Author: Laura
Christine
Parte XXXIX
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
La mattina dopo, aveva iniziato a comportarsi come
ogni volta, in quella casa. Aveva preparato i cavalli, la colazione.
L’aveva attesa. I gesti misurati, accorti. Cercando
di ritrovare una normalità, il passato.
Quando, alle scuderie, aveva appena sfiorato la sua
spalla, poi la vita, poi, piano, in un gesto delicato, appena affondato il
viso nei suoi capelli, lei non si era scostata.
Avevano cavalcato, fino all’orizzonte, stancandosi.
Brevi parole, a commentare gli scorci, antichi eppure, ora, nuovi.
Al tramonto, a casa, avevano preso insieme il tea.
Cenato. Le aveva chiesto se le andasse di suonare. Si
era trattenuto dal dirle che, forse, il bambino avrebbe potuto sentire la
musica. Non voleva urtarla. Era tutto così fragile. Delicato. Ogni passo.
Mentre suonava, si accostò a lei, da dietro. Toccando
il suo corpo. La mano, appena poggiata sulla spalla. Lo sguardo lontano. Di
cui lei si era accorta, in un raro momento di resa. Rimase così, senza
potersi muovere. Ogni gesto sarebbe stato un rischio nuovo.
Nonostante sentisse qualcosa riscaldarla, provava
ancora tanta tristezza. Quanta, enorme, amarezza poteva racchiudere nel
cuore? Quanta era dovuta a lui e quanta a molto altro, diverso, distante,
remoto ormai? Vecchie ferite, solitudine. Sacrifici. Non avrebbe saputo
dirlo. Sentiva che era come se il suo cuore stesse, impercettibilmente,
sciogliendosi in un dolore che, lentamente, si scaldava in tenerezza,
dolcezza. Non era possibile dimenticare. Né il male. Né il bene.
Non era possibile dimenticare lui.
André non poteva non pensare a Daniel. L’averlo
lasciato solo. “Dov’è? Perché non torna?, domandava. Forse era stato questo
a spingerlo, a decidersi. Spiegandogli che partiva per andare a cercare
Oscar.
“Ce l’ha con me, per questo è andata via”, aveva
risposto il piccolo, aggrappato a lui.
“No, no… non è così”, mentre gli carezzava la
guancia.
“Ce l’ha con noi?” Stringendosi di più al padre.
“No, con me.”
“Perché? Avete litigato?”
“Non proprio”, aveva cercato di sorridere, per
sdrammatizzare.
“Ma se lei ti vuole bene e tu le vuoi bene, allora,
perché?”
“Perché, a volte, i grandi fanno…” Cazzate, avrebbe
voluto dire. Invece, era rimasto in silenzio. Era davvero stata una enorme
cazzata, chiederle di avere un bambino insieme? Insistere in quel modo?
Mentre metteva a letto Daniel, se lo domandava. Da tanto, se lo domandava.
Il perché lui non avesse compreso. Saputo rinunciare. Proprio lui, che
l’aveva sempre capita, quasi anticipata, nei pensieri, nel sentirla
all’unisono. Proprio lui l’aveva portata a quell’errore enorme.
“Tu sai dov’è andata?”
La nonna l’aveva guardato, torva, chiaramente
giudicandolo responsabile di tutto. E non aveva torto.
“Nonna, ti prego. Voglio riportarla indietro…”
“E se avesse bisogno di stare un po’ da sola?”
Senza di me…
aveva considerato.
“Perché, nonna?” L’aveva quasi implorata. Come quando
era bambino e insisteva, pur avendo capito.
“Per accettare la situazione…”
“…”
“Non è normale, per lei. Non lo capisci?”
Nelle scuderie, il generale l’aveva colto di
sorpresa.
“Immagino non sia facile per Oscar.”
André non aveva risposto.
“Va’ da lei. Non lasciarla sola.”
“…”
“Riportala indietro.”
Ripensava a questo, mentre preparava i cavalli, nella
penombra della stalla.
Non si era accorto che fosse arrivata. A volte la
vista si annebbiava, a volte spariva.
Fu la paglia calpestata, una presenza dietro di lui,
a riscuoterlo.
Adesso, ne sentiva l’aura. Il calore. La presenza. È
strano come si percepiscano queste cose, anche privi della luce. Anche solo
sulla pelle, sul corpo.
Le porse la mano, senza rendersene conto. Temette di
aver sbagliato.
“Posso… possiamo andare insieme?” Osò, quasi
timidamente.
Le si arrossarono le guance.
“Sì…”, poi, quasi con premura. “Certo. Vieni.”
Era strano cavalcare assieme, sentire i suoi capelli
sulla pelle, la schiena contro di sé, nei rari contatti. Le serrava, piano,
la vita, cercando di non stringerla troppo. Poi, non resistette, e
l’abbracciò, da dietro. Sorpresa, la sentì irrigidirsi, si domandò se avesse
osato troppo e troppo in fretta. Ritrasse la mano. Ma lei, in un tuffo al
cuore, il respiro sospeso, la trattenne con la sua, fredda,
riaccompagnandola su di sé. Poi, come in una decisione repentina, provando
la paura improvvisa, perfida, colpevole, di perderlo, domandandosi se era
davvero quello che voleva, lasciarsi andare, abbandonarsi. Vinta. Al nemico.
Se fosse stato un gatto, in quel momento avrebbe fatto le fusa. Era felice.
Fu un attimo di felicità che gli gonfiò il cuore. Per quello, valeva la pena
di essere nato.
Rimase in silenzio, il viso chino su di lei, di lato.
Sotto l’albero, in silenzio, mentre il cavallo
riposava, la tenne, abbandonata contro di sé.
Non facevano niente. Solo, starsi vicini. Trovarsi di
nuovo e reimparare gesti, misure, distanze. Per non ferirsi.
Passarono le loro ore, camminando, scambiandosi
sguardi, poche parole. A tratti, le dita intrecciate.
La sera, con l’aria fattasi più fredda, rientrarono.
Il camino ardeva, ravvivato da lui. La cena era a
scaldare.
Con gesti consueti, speranzoso, triste, sospeso,
apparecchiò.
“Domani… ti andrebbe…”
Lo interruppe, quasi precipitosa: “Stavo pensando la
stessa cosa”, poi, timida, come avesse osato troppo, sorrise.
“Ma certo…” si sciolse, lui, lo sguardo luminoso, il
calore nella voce, che le scese nel cuore.
“È buono”, ammise. “Grazie per averlo preparato”.
E, così, tra passi incerti, paure, avevano cercato un
incontro.
Dopo, si era seduto accanto a lei, che leggeva.
Fingeva di leggere, più onestamente.
“Vuoi?”, le offrì del brandy. “Fa freddo, ti copro”,
e le appoggiò la giacca sulle spalle, lasciandole una carezza sui capelli,
in un brivido. Di lei, che trasalì, gli occhi sbarrati, le guance
improvvisamente accese. Di lui, per aver osato, per il timore delle
conseguenze.
Le aveva passato un braccio attorno alle spalle. Poi,
quando lei era crollata, l’aveva sollevata tra le braccia, portata a letto.
“No…”, aveva protestato lei, nel dormiveglia.
“Shh… dormi, amore…” gli era sfuggito, tra le labbra.
Aveva resistito alla tentazione di toccarle il seno,
si era solo incollato a lei, un braccio attorno al corpo, sotto le coperte.
Era rimasto così, per ore, col cuore sospeso, domandandosi se sarebbe
riuscito a farsi perdonare, quando, finché non era crollato.
La luce dell’alba era dolorosa, per le condizioni
dell’occhio. Al risveglio, fu lei che vide. I suoi capelli, fuori fuoco. Era
ancora lì. Non era fuggita, non l’aveva cacciato.
Si alzò su un gomito, mentre la vista, lentamente,
migliorava, per osservarla. E, nel cercarne i lineamenti, le ciglia scure,
si intenerì, si commosse, trattenendo nel cuore una dolcezza dolorosa,
triste. Malinconica e piena di speranza.
Le sfiorò il viso in un bacio. Lei aprì gli occhi. La
principessa si era risvegliata.
“Buongiorno, amore”, osò dirle.
Le sfiorò, come per caso, la spalla a colazione,
notando quanto era bella, come la luce, nella stanza, colpisse i suoi
capelli, la sua pelle. Le vene delle mani. Possibile che, dopo tutti quegli
anni, fosse ancora così innamorato, da sorprendersi di queste piccole cose?
Piccole non tanto. Lei era una specie di miracolo.
“Scendi quando vuoi, ti aspetto sotto”, le disse,
armato di un pacchetto.
Poi, nelle stalle, le aveva sfiorato il braccio.
L’aveva fatta salire, aiutandola, poi era salito lui,
senza domandarle se andasse bene, dando per scontata quella piccola, nuova
consuetudine. Così come, stavolta, senza indugiare, le aveva circondato la
vita, mentre lei si domandava quando si sarebbe deciso a farlo.
Avevano scherzato, si erano presi per mano. Lui le
aveva cinto le spalle e lei, stranamente, non l’aveva scansato.
Quel rincorrersi era andato avanti, come un rituale
di corteggiamento.
Ora sedevano, coi resti dello spuntino, all’ombra di
un albero, fingendo di parlare del più e del meno, in realtà scrutandosi,
prendendosi le distanze.
Lei, a domandarsi, quasi cinica, quando si sarebbe
deciso. Lui, a tentennare per timore di osare troppo.
Poi, ad un certo punto, si era reso conto non solo di
desiderarla, ma di non riuscire a trattenere questa urgenza. Aveva bisogno
di toccarla. La voleva. Voleva la sua pelle. Accarezzarla. Sfiorarla.
Leccarla.
Si rendeva conto che, in quel momento, avrebbe
rischiato di compromettere tutto, di nuovo.
D’impulso, senza riuscire più a trattenersi, quasi
sorprendendola, si mise su di lei.
Gli aveva spalancato addosso gli occhi.
“Voglio solo guardarti… solo un attimo…”
Aveva girato lo sguardo di lato, come in una resa. Un
gesto antico.
Così, lui le aveva slacciato le vesti, piano
sollevato il tessuto, carezzato, circondato i seni, prendendoli nelle mani,
assaporandoli, con foga, senza quasi riuscire a trattenersi, fino quasi a
farle male. Fino a farla gemere.
Poi, l’aveva sfiorata, fino all’ombelico. Mentre lei,
ansimando, moriva di vergogna, a quel peccato che la spaventava, quel dolore
che si portava dentro, quell’errore che non voleva vedere. E avrebbe voluto
piangere. Girò la testa di lato. Sperò che i capelli la nascondessero. Il
respiro caldo sulla spalla.
Dopo, quando aveva sentito le mani, febbrili, che la
cercavano, volevano lei, lungo i fianchi, slacciarle la cintura, liberarle
le gambe, qualcosa si era sciolto, in lei.
Lui mi vuole…
Avrebbe voluto dirle che l’amava. Ma ebbe paura. Di
amarla davvero. Di affermarlo. Di spaventarla.
Disse solo “Perdonami”.
Oscar, così fragile. Folle. Stanca. Spezzata. Sua.
Quando le aveva posato il viso su quel ventre
estraneo.
“No”, protestò, si lamentò, all’imbarazzo delle sue
labbra su di lei.
“No…” La barba, i capelli, su di lei. Indifeso. E
avrebbe voluto proteggerlo, e non odiarlo. “L’abbiamo fatto insieme…” le
ricordò.
“Vaffanculo…” Pigro commento, mentre gli circondava
la testa con le mani, sentiva con sorpresa la pena per quelle guance
smagrite, gli zigomi, il segno, quella cicatrice, che non sarebbe svanita, e
sentiva il suo respiro contro. Avrebbe potuto strangolarlo.
Avrebbe voluto respingerlo.
Invece, fu una carezza.
La rabbia di intenerirsi a sentire quel viso contro
di sé. A ricordare di ogni volta, di sempre. Rendersi conto di non poter
cancellare e forse neppure volere.
Labbra calde contro la sua pelle diafana. E poi era
scivolato più in basso. In un brivido. E il respiro le si era fatto più
profondo. Come a ricordare di quello che era stato.
Come a perdonare. Lentamente.
Perché ognuno aveva modellato l’altro.
E lentamente aveva poggiato le dita su di lei.
Aprendola. Carezzandola.
Col timore che tutto potesse spezzarsi e di nuovo
ferirla.
Eppure, non l’aveva allontanato, quando l’aveva
cercata più a fondo.
Labbra. Lingua.
Il battito che accelerava. Le dita serrate.
“Voglio leccarti…” le disse, con voce roca.
L’aveva sollevata, tra le braccia, strappandole un
sorriso sorpreso, dopo, nell’urgenza di rifugiarsi in casa.
Il letto freddo.
Ansimante, Oscar, si era lasciata distendere e, ora,
lo sentiva, caldo, su di sé.
L’aveva fatta venire, prima.
Adesso indugiava sui suoi seni. Le sue mani, le sue
labbra, premevano, mordevano. Li cercavano con avidità, in movimenti che la
inebriavano, insistenti, ancora e ancora, a lungo, indugiando, fino a
quando, senza più riuscire a resistere, come in un orgasmo, sentì di
impazzire, tra le labbra di lui, che l’assaporava e, infine, giaceva, con la
testa, i capelli sparsi, su di essi, raccolti nelle sue mani.
Quanto lo aveva desiderato. Quanto a lungo. Le sue
labbra. La sua lingua. Cercarla. Smarrirsi in lei. Senza riuscire a
staccarsene. Facendola gemere. Inarcare. Contrarre, lasciandola svuotata,
senza fiato.
E, dopo, senza lasciarla riprendere, quando lo aveva
implorato di fermarsi, insistere, invece.
“Lasciami fare”, le aveva sussurrato, fino a far
erompere qualcosa di sconosciuto, immenso, quasi annientante. Un piacere
così diverso e forte, che quasi mai aveva provato prima, così travolgente
anche per lui.
Da quanto non
lo facciamo… non avrebbe saputo rispondersi.
Furono ore, giorni a riprendersi. Recuperare.
Riannodare.
Furono giorni soltanto loro. Giorni che, in fondo,
non avevano mai potuto condividere. Fare la pace era una impresa che
richiedeva attenzione, dedizione e affetto.
André cercava di non pensare a Daniel. Oscar lo
sapeva, ma non aveva voglia di parlarne. aveva bisogno di tempo per se
stessa. E aveva bisogno di lui. Di saperlo suo, che la abbracciasse, che la
facesse sentire amata. Desiderata. Lo sapeva, ma aveva bisogno di conferme,
in quel momento di debolezza, in cui sentiva di essere stata forzata,
diretta, pressata, in una situazione, in una direzione che, ancora, faticava
ad accettare. Aveva bisogno di averlo accanto. Forse mai, come in quel
momento, stava scoprendo le carte, con lui. Perfino con se stessa.
Oscar aveva sempre avuto molto pudore. Anche
nell’amore, pur provando un piacere indicibile, non si era mai espressa, di
fronte a lui, in modi eccessivi, né, spesso, aveva osato cose che, invece,
l’avrebbero eccitata maggiormente e che faceva, quando provava piacere da
sé.
Stavolta, però, fece qualcosa di sorprendente, che
eccitò lui in maniera folle.
Mentre lui la toccava, iniziò a saggiarsi,
carezzarsi, come non aveva mai osato fare con lui. In gesti ora delicati,
ora più insistenti, indugiò sui seni, fino ad ansimare, gemere. Lui,
inizialmente esterrefatto, quasi intimidito, lo trovò incredibilmente
eccitante.
Le dita di lei, sul ventre, carezzavano la pelle, le
anche, mentre lui sentiva il respiro farsi più serrato, il desiderio sempre
più doloroso. Pressante. Oscar, inarcata, coi seni bagnati dalle labbra di
lui, si sfiorava, premeva.
Si era sempre vergognata di portare di fronte a lui
questi altri gesti. Lo aveva sempre lasciato fare, al massimo
indirizzandolo. Ora, qualcosa era scattato. Era pazzesco e lui reagiva in
modo più intenso.
Quando le sue dita raggiunsero le labbra e quelle di
lui, la delicatezza e sapienza del suo tocco si fusero con quello più rude
di lui, che, nello sbalordimento, intensificò i gesti, e la sua eccitazione
fu al limite.
Sentirlo, poi, premere, duro, contro di lei. Sentirlo
solido, spingersi in lei, dentro, poi, fino in fondo. Assaporarlo, mentre,
in movimenti prima impacciati, quasi non ricordasse come fare o avesse paura
di ferirla, si muoveva. Infine, ritrovare il gesto, il contatto. La
consuetudine del darle piacere. Senza remore. Prima, delicato. Poi, con
l’impeto, con l’ardore che riconosceva.
Aver trovato il coraggio di toccarsi, di fronte a
lui, la faceva sentire forte. Come, in qualche modo, potesse avere un potere
nuovo su di lui. Senza rendersi conto di quanto ne avesse, anche senza
questo. Non si rendeva conto di cosa fosse per lui. Di cosa lui fosse
disposto a fare. Di quanto, in modo totalizzante e assoluto, lui potesse
amarla. Aveva avuto bisogno di qualcosa oltre.
Quando l’aveva avuto, l’aveva serrato, allora.
Assecondato. Lentamente, prima. Quasi in silenzio. Ancora ferita. Perché è
difficile cancellare il dolore. Come senza forza, ma era un inizio. Era
dargli una possibilità. Nel silenzio. Nella tristezza.
Per tutte le volte che, nella vita, l’aveva
desiderato, e, dopo, avrebbe voluto non averlo mai fatto. Per ogni
pentimento. E ogni gesto di dolore. E di vendetta.
Per quanto l’ha amato e ora odiato e poi amato.
Ancora.
Prendendoselo tutto. Senza che le bastasse.
Le dita, febbrili, intrecciate ai capelli.
E quanti spasmi e respiri tagliati.
E non averne abbastanza, le gambe allacciate dietro
la sua schiena.
È stato così, che gliel’ha detto.
Che non può smettere di amarlo.
Che non ha scampo.
E che ha una paura fottuta.
E vorrebbe tanto piangere.
Piangere.
E invece viene. E ancora, anche se non vorrebbe
dargli questa soddisfazione. Stretta a lui.
Senza più difese.
Mentre lui le appartiene, le si dona, tutto,
infinito.
Restando in lei. Ancora. Ed ancora.
Facendola sentire potente, per tutta quella passione
che aveva risvegliato in lui. Che le si era dato con ardore.
“Quanta passione, ehi…” aveva commentato, ed erano
state le sue prime parole, dopo gemiti di piacere e silenzi di tristezze
improvvise.
Lui ansimava, ancora in lei, nelle sue onde. Confuse
alle proprie.
Poteva sentirla pulsare. Lei lo percepiva
sciogliersi.
Dopo, l’ha cullata a piangere, abbracciata a lui,
quasi nascosta.
Sono rimasti lì, nascosti al mondo.
Un giorno dopo l’altro. La casa, bianca, e loro due,
soli. A riprendersi il tempo. Gli istanti.
Poteva accettarlo in quel limbo. In quella non-realtà
in cui viveva nascosta. Aveva bisogno di tempo per accettarsi. Lui doveva
capirlo. Stavolta doveva capirlo.
Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008, revisione autunno 2020, febbraio-marzo 2021, pubblicazione sul sito Little Corner 17 marzo 2021, XXI anniversario della nascita del Little Corner
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Laura Mail tolauralittlecorner@gmail.com