Christine

Parte XXXVII

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

 

 

 

Le sembra di impazzire.

Quanto dura un sogno? Una tregua che si riesce a ricavare dalla realtà?

Domandarselo per ognuna delle volte, degli spazi di tempo, quando cerca di sfuggire. Di dimenticare. Di annullarsi la mente.

Fino a quando il corpo non la tradirà di nuovo. E le mostrerà una Oscar diversa. Non più se stessa. Come farà, allora, a non tradire se stessa? Come potrà fuggire, inchiodata?

Ha paura.

Ha paura.

Anche se in certi momenti si sente orgogliosamente bella.

Lui la desidera. E anche questo la fa sentire bene.

La porta è sprangata. Nessuno, neanche Daniel, può entrare. È stata sprangata ogni volta. Ha bisogno di lui. Di lui solo. Per cercare di non distruggere tutto. Di ritrovarlo. Di ritrovare quella follia d’amore che avevano fatto insieme, di ritrovarne il senso.

Di capirlo.

Di non sentirsi abbandonata.

Trascurata.

Dimenticata.

Di ricordare a lui che l’ha voluta e poi presa.

Gli aveva imposto di rimanere solo loro due. Di chiudere le porte. Ogni diversa porta. Perché si rende conto che, nei ricordi di quell’ultimo pomeriggio, in cui ha resistito, potrebbe esserci una resa, e lei sarebbe trascinata, sarebbe finita, sarebbero finiti loro due. E questo non lo vuole.

Non vuole cedere ad Alain.

Le basta il ricordo. Di come la guardava. Di quello che le ha detto. Di come si è sentita. Giusto quel raggio che si assottigliava e che tagliava la scrivania. Quella volta. E la sua pelle. Pulviscolo. Una striscia prima inondata di luce. Più calda. Ora, però, è fredda. È quasi notte.

 

Su quante notti come quella ha chiuso gli occhi?

Combattendo col ricordo, con le idee malvagie, vendicative.

 

Li chiude di nuovo, gli occhi, per non vedersi. Il suo corpo, come le sembra cambiato, e quello che sta facendo. In fondo, la porta è chiusa. Basta non fare casino… te lo meriteresti, André, questo e altro! Ti odio! E non voglio pensare che ti peggiora la vista. Non voglio più pensare che hai bisogno di me. non voglio sentirmi in colpa! Avevi bisogno di me, non di un figlio! E ti odio per avermi convinto.

Gli pianta in faccia due occhi disperati, sfolgoranti. Poi, distoglie lo sguardo.

“Che cosa ti succede, Oscar?”

Continua a guardarlo. Con amore, con odio.

“Chiudi a chiave”.

Non lo invita, e non si sottrae, quando lo sente. La cerca. Ogni volta. Riconosce i capelli su di sé, il mento. Il respiro.

La sente bagnata. La vuole. Subito.

La schiude quasi di forza e la fa godere, subito.

 

La rivuole. È sua. Mai come ora.

Ama quella sua irruenza.

La stessa che ama Alain.

Ma non intende lasciargliela.

Non vuole perderla.

Non vuole.

 

Il legno, i fogli sparsi.

La stanza rovesciata e le imposte accostate.

Tutto il contrario di sempre.

I capelli, e la stoffa.

Le dita che cercano.

Il respiro.

Le ciglia chiuse sulla pelle. Le labbra attorno ai suoi seni.

“Ancora…” ordina.

Mentre s’inarca. Mentre gli sussurra, roca: “Leccami…”

Mentre lo accoglie. Accoglie i suoi movimenti, poi le sue ondate quasi con furia, e disperazione. Per una vendetta negata. Per quello che si è negata. Desiderare Alain per vendetta. Pensare a una vita diversa. Deve cancellarlo. Cancellarlo e ritrovare lui.

Lui che la tiene per le mani, e la bacia. E la prende.

Si tende, sotto di lui. è sempre stato bravo, ricorda. Eppure… no… non vuole pensare ad Alain. Non deve più neanche pensare ad André. Neppure a cosa le ha fatto. Vuole dimenticare tutto.

Vuole vivere, cercare di vivere. Cercare di accettare e accettarsi. Ritrovare loro due.

Era bravo, Alain, nel modo di sfiorarla, di entrare, ritrarsi, sapendo indovinare, toccare punti che la facevano impazzire.

Non deve pensarci. Non deve pensarci più.

Eppure, forse anche lui ricorda ciò che le piaceva. Forse anche lui non l’ha dimenticata. E questo non sa se le fa piacere o la distrugge. In un brivido terribile.

Pensare a quello che non ha vissuto. E che non sarà.

Basta! Basta! Basta!

Mentre lo sente in sé, e gli carezza il viso tra le mani, e lo trova bellissimo.

E trova assurdo tutto. Aver passato il tempo a desiderarlo. Lui, e una vita con lui, e, ora, ribellarsi, quasi sfuggire.

 

È silenzio. E ombra.

Poi, buio.

Ogni volta. Dopo, è il buio. Ha il buio nel cuore.

Si domanda se lui se ne accorga. Che con la mente vaga, mentre è con lui. Che si vendica di quel figlio, che ancora neanche c’è, ma cresce e distrugge lei, loro due. Il ricordo della passione. La rabbia del tradimento mentale. Li senti, André? Maledetto, maledetto, maledetto, maledetto… tu che hai tradito i miei sogni…

È come una realtà diversa. Divisa e separata. Una stanza stagna. Una qualsiasi, casa o lavoro. Solo sguardi e gesti. E, quando viene, serrandolo stretto, le dita di lui sulle labbra, perché non gridi. E le unghie di lei nei polsi, per il piacere e per soffocare la voce. Poi, restare in lei ad assaporare ogni attimo. Vibrazione. Respiro. Movimento. Calore. Cercarla di nuovo fino in fondo. Come avere una sete infinita e tentare di placarla. E finire.

 

È rimasta lì per un tempo che le è parso infinito. In realtà sono stati pochi minuti.

Si stacca da lui in silenzio.

“Sei così bella”, la sfiora in una carezza, roco.

Si solleva sui gomiti, i capelli che le spiovono sulla pelle. Lunghi. La nascondono. Recupera i vestiti. In silenzio.

Lui non vorrebbe lasciarla andare.

“Ti voglio ancora…”

“Dobbiamo andare…”

Le passa le dita tra i capelli, sistemandoli. “Sei spettinata”, dice, disarmante. Le pare quando erano ragazzini, e le passava timido una mano tra i capelli.

Sente una stretta al cuore.

Le si riempiono gli occhi di lacrime.

Non pensava si potesse ritrovare quella normalità, dopo tanto tempo. Invece, era stato naturale. Un po’ triste.

Per quello che ogni volta si perde.

Per quello che si è quasi costretti a fare per sopravvivere.

Anche lei a cercare un appiglio. È troppo difficile, senza: non riesce ad affrontare quel tradimento a se stessa, quella violenza sul suo corpo. Lui, a giocare il ruolo che era stato di Alain.

Ha sostenuto il suo sguardo mentre non staccava gli occhi da lei. Ha scosso la testa, come a domandarsi cos’avesse da guardare.

“Sei bellissima…”

In quella stanza.

“Dici davvero?” Disarmante.

A pensare di non voler vivere con qualcuno diverso da lui. Di non voler imparare altre abitudini. Altre convivenze. Mediazioni. Risvegli.

Nonostante tutto, vuole André.

Le passa una mano lungo il viso. Indugia a sentire i suoi lineamenti. Come un cieco. “Smettila di avere paura… ti prego…”

“…”

Le viene da piangere. Perché l’ha capita.

 

Così non può continuare.

Deve andare via.

Allontanarsi.

 

Se André non l’avesse tradita. Se gli fosse bastata.

Se non le avesse fatto sognare di una piccola lei, nata da loro. Che stronzata, poi!

Lo odiava. Lo odiava per quel suo amore espansivo e possessivo. Che non le lasciava scampo e scelta.

Vaffanculo.

 

In fondo, vendicarsi odiando aiuta a non pensare. A spostare il problema. Che, però, resta.

 

Si era massaggiata la schiena, più per allentare la tensione. “Sono un po’ dolorante”, si era giustificata. Ma non era vero. “In fondo non sono più abituata a queste… uhm… sistemazioni.” Un’occhiata ai fogli sgualciti sulla scrivania dissacrata. Le viene da ridere. Si sente in colpa.

Ripensa a quel pomeriggio.

Quando Alain le aveva detto “Ti voglio”. Nel silenzio. Mentre le lasciava andare le dita. Giocava coi suoi capelli.

Ma gli aveva detto di no.

Perché, in fondo, aveva solo bisogno di sesso. Di conforto. Di non sentirsi così sola. Era possibile che proprio la situazione con André le causasse di sentirsi così sola? Era davvero possibile?

“No…” Ne avrei voglia anch’io… e non solo per vendetta… Poi si era girata a guardarlo. “Ti ho lasciato perché mi stavo innamorando di te.”

“…”

Erano rimasti in silenzio.

“Stai con qualcuna adesso?”

Era passato troppo in fretta il tempo.

Avrebbe voluto che lui non avesse mai varcato quella soglia. Ma anche che non ne fosse uscito mai.

È strano vivere ogni attimo come fosse l’ultimo. Cercare di dimenticare. Ricordare. Annullare.

L’aveva tenuta contro di sé, di schiena, e la accarezzava. Giocando a scendere più in basso. A risalire.

“Mi piaci, così…” aveva detto, piano.

La testa china su di lei, il calore della sua pelle vicina all’orecchio, la barba.

Come, così…

“Che sei incinta…”

Era trasalita.

“Sei più bella di sempre…” le aveva confessato, piano, sussurrandole tra i capelli.

“Ti scoperei tutto il tempo…”

Ma… ma?! Ma sei pazzo? Siete pazzi tutti, voi maschi?!

Ma lui aveva continuato a carezzarla.

Stranamente lo aveva lasciato fare. Prima irrigidita, poi abbandonata contro di lui. Forse perché non si aspettava un gesto di tenerezza proprio da lui e quella naturalezza quasi le fa accettare la sua situazione.

L’aveva fatta sentire apprezzata. Doveva ricondurre la cosa nei binari usuali.

“Con chi stai… adesso…”

“Più o meno…” glissa, “penso sempre alla stessa…” Tu, comandante…

Sbarra gli occhi.

“Intendo, a parte…”

“No, tante volte, una cosa così, per non stare soli…”

Se la ride. “Almeno sei tanto onesto da ammetterlo.”

Si è sciolta dall’abbraccio.

Sembrava più triste e sola che mai.

“Vai… non tornare…”[1]

 

è rimasta per ore nella vasca.

Quando è rientrato, si è domandata se abbia capito qualcosa. Se non voglia vedere. Il disagio, la tristezza. Forse, spera si risolvano.

Le ha fatto pena.

 

Non è facile.

Per nessuno.

Ogni volta che si avvicina a quella casa, che è stata casa sua, e che ora le pare una prigione, sta malissimo.

Voglio andarmene…

Rimugina il modo di dirlo a lui, spera che comprenda o se no al diavolo.

Devono separarsi. Ognuno per la sua strada. Ognuno a riprendersi la sua vita.

Almeno, allontanarsi per un po’. Prendere le distanze. Per ritrovarsi.

Non si rende conto che, paradossalmente, Christine, per ragioni opposte, era, in una situazione analoga, arrivata alle sue stesse conclusioni. Avrebbe voluto lasciarlo. Solo che ne avrebbe avute tutte le ragioni. Lei, forse, no. Ribelle a lui, alle idee tradizionali, alle sue stesse decisioni.

In fondo, lei è già sola. Sola ad affrontare una situazione che le appare insostenibile e che le sembra abbia a che fare con la sua libertà. Sola a difendere se stessa dal coinvolgimento di tutti gli altri, tutti i buoni, i puri. Gli ingenui. A sentirsi una bestia. Insensibile.

Alla fine, se formalizzano questo stato d’animo, cosa cambia? Se lei resta comunque sola a ricoprire il ruolo della stronza, a riempire i vuoti di un dolore.

 

Ad urlare a Daniel, che ha capito tutto e, festante, le si strofina contro, e vuole vedere la pancia. Era stato dopo l’ennesima di queste scene, perché dopo i rifiuti ed i no erano arrivate le urla, quando si era resa conto di come aveva mortificato il bambino, e lacrime di rabbia e sconfitta le rigavano le guance, che aveva capito che non era in grado di gestire la situazione. Non tutta quella situazione. Se fossero stati loro due soli, forse… forse…

Avrebbe voluto urlargli che la colpa era sua e di sua madre. Tutta colpa loro. Che erano entrati nella sua vita. E l’avevano rimessa in gioco. Ma era riuscita a trattenersi. Era fuggita. In fondo, era l’unica cosa che sapeva fare.

Dopo esser corsa via lontano, a perdifiato, come se così potesse dimenticare tutto. E si era lanciata nell’erba, a cercare un conforto che non era arrivato. E lui, il grumo, era ancora lì. Non era svanito.

 

Una mattina, era andata via.

Non sapeva neppure lei cosa volesse, se fosse fuggire, annientarsi, sparire.

Chiuderla e dimenticare. Fuggire, anche da se stessa.

Ma, soprattutto, via da lui.

Lontano da quegli ingranaggi. Lui, il figlio, tutti a fare pressione su di lei.

E lei incastrata.

 

Aveva bisogno di pace. Di riprendersi la sua vita.

Sola, in quella casa spoglia, ai confini del mare.

Mare e nuvole. Vento.

Se solo avesse potuto scomparire…

Perché l’aveva accettato? Perché?

Gli aveva detto di no così tante volte, che differenza avrebbe fatto, una in più?

Eppure, ricorda quei momenti, come si era sentita… era bello pensarlo. Era stato bello. Aveva detto sì all’idea, ma, forse, non era pronta a dirlo alla realtà…

Avrebbe voluto strapparsi dal cuore André e da dentro quella cosa. Ma, per quanto facesse – e avesse fatto –, cavalcare, correre, sfiancarsi, quella cosa non la lasciava. E le faceva paura anche vulnerarla. Sentiva di doverla proteggere, inconsciamente. Sembrava più forte di tutto. Maledetta. Perfida. Annidata. E il coraggio di decidere, non lo trovava.

Ogni giorno, in quella casa umida, quasi vuota, era stata lì, a domandarsi cosa sarebbe accaduto. Come avrebbe potuto affrontare le cose, d’ora in avanti. Non che fosse servito, macerarsi. Martoriarsi di domande. Ma se non altro era sola. E non era male. Non era affatto male.

Poi, aveva finito per non domandarsi più niente.

Solo vivere.

Con se stessa.

Essere lì.

Accettarsi.

In fondo, provava un senso di libertà, di nulla e di vuoto, come nei primi giorni nella sua casa.

Quella che poi era stata invasa.

Quella che doveva essere la sua conquista e il suo rifugio. Che non ci sarebbe stata senza Christine e come reazione a loro due.

Lo odiò, per averla coinvolta a cambiare la sua vita.

Lo odiò per averla scelta e amata. Per averla fatta sentire desiderata.

Per aver avuto l’egoismo di volere non solo lei, ma un figlio loro.

Per non essersi accontentato. Solo di lei. Solo. Di. Lei.

Lei, che non era stata abbastanza…

Lei non era mai abbastanza.

Non lo era stata per suo padre.

Non lo era stata neanche per lui.

 

Lo odiò, perché prima o poi – lo temeva, ma sarebbe stata delusa se avesse scoperto che non fosse stato così – sarebbe venuto a cercarla.

Perché?, si domandava. Perché ho accettato di farlo? Questa non sono io… non sono io! Non smetteva di correre, sulla sabbia, disperata, mentre il vento le scioglieva i capelli. Corse, corse fino a sfiancarsi. Fino a non avere più respiro. Le sembrò, per un attimo, di ritrovare se stessa. Corse. Poi si lasciò andare nella rena. Non riusciva più neppure a piangere.

Il vento aveva asciugato le lacrime.

 

Si impose di smettere quel rimuginare assurdo. Che la faceva solo star male. E invece, era venuta lì in cerca di pace.

 

Non ha fatto altro che camminare. Per ore e ore.

Poi, ore di esercizio.

Dopo, cavalcare. Nella speranza di mettere fine a tutto.

Ogni giorno.

Ogni settimana.

Si allena con la spada. Da sola, ma si allena.

Come riprendere la propria vita.

Si sente quasi meglio.

Ora si sente più in pace con se stessa.

Se solo potesse restare così, lontano da tutto, a curarsi il cuore.

Perché, lentamente, si sta accorgendo che, da sola, senza il continuo confronto con gli altri, che la rimandano alla immagine consueta di sé, a come loro la conoscono, è più facile. È più facile accettarsi.

 

 

Respira piano. Posa le stoviglie appena asciugate sul ripiano. È stanco, mentre si passa le mani sul viso. Ma, più di tutto, sente la mancanza di lei. Di lei, non dei sogni che aveva fatto.

Si rende conto di aver sbagliato. Vede entrambi i piani delle loro sensazioni, ed ora sa che non glielo avrebbe mai dovuto proporre. È andata, forse è davvero finita.

Daniel cerca di tenerlo impegnato con libri da leggergli e storie da raccontare, ma sa anche lui che le cose non vanno. Mortificato.

 

 

Restare stesa, abbandonata, su quella spiaggia, tra l’acqua e la sabbia, sola. Per sempre.



[1] 16 febbraio 2007 e aggiunte il 26 febbraio 2007. Revisione 2 febbraio 2015.

 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008, revisione febbraio 2018, pubblicazione sul sito Little Corner luglio 2019

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Continua

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