, più che il tempo, è la solitudine, il sapersi soli. Le sere che non finiscono mai, e, invece, una volta, erano la parte più attesa della giornata. Quel ritrovarsi scornata, sapendo di essere troppo stanca per le cose da fare, e ritrovarsi isolata. Era sola anche là, con lui. E, anzi, forse questo ha contribuito più di tutto a farla partire. Dopo anni di pazienza, di attesa, di non avrò capito bene, ad un certo punto, le cose le erano sembrate non solo chiare (e da lungo tempo), ma quasi offensive.
I silenzi di Andre, le sue assenze. Le mancanze o, forse, la sua discrezione distante, avevano iniziato a significare più del resto. La somma del resto, ai suoi occhi, purtroppo non ammontava a molto. Si era domandata come avesse potuto, per anni, per affetto, fingere e non voler vedere. Si era sentita stupida. La mancanza di un salario aveva fatto molto più del resto, unitamente alle famiglie.
Ora aveva un lavoro, un salario, e non aveva più lui.
Ma non era solo Andre, anzi, lui era stato un’ancora. In altri momenti. Il problema è quando si comincia male. La nostra co-protagonista non sembrava venuta in questa valle di lacrime sotto cattivi auspici. Il nonno materno, che alla sua unica figlia aveva fatto fare tutto il cursus honorum che un maschio avrebbe fatto, pagandole università e collegi, appena nata la nipote, aveva messo a nome suo una certa somma, per il futuro, gli studi. Il problema era stato che, in questa ipocrita terra, si difendono embrioni, cellule e pure surgelati, ma non l’essere vivente esistente, meglio se femmina e di infima età - nella fattispecie, la pargola -. Prontamente, il giudice tutelare, si era dunque affrettato a tutelare il di lei padre e ad assegnargli la somma. Che, sempre prontamente, era sparita. Ci sarebbe stato da impalare questo fulgido esempio di amministrazione della giustizia (infantile), ma proseguiamo, perché non è finita. Altro che Cenerentola!
Quando nacquero i fratelli, il nonno, che aveva imparato la lezione, ma ancora non aveva esaurito il salvadanaio, comprò case. Mettendole a nome della figlia, stavolta. Questo vuol dire che il nonno valutava la nipote femmina un quinto del valore dei nipoti maschi. Voleva però anche dire che quelle case, se fossero sopravvissute all’onerosissima creatività spendereccia del genero, sarebbero andate nell’asse, dove non si sarebbe obiettato se l’erede fosse maschio o femmina e di che valore. La pargola e i fratelli crebbero conoscendo come storie di famiglia queste ed altre, e assimilandone il succo. Vale a dire, la pargola si espropria, la pargola vale 1/5, i maschi valgono di più. Morale: gli adulti, talvolta, farebbero meno danno a tacere.
In tenera età la pargola si mostrava apprensiva e affezionata al padre. Siccome l’individuo era assente da casa, rientrava nei w-e per prosciugare lo stipendio della moglie, che era rimasta a vivere coi genitori, e viaggiava per tornare dove poteva spendere liberamente, la poverina, cretina fino in fondo, ma scusata dalla tenera età, finché non era arrivato e telefonava, restava in ansia. Però quando era in casa e non era impegnato in estenuanti riunioni politiche con ventenni (ma non era strano che delle ventenni solerti votassero per quel partito bigotto?) o non era al mare con le figlie (non sue) ventenni e bikini munite degli amici fin troppo tolleranti, riservava attenzioni tutte particolari alla nostra, come giocare ad alzarle la gonna, giocare ad abbassarle le mutandine, giocare a farsi vedere nudo, giocare a farsi toccare in tutta la sua estensione, giocare sì a tenerla in braccio, da seduto, ma non sulle gambe, un po’ più su. Rari sprazzi di sincerità fraterna, in tale, alterato, contesto, narrano che il trattamento, più soft, ma sempre straniante, fosse stato riservato, attraverso toccatine e sguardi, anche ai fratelli.
Ad un certo punto, i debiti cummigliarono il fulgido paterfamilias, il suocero glieli pagò, ma egli dovette abbandonare l’amata metropoli, dove non poteva più farsi vedere, e tornò in patria, dove sempre il suocero gli aprì l’attività e la moglie gliene pagò gli arredi. La vita della pargola fu relativamente serena, tra litigi isterici dei genitori, porcodisu, porcodigù, urla sbavanti, giocattoli sfracellati per nervosismo, prima comprati poi definiti oltraggio alla miseria (e allora non comprateli!), frenate brusche in auto, manate sul volante, sterzate violente, madri trascinate per i capelli, tentativi di lancio dal terrazzo, perché aveva la nonna. La pargola era una persona alquanto silenziosa. Pensosa. Inventava storie in silenzio e stava vicino alla nonna, che le voleva bene. La relativa serenità, durò finché il nonno (quello salvadanaio) non si ammalò. Allora, cominciarono i guai veri. A cui, per brevità, diremo solo che la sottrasse Andre. Con la sua presenza. Con la sua mente chiara, limpida. Perché Andre le voleva bene davvero. Andre la proteggeva.
Lady Oscar, per chi non lo ricordasse, finisce che lei muore prendendo la Bastiglia. Chiaro segnale: diverso sarebbe se dipartisse combattendo per la reazione. No. Ha, in sé, una certa critica sociale, anche se poi abbonda in fiocchi e lustrini (a seconda delle versioni). Quindi, un racconto su degli onesti fan (e contorno) del suddetto cartone può contemplare una certa dose di critica sociale. Eccovela servita.
Questa mattina, Al e Andre sono entrambi un po’ girati. Pure loro.
Andre, che sta passando il vecchio aspirapolvere nello studio, si sente vagamente preso per il culo. Ne ha diversi ordini di ragioni, stando alle sue peregrinazioni mentali. Se uno ha studiato per diventare libero professionista e, malauguratamente, tenta di intraprendere la professione, cominciano i guai, si dice. Prima di tutto, si è in troppi. La riforma universitaria del 1969 ha fottuto le professioni liberali. E, così, un povero cristo non ha più il mercato che trovava, ovviamente, prima. Quello che trova un notaio. Però, ultimamente, il meschino, che non guadagna quanto il notaio, anzi, normalmente, manco guadagna, e non beneficia del notarile mercato protetto, vengono imposti, a pena di salatissime multe, adempimenti che si possono chiedere ad un notaio, pagato per essi, ma non, e pure gratis, a uno che si deve sbattere per trovare uno straccio di cliente, lo deve curare, patullare, esita a chiedergli pagamenti e poi magari dovrebbe pure denunciarlo a pena di multe da mandare sul lastrico non solo lui, ma tutta la famiglia…
Oggi questi professionisti appaiono, tranne rari casi (il nostro), come tipi smart. Si riconoscono tra di loro, si vestono allo stesso modo, Ordine per Ordine, vale a dire su al nord non ti vesti come da noi, ove impera lo stile vario, da camicia pendula quadrettata a cravatta rosa a scarpa gialla con tre dita di para sotto, capello, quando c’è, da old-fashioned paninaro. Si tratta talvolta di gente ignorante come il cucco ma figa. Se, infatti, un tempo era richiesta una preparazione a monte per affrontare materie con profonde derivazioni dal diritto romano e, quindi, era d’uopo capire da cosa originasse quel tot istituto e ragionarci sopra, al giorno d’oggi tali, e anche minori, competenze difettano allegramente nella categoria. I novelli professionisti s’improvvisano quindi, tranne eccezioni, schiacciasassi tecnici che ignorano il contesto in cui si muovono. Basta avere clienti.
E, così, una volta passato il mostruoso esame di abilitazione alla professione (che abilita a rasparsi le corna sul mercato munito di titolo), si annaspa in un mare magnum, ove tutto, pattume ed eccellenza, si confonde e a numero sempre inferiore di utenti va a corrispondere infinito numero di derelitti. Il mercato fa la selezione, occorre pescare nella melma. Cosa non semplice per chi abbia magari frequentazioni e parentado anonimamente normali, senza quello stuolo di truffatori, raggiratori, rapinatori, ladri che costituisce l’imprescindibile zoccolo duro utile a costruirsi una solida clientela.
Sospira, Andre, lancia il Lysoform in un arco di parabola, impreca perché uno schizzo approda immancabile sul libro e odia la carta rovinata dall’umidità, ma non ci sono santi, è colpa sua, e passa lo straccio. Un bello straccio quasi nuovo, che, ogni volta, inforcati i guanti azzurri rivestiti in cotone, sciacqua per bene nel lavandino, che poi lava, memore di quei compagni d’università che fregavano gli stracci puliti dai panni stesi in strada nelle vie buie e incassate, i fili bassi, tutto lo squallore del fuorisede qualunque. Questa è la realtà. Ammesso che uno abbia culo e trovi, appunto, dei clienti. Il che non è detto. Dopodiché, come non bastasse la marea montante di leggi e leggine che mutano ogni due per tre, enne riforme in pochi mesi, l’impossibilità di stabilire anche per i cosiddetti operatori il miraggio della certezza, di una cosa chiara scritta nero su bianco; il malcapitato professionista, come non dovesse già per forza, e ovviamente a spese proprie, mantenersi informato sul caos, sui mutamenti in atto, sulle quisquilie inventive, ad personam e ad scortum, o ad tructam, chissà, in un futuro non molto lontano, e ricomprare raccolte o abbonamenti aggiornati, deve pure cumulare i crediti. Una roba che non si usava manco quando era studente, ma che si ravana in corsi spesso organizzati da incapaci, a volte a carissimo prezzo, in cui, a fronte della perdita di un certo numero di ore, quelli certificano che hai enne crediti. Non è mica finita. Il sempre più malcapitato, a tot reddito e, comunque, a tot età al massimo, deve iscriversi all’ente per iniziare a cumulare la pensione. La cassa è un casino. Questione di s, ove il povero cristo subisce una vera e propria trasmutazione da professionista che si è guadagnato un titolo sacrificandosi in pollo da spennare e strizzare. Il pollo, pardon, professionista è obbligato, per forza, che lo realizzi o meno, a dichiarare un certo minimo di reddito. Indi deve versare dei contributi, minimi per i minimi, più alti all’aumentare. Fin qui, direte, tutto bene. No. Per niente. Se un povero cristo - cosa che può benissimo capitare, essendo noto il sistema di sfruttare “apprendisti” gratis, anche quando uno tale non è più magari da oltre un decennio - non ha reddito o lo ha basso, deve lo stesso pagare l’anno di contributi. E sono anni salati anche per i minimi. L’inghippo però è che, siccome la persona dichiara zero, nonostante paghi i contributi, l’anno a livello pensionistico non viene riconosciuto. In sostanza, paga per niente, ma ingrossa le casse dell’ente e nutre le ricche pensioni dei vecchi. Se il tristemente malcapitato, non avendo partita iva, indica solo, cosa normalissima, il reddito alternativo, l’ultima trovata è multarlo per non aver indicato l’IVA. Che il poveretto non ha, e non può avere. Se poi il miserrimo decide, per disperazione, di sottrarsi a tale disperante e perlomeno sconcertante meccanismo, e chiede di cancellarsi dall’ente, rinunciando alla pensione, sempre che cancellarsi si possa, perché non sempre si può, primo, l’ente impiega almeno un anno e mezzo a deliberare cosa ne pensa – non a chiudere la pratica -, nel frattempo iniziando a richiedere ogni tipo di più improbabile e soprattutto irreperibile documentazione, oltre che a praticare multe e minacce, compresa quella di non restituire alcuna somma fin quando non sia stato spremuto al pollo ogni residuo umore. Ovviamente, non gli verrà mai restituita la somma totale versata, ma solo il minimo, quindi circa un quarto.
PS: tutto quello che avete appena letto è scienza e non fantascienza: corrisponde a realtà, senza alcuna mistificazione. Non sono stati torturati animali (il pollo era metaforico) per questa scrittura, ma solo esseri umani. Capirete, quindi, che Andre, pur avendo un buon carattere, pur avendo qualche cliente, ha le palle lievemente vorticanti, in questo giorno in cui dovrebbe pagare l’affitto del locale ma quello stronzo del cliente che, da mesi ritarda il pagamento, ancora non si fa vivo. “Domani ha udienza”, rimugina: “gli chiedo rinvio apposta! ‘Sto stronzo!”
Al pure, ce le ha.
Le palle. Ovviamente, essendo quello che nella maggior parte delle varie scritture viene indicato come massimamente dotato. Ma io intendevo non fare un apprezzamento da pesi e misure del locale mercato, intendevo solo che le ha anche lui girate.
Casa sua era bellissima. C’era un ingresso, dal patio ombroso, che portava in una zona svaghi, in cui una cucina ampia, corredata di dispensa, e mobili di famiglia risaltavano su bellissime piastrelle. Lì, ricordava, avevano vissuto momenti bellissimi. Quando ancora tutto filava. Una scala portava sopra, uno spazio luminoso, listoni di rovere sbiancato, color ghiaccio, dispense a muro, le stanze, la palestra, i bagni a mosaico, tinte bellissime, coi sanitari squadrati e, in mezzo al salone, una scala svettava, verso l’ultimo piano, le stanze per gli ospiti, con un letto di Cinius bellissimo, tinte soffuse, un’atmosfera accogliente. Aveva dormito spesso in quella stanza, quando lei l’aveva cacciato prima dal letto, poi di casa.
Di quella casa, che aveva creato pezzo pezzo, che aveva pagato, non aveva neanche più le chiavi. Le avrebbe riavute all’autonomia economica delle due figlie. A conti fatti, mai. Cercava di non pensarci, né alla casa, né famiglia perduta. Cercava di anestetizzare il dolore, la rabbia. Di guardare avanti. Per lungo tempo, non ha “guardato” in termini di architetto cosa aveva attorno. Era come se avesse, volutamente, sotterrato una parte di sé. Si è limitato a lasciarsi vivere. La sua deformazione professionale di ripensare gli ambienti non c’era più. Lui era uno e basta, senza curiosità, senza inventiva. Poi, forse per tirare fuori dalla depressione Andre, ha iniziato a reagire.
È da un po’, infatti, che cova, prima con la timidezza di un sogno patullato, poi, con un avvicinamento un pelino più realistico, un piccolo obiettivo, a parte riuscire a pagare gli alimenti alla voracissima trendy. Aprire un b&b come uno che ha visto in un viaggio, gestito da un simpaticissimo avvocato indigeno. Stanze arredate a gusto e dotate di bagni, magari a tema, sbizzarrire gusto e creatività, tinte, arredi, tessuti. Al è bravo, in queste cose. Già se lo vede. Per la prima volta, dopo lungo tempo, guarda avanti e non cova solo rimuginamenti.
Ha iniziato a cercare di prendere informazioni per l’attività, che vorrebbe gestirsi con calma, un passo per volta, pochi clienti e, in cui, nei suoi piani, Andre inizialmente collaborerebbe sfornando gustosi (e salutari) manicaretti, e poi, chissà. Insomma, un modo per ricominciare in cui convogliare competenze, passione, e il bello di condividere qualcosa con un amico. Non aveva certo sperato di risolvere la cosa in un attimo, quello, però, che non si era sinceramente aspettato era l’incertezza sull’a chi rivolgersi, la mole infame di autorizzazioni richieste e, oltretutto, l’incertezza sugli allegati, sui corsi… Pure per cucinare ci vuole il la richiesta di autorizzazione! E il corso, a seguito di lauto pagamento per frequenza e ovviamente tenuto da incapace, sì, ma ritualmente certificato! Ma, allora, che Andre aveva bisogno dell’autorizzazione, per cucinare per sé o per la moglie o per lui, da qualche tempo? E quando invitava a cena gli amici? Previamente faceva un corso? E la partita iva, l’iscrizione… Insomma, un casino creato dal niente per complicare una cosa semplice: arredo una stanza a gusto, ti faccio da mangiare senza avvelenarti, non pretendo di essere un ristoratore, solo un padrone di casa amante del buon vivere. Chiaro che ci sono norme igieniche. Che non si può avvelenare la gente. Ma l’esagerazione ridicola a cosa porta? La cosa carina, però, è stata una rossa fanciulla con gli occhi verdi, incontrata a fare la fila anche lei, che, molto più competente degli sportellisti, lo ha preso in simpatia e gli ha girato un pacco di documentazione. E il numero di telefono. Di sicuro non avrebbero aperto nessun’attività, ma si poteva aprire qualcosa tra loro… Alla cosa carina s’è aggiunto lo sconforto della futura consultazione del suddetto pacco, che manco un biennale all’università. Gli viene mal di zucca solo a pensarci.
E se telefonasse alla ragazza? Chissà se ha qualcuno…
Furiosamente fa la borsa.
Le punte, quelle Freed che adora. Il body parigino. Fanculo, fanculo a tutti!
L’erba si piega elastica, sotto i suoi passi rabbiosi.
Non bastano il riscaldamento, lo stretching, i pique, il terribile deuserband, non bastano. E allora ancora, e se potesse lascerebbe fluire la musica, perché quella ha sempre avuto il potere di placarla. Ma è una palestra ed è già tanto avere un pezzetto di sala in cui non scontrarsi nelle proménade, nei manège. Fortuna che c’è la danza. Fortuna.
Si sente meglio, ora.
Una robusta doccia, acqua a palate, e sentirsi leggeri. Ricorda benissimo la sensazione di quella mattina, dopo una delle lezioni con un’insegnante parigina, come, invece di sentirsi le classiche gambe pesanti, di legno, si era sentita leggera. Camminava tra i vecchi palazzi in pietra, era leggera, le pareva di volare. Quanti anni fa… quante se stessa. C’erano meno dubbi, allora, e meno ferite. Volava ed era felice e si sentiva bene. Merito di quegli esercizi particolari, ma occorreva una compagna, per farli, e lei era sola. Però aveva ancora l’elastico. Ora ha ferite che non guariscono.
Se l’era voluta, praticata fermamente. Il non abbandonare le speranze lavorative aveva un prezzo. In fondo, stava quasi in pace. Anche se Andre le mancava. Quasi in tutto. Anche se era mostruoso il registrare di starsi abituando all’assenza reciproca. Al silenzio. Stare nella piccola stanza non le pesava più che tanto. L’aveva da subito vissuta come pulizia di ambienti e mentale. Sentirsi di nuovo studente. Ripiombare nella depressione del fuorisede, cacciato in loculi e tane di ratti.
Andre era ferito? Non credeva. Probabilmente, come molte altre volte era capitato, aveva saputo accettare le sue decisioni. Alcune. Altre volte si era imposto. Si era reso conto, stavolta, del punto di non ritorno che stava raggiungendo lei, non quanto a loro due, ma per il lavoro? Sapeva che non era più possibile cercare una soluzione alternativa e indolore, sapeva che, di fatto, per lei non esisteva un posto? Non c’era.
Non si trovava male, lì, solitudine a parte. Volendo, avrebbe potuto avere altre frequentazioni, e qualcuna l’aveva. Era comunque, al di là delle ragioni da cui era nata, un’esperienza interessante che altri avrebbero vissuto in modo non drammatico. Certo, c’era un oceano intero tra lei e la sua vita. E non pensava tanto alla vita con i parenti, perché dalle famiglie a volte bisognerebbe divorziare (e altro che divorzio breve!), pensava a quella con lui. Era solo questo che le mancava, che la faceva sentire dimidiata, a tratti perduta, e le faceva desiderare di poter tornare indietro. Solo lui. Il resto era ampiamente rimediabile, se non evitabilissimo.
Il fatto, poi, che, in quel paese straniero, anche il suo lavoro fosse monetizzato, non era male. A volte pensava a cosa avrebbe potuto fare, una volta tornata. A volte accarezzava il gusto di averlo torturato, lasciandolo là, solo. Erano attimi, poi, chiudeva. Autodisciplina, almeno in questo, nel non voler soffrire a tutti i costi, ripensando – sempre che non lo fosse, invece, imporsi di stare lontani da chi si ama.
In questa sera di pioggia, si sente leggera e malinconica. Sente crescere dentro un’ansia per qualcosa che non sa definire.
Ripensa a tante cose, sprazzi di sensazioni, ricordi, immagini, senza un filo conduttore. La sensazione di umidità addosso, l’essere avvolta dalle gocce in caduta, pronte ad afferrare l’asfalto. Il vapore che emana dall’erba. Questa terra così verde, e la sua imperfetta stanza arredata.
L’idea che non basti la completezza esteriore, l’idea che loro due non sono nemmeno riusciti a terminare di arredare casa loro, come se lasciarsi sempre un margine alla chiusura volesse dire avere un futuro davanti, qualcosa da costruire. Ancora. E, forse, quella paura latente, quel senso di colpa per cui, se osi, se pratichi la grandeur, cioè una sana normalità, ma è così che gli invidiosi la interpretano, verrai punito.
Non era successo così, ad Al? A che era servito scegliere il più costoso parquet, una cosa cosmica, bellissimo, infinite doghe color ghiaccio, a cosa una cucina più che completa con un invidiatissimo da Andre Artisan blu elettrico. Loro, in casa non mangiavano quasi mai, spesso erano cibi da microonde. Più spesso a cena fuori. Tanto lavoro. Tanto figo. Tutto al top. A chi serviva tutta quella roba? A che serve una casa, se te ne sei dovuto andare?
Al è sempre stato bello, di quel tipo bello e inquietantemente artistico, dannato. Faceva bei quadri. Era bravo a scuola. Cucinava bene, arrangiandosi da studente e, poi, da marito, dominando il Bimby con soufflé da far invidia a Linguini. Ma era un cucinare una volta ogni tanto, per non perdere la mano. E in casa, nella vita, capita di dover cucinare tutti i giorni. E a volte manco è sufficiente. Ardita metafora per dire che non era bastato. Ora aveva smesso di vestire trendy come la trendy aveva imposto ed era fortunatamente tornato a dei sani vecchi jeans stretti, maglioncino verde-grigio, che non stonavano affatto. Ora era per dire. Non sapeva come fosse conciato in quel preciso momento e manco aveva voglia di contattarlo per saperlo via Skype (lei la telecamera l’aveva disattivata, lui no), ma era per dire. Non le piaceva la gente che cambiava per mode o frequentazioni. Un conto è evolvere, un conto è fingersi diversi così, come capita. La coerenza non era mai stata cosa da poco, per lei. È qualcosa che ti fa tenere un binario, non ti lega, stupidamente uguale a te stesso, ma evita di tradirti.
La stanza, a rientrarci dopo quell’immersione nella natura, è abbastanza squallida. Lo è di suo, non è colpa del confronto. Vita da pendolari. Ma ha una finestra su uno dei parchi cittadini che vale più di tutto il resto.
Laura, marzo-giugno 2012 pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2012
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