Author: Laura
Christine
Parte XXXVIII
Warning!!!
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
Un’altra giornata, camminare. Correre. Allenarsi.
Non ancora stanca, ma ligia al piano quotidiano, si
rilassa. Si lascia andare. Seduta, poi distesa, abbagliata dal cielo, dalle
nuvole nell’immensità. C’è una luce che pare buio, in fondo, tanto esiste
lontano. E, a volte, il respiro quasi si ferma, in gola. Per l’emozione. O
l’angoscia.
Ed è allora che le sensazioni tornano ad assalirla. E
non serve la spada, al suo fianco. Non serve quello che scandisce la sua
routine, ogni giorno.
Non serve a niente, perché c’è lui, dentro di lei.
Non serve a niente.
Si sente inchiodata. Crocifissa. Incastrata.
Non osa toccarsi, né guardarsi.
Come ha fatto, si domanda, sua madre a sopportarlo
per ognuna di loro? Doveva amare davvero molto suo padre. Ed essere
immensamente votata al sacrificio. O essere cresciuta senza avere altre
prospettive di realizzazione personale. O desiderare e amare molto loro
figlie.
Era stata fortunata ad avere un’educazione maschile.
Era stata davvero fortunata, se quello era il ruolo delle donne… e lei aveva
avuto così tanto di più e, in fondo, anche possibilità di scegliere chi
amare. E la fortuna di trovarlo.
In fondo, la sua era stata una vita più fortunata…
Resta lì, distesa, a respirare piano. a domandarsi
come sia finita in quel casino. La rabbia infinita, perché rivuole il suo
corpo com’era. Non vuole quella cosa che le cresce dentro e la riempie. Non
vuole guardarsi, non le vene azzurre dei seni tesi e troppo sensibili, che
sente contro la stoffa e quasi si eccita. Non la pelle, candida, che rifiuta
di sfiorarsi con la mano. Eppure è lì. Rivuole se stessa.
Si scopre a pensare che forse quella se stessa
tornerà.
Ci vuole un po’ di pazienza.
Darsi tempo.
Perdonarsi, per quella follia, si dice.
Non giudicarsi sempre.
Perché quella non le era sembrata del tutto una
follia, nel suo amore, nel loro amore. Perché c’era anche lei, coinvolta,
nell’averlo desiderato forse no, ma, in fondo, compreso, lasciato desiderare
e messo in atto.
Forse, la cosa peggiore era che sentiva di aver
tradito se stessa. Non era André. Forse era questo.
Se fosse stata una cosa imposta, se ne sarebbe
liberata. Non aveva dubbi.
Ma era una cosa loro. E non poteva tradire né loro
due, né lui. Per quanto lui avesse tradito lei. La sua essenza più pura. E,
prima, con Christine, il loro essere due, soltanto loro due, quel rapporto
che era sempre esistito tra loro e che lui, prima, aveva vulnerato con una
dichiarazione intempestiva, poi, allontanandosi da lei.
Eppure, ora…
Ecco, la situazione era lì. Quella era la realtà.
Invece di giudicare se stessa in un momento in cui l’aveva pensata
diversamente da tutta una vita, forse doveva semplicemente perdonarsi,
andare avanti.
Forse era quello.
Respira piano.
E, dopo tanto, ripensa a lei. L’altra. A quei
pomeriggi in cui l’aveva vista, anche lei – anche, che orrendo, impensabile,
inconcepibile paragone! – , inchiodata, frustrata, incapace di allontanarsi
da lui e da quella vita in cui lui l’aveva costretta con la dolcezza e
l’inganno. E, allora, sente di capirla. Come se lui, in qualche modo, sia
riuscito a condannarle, fotterle entrambe.[1]
Si alza, in un modo diverso da come avrebbe fatto
prima. Movimenti diversi.
Raccoglie le sue cose, dopo gli allenamenti.
Cercando rifugio a casa.
Sola, nella sua stanza, lentamente si scopre.
Nuda, sente l’aria sfiorarla. Si siede sul letto.
Sente le lenzuola. Il proprio respiro, timido.
Si sfiora. Lentamente. Con imbarazzo. I seni
reagiscono. Un respiro più profondo. La mano scende. Non vorrebbe, ma
scivola in un brivido. Indugia. Un gemito. Una leggera pressione.
Sente la linea del suo corpo. Sente sua figlia. Sa
che è una bambina.
Si ferma, stranita per quell’idea così netta.
Un’altra delusione per suo padre, ironizza.
Chissà che ne dirà, lui…
Lui…
Si intenerisce, al pensiero.
Forse, André sarebbe contento.
Lui…
Quanto vorrebbe che la sfiorasse. La prendesse.
Lui…
Poi, s’inarca, lenta, toccandosi.
I seni reagiscono.
La linea del ventre.
Si sfiora, tra le gambe.
Lentamente.
Piano.
Piano.
Ne avrebbe voglia. Ora ne avrebbe voglia.
Affonda di più le dita.
Si incurva.
Poi, lentamente, si solleva sui gomiti, si ritrova
nel vecchio specchio, di fronte al letto.
È lei, quel corpo candido, bello.
È lei che, ora, schiude le gambe, rivelandosi, mentre
le dita scivolano, scorrono, toccano.
Si ferma un attimo.
È lei.
Possibile?
Così inconsapevolmente bella?
Possibile che si trovi bella, così, anche un po’
cambiata?
È davvero lei, quella?
Quasi non pensa più, mentre le mani scorrono, urgono,
e le dita, febbrili, sapienti, risolvono, e dove non arrivano, pensa la
fantasia, la mente, e finalmente, finalmente può staccare, e prendersi se
stessa, e venire, venire, inondandosi di piacere, a lungo, e poi ancora.
Poi, resta lì.
Sola.
A considerarsi, in quello specchio.
Alzati,
guardati, cristo!
Si siede, le braccia a circondare le ginocchia. I
capelli che spiovono, mentre segue il ritmo del respiro, lento, che le muove
il seno, il ventre.
Non voglio…
Eppure, si osserva. Si osserva mentre lascia il
letto, mentre si alza. Mentre cammina verso il riflesso di sé.
Si osserva.
È davvero lei? Così bella… Gli occhi blu, le guance
leggermente tinte di un pesca vivo, la carnagione perlacea.
Sono davvero sue, quelle spalle definite? Quel collo
eburneo?
Quei seni appena un po’ più pieni, eretti, che
avevano fatto impazzire André. E Alain, anche…
Poi, però, bisogna affrontare la realtà. Si osserva,
più sotto. Da davanti. Ok.
Poi, tragedia, di lato.
Ma non è che sia poi tutta questa tragedia,
considerati i mesi…
Possibile?
Guardati meglio…
…
Ok.
Forse, forse davvero ce la può fare…
È là, sulla spiaggia. Dove l’ha spedito Alain.
Quanto tempo è
passato.
Quante volte
sei fuggita?[2]
Dimagrito. Teso.
La barba di giorni, i capelli scompigliati dal vento.
È bello.
È davvero bello.
Fanculo.
Vaffanculo.
È stato malissimo a non trovarla.
Per giorni.
A sentirsi solo con la sua assenza. Con i suoi errori
e il rancore di lei. A cercare le ragioni e non trovarle, perché quelle che
lui può immaginare, sa che non c’entrano molto. Se Christine non ci fosse
stata – ma c’era –. Se Oscar non sentisse, in qualche oscuro modo, un
paragone che non esiste. Ma Oscar ha sedato talmente a lungo i suoi
sentimenti, che ora esplodono e investono anche i ricordi.
Non crede che lei abbia accettato perché non voleva
essere da meno dell’altra. Non è il tipo. Era davvero convinta. Ma, forse,
semplicemente, ha sbagliato lui ad insistere. Forse non era il momento. O
non era proprio il caso.
Eppure, per l’ennesima volta, sembra aver distrutto
tutto tra loro. Aver sbagliato i tempi.
Ogni attimo è stato tremendo.
Lui non può vivere senza di lei.
La casa che sembra vuota. A fingere con Daniel, che
invece ha capito tutto.
Mortificato, si è interrogato sul perché, su di lei.
E su se stesso. Perché ha rovinato tutto un’altra volta e ora Oscar lo odia.
Lui, che l’aveva sempre voluta libera. E ora l’ha inchiodata. Messa incinta.
Se gli fosse bastato sapere che stava bene, non
avrebbe mosso quel passo.
Verso quella figura sola.
Già, nonostante lui, Oscar è sola, riflette.
E non gli basta sapere come sta. La rivuole con sé. È
convinto che non possa finire così. Come quando ha capito di essere
innamorato di lei e che non ci sarebbe stata altra soluzione.
Se solo si potesse tornare indietro… ma non sa se non
lo rifarebbe. Qualcosa dentro, ostinato, continua a suggerirgli che non è
stato sbagliato.
La sabbia stride sotto le scarpe.
Le gambe gli sembrano pesantissime.
Si fa ombra con la mano. Non sembra cambiata.
Un passo ancora.
Forse sarebbe stato meglio tornare indietro.
Ma non possono continuare così.
“Oscar…”
Un tuffo al cuore, quando si scopre a lui, e la
speranza mortificata da quello sguardo di fine. Da lei che si copre col
mantello.
Per tutto il tempo che è passato. Per come è
cambiata. Per la vergogna che prova, a mostrarsi, nonostante il test allo
specchio. Lei, un soldato. Lei, Oscar. Diversa da prima. Si copre per
nascondersi.
Lo odia. L’ha odiato. Con quella sua voce dolce e
scoperta. Ha odiato il suo amarla. Il suo volerla. Il suo cercarla, sincero,
senza compromessi. Una persona lineare. Era fuggita da tutto questo, ma non
era servito. Era incinta, per colpa sua. E lui era lì, per lei.
Vorrebbe scomparire.
Dimenticare tutto, anche il loro amore. Almeno
abbracciami, stronzo maledetto! Almeno dimmelo, che mi ami! Che mi vuoi!
Convincimi!
Dimenticare quelle notti in cui glielo aveva
domandato, sempre di più. “Almeno, convincimi”, lo aveva implorato. Gli
abbracci, l’ardore. Lui che scorreva in lei che lo accoglieva, impazzita.
Desiderandolo. Coinvolta in quella folle follia.
Come fosse un gioco, invece era la sua vita.
Vorrebbe non voltarsi. Non essersi voltata.
L’ha fatto, invece.
Vergognandosi, quasi curva, a nascondersi, perché,
nonostante lo specchio, le sembra che lui possa giudicarla, pensare che seno
e ventre siano cresciuti a dismisura, e detesta che lui possa o l’abbia
notato. Magari se ne sarebbe intenerito, valli a capire gli uomini.
Si è girata.
“Che cosa vuoi…” con voce sorda.
Limpido, triste, le ha teso una mano.
“Te…”
Allora, mentre la rabbia, dentro la bruciava, si è
girata, i pugni serrati, dandogli le spalle.
Se dice
qualcosa, io…
La mano di lui, che si è accostato. Che sfiora appena
la sua. La cerca.
“… Parla…”
Allora, è esplosa.
L’ha preso per le braccia. Scosso. Colpito. Con tutta
la disperazione del non trovare una via. Del trovarlo sordo. E lui a non
capire. Incredulo. Perché anche questo era stato uno sbaglio.
Gli ha urlato contro che lui non l’avrebbe mai
capita, e che non l’avrebbe perdonato.
L’aveva tenuto lontano da sé anche nell’amore.
“è
tutta colpa tua!”, gli ha gridato. “Guarda cos’hai fatto!” E pugni, e mani,
odio, lacrime.
È rimasto in silenzio, di fronte a lei.
Poi, l’ha presa per i polsi. “Perdonami, Oscar.” A
voce bassa.
Mentre lo sguardo brillava di lacrime. Tutto danzava
confuso, davanti a lui. E vedeva così poco.
L’ha abbracciata.
“Se potessi, vorrei tornare indietro e non farti mai
più una cosa come questa…”
Come a proteggerla.
Avrebbe voluto ucciderlo.
Le mani nei capelli. Sulla sua nuca. Tenerla stretta
a sé.
Calmarla.
“Ti odio!”
Ti abbraccio,
sembra averle risposto.
Mentre le accarezza piano i capelli. La schiena.
Ecco, ti
abbraccio.
“Ti odio!!!”
Cosa è stato di loro due? Di quel sentimento che li
univa? Dove ha potuto smarrirsi?
È disperata.
Poi, nello sguardo di lui, legge l’amore, fermo,
saldo, che, ancora una volta, la vince.
Poi, lentamente, la porta con sé, per condurla in
camera.
Chiudersi la porta alle spalle.
“Adesso parliamo.”
Rimanere ore a parlare. O nei silenzi.
Forse, neppure basta.
Seduti a terra, sentendo il freddo attraverso la
stoffa, come quando erano ragazzi e parlare, tenendosi la mano, con la testa
sulla spalla dell’altro, era trasgredire al percorso che i grandi avevano
destinato loro. E raccontarsi i sogni. Senza più neppure, ora, osare cercare
la mano e saperla stringere. Poi, cercandola. Tenendola. Le dita
intrecciate.
Ora è strano ascoltarsi, in quelle voci. Sono basse.
E non perché si confessino, ma per vergogna. E dolore.
Sono stanchi, tutti e due. Le lacrime incrinano le
parole.
Sfiniti. Incapaci di incontrarsi ancora. Lei, l’odio
annidato nella delusione e il rancore. Lui, triste, infinitamente.
L’una a maturare la consapevolezza che è finita. Che
si amano ma è meglio stiano separati. L’altro con le mille ragioni di
sempre, a trattenerla. A impedirle di volare. O smarrirsi, non lo sa.
Che l’amore sia legare, o lasciare liberi.
Desiderare. O rinunciare.
Mentre le dita di lui cercano quelle di lei, come in
un gioco.
E sente una stretta al cuore, al contatto con la
pelle. A riconoscere il tocco.
L’amore è qualcosa che può distruggere, se non lo si
sa crescere. Se non si trova il modo – e non c’è un modo universale –, per
non lasciarlo perduto, smarrito, nello scorrere dei giorni. Di ogni singola
ora. Di ogni attimo, che si è desiderato trascorrere insieme, e invece
uccide, storpia, spazza, e, per bene che vada, si vorrebbe solo dimenticare.
Eppure, non era questo l’amore, la vita che avevano
desiderato. Non era questa.
E così, restano soli, le dita intrecciate,
nell’alcova della notte. Nascosti. Vinti.
Ognuno perso all’altro.[3]
Ma lui non vuole perderla.
È intenzionato a riaverla.
Forse è stato l’ennesimo errore. L’ennesimo tempo
sbagliato.
Forse avrebbe dovuto coccolarla, riprendere la
quotidianità, cercare di recuperare la sua fiducia. Invece, vuole lei.
starle così vicino, così accanto. Come un bisogno di rassicurarsi. Aveva
bisogno di lei. Del suo corpo, della sua voce, della sua anima. Tutto. L’ha
spogliata, lentamente.
Sente il respiro su di sé.
Come se non potesse vedere, le ha percorso il viso,
poi il corpo con le mani. Le dita. Quando se ne è resa conto, un brivido
l’ha percorsa. André, ma tu… tu vedi
ancora… si è domandata. Cosa
riesci a vedere?
Mentre lui la cerca, lentamente. Come a ritrovarla.
Le ha liberato i capezzoli dai lacci della camicia.
Emozionato. A circondarli con le dita. Rosa. Avorio. Sentirli duri contro i
palmi.
Lei ha resistito. Ancora ferita. Ora preoccupata.
Eppure.
Li serra. I seni, lentamente, poi, con più pressione.
I capezzoli, tesi.
Il ritmo del respiro farsi più intenso.
La schiena che le si è inarcata. Un gemito pigro. Un
movimento quasi impercettibile.
Ma una reazione.
Non un rifiuto.
Le labbra sulla sua pelle, a fermare ogni attimo
nella mente nel labile confine tra il desiderio e la ragione. Come segnare
un ritorno. Ritrovare un ricordo. Qualcosa di loro, insieme. Voler
ricordare. Non voler dimenticare com’era stato, guardarla, riconoscerla,
farlo con lei, dopo averla cercata – ma non era sicuro di averla ritrovata
–. E dopo il dolore.
Lei a rimanere passiva. Lo sguardo lontano. Quasi non
respira. Ogni tanto asseconda i suoi movimenti.
Sembra triste.
Vinta. O, forse, era il suo stato d’animo degli
ultimi tempi.
Come allontanata da se stessa.
A lui, sembra bellissima.
Avrebbe voluto dirglielo.
Forse, allora, lei avrebbe capito.
Ma rimase in silenzio. Solo le mani, a carezzarlo.
Spingerlo. Sentirlo.
Poi, lui, improvvisamente, fermandosi, mentre le era
dentro. Uscendo. Lasciandole, insoddisfatta, sulla pelle il ricordo delle
sue labbra, calde, e l’assenza.
In silenzio, si allontana.
Avrebbe voluto prenderle una mano, accovacciarsi
accanto a lei. Accarezzarla, cullarla. Poi, abbandonarsi.
Invece, doveva passare per qualcosa di diverso,
affrontare la sua punizione. La sua rabbia. Era giusto così. Cercarla, se
aveva fortuna, ritrovarla, in qualche modo, chiedere scusa. Farle capire che
era amore, almeno, e non possesso.
Nel piccolo soggiorno, si siede, esausto, sul divano.
È freddo.
Non si è reso conto, poi, del tempo passato, ma,
nella notte, si è sorpreso dei passi, e della coperta che ora lo scalda.
Non osa più sperare.
Poi, dita gelide a sfiorargli una guancia, la mano.
Almeno, un piccolo gesto.
Forse, si poteva ricominciare.
Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008, revisione febbraio 2018, da febbraio a giugno 2020, pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2020
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Laura Mail tolauralittlecorner@gmail.com