Christine

Parte XXXVI

Warning!!!

 

The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

 

Copyright:
The Copyright of Lady Oscar/Rose of Versailles belongs to R. Ikeda - Tms-k. All Rights Reserved Worldwide.
The Copyright to the fanfics, fanarts, essays, pictures and all original works belongs, in its entirety to each respective ff-fa author, as identified in each individual work. All Rights Reserved Worldwide.


Policy:
Any and all authors on this website have agreed to post their files on Little Corner and have granted their permission to the webmaster to edit such works as required by Little Corner's rules and policies. The author's express permission is in each case requested for use of any content, situations, characters, quotes, entire works/stories and files belonging to such author. We do not use files downloaded or copied from another website, as we respect the work and intellectual property of other webmasters and authors. Before using ANY of the content on this website, we require in all cases that you request prior written permission from us. If and when we have granted permission, you may add a link to our homepage or any other page as requested.
Additionally, solely upon prior written permission from us, you are also required to add a link to our disclaimers and another link to our email address.

The rules of copyright also apply and are enforced for the use of printed material containing works belonging to our authors, such as fanfics, fanarts, doujinshi or fanart calendars.

 

Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Era passata a prendere Daniel come in trance. Poche parole, meccaniche, scambiate con la nonna. Quasi non sentiva cosa le diceva lui. Ricorda che era festante, lei, che lo teneva per mano, spaventata, le dita fredde e le sue piccole, salde. Ne percepiva il calore.

Forse, sarebbe stato meglio, quella sera, rimanere soli loro due.

La vita la stava travolgendo.

Aveva urtato i piatti, in gesti imprecisi e nervosi, nel preparargli la tavola. Le mani gelate.

“Che ti succede?” si era preoccupato lui, tirandola per il braccio.

Aveva visto la sua espressione. Il suo affetto. Gli si era inginocchiata accanto. “Niente, amore, scusami…” L’aveva avvolto in un abbraccio. “Va tutto bene…”

 

Poi, all’improvviso, André l’aveva abbracciata. Forte. Nascondendo il viso nei suoi capelli. A lungo. Staccandosi quasi a fatica. Girandosi per nascondere gli occhi lucidi.

 

Sperò che la abbracciasse, quella notte. In cui rimaneva con gli occhi sbarrati, nuova, sconvolta. Impaurita.

 

 

Vedeva in lui gli abbracci, i gesti di tenerezza scoperta. Quasi lo odiava perché lei si sentiva come dilaniata, spaccata tra ciò che era abituata ad essere, e quella che sarebbe diventata… e quei gesti non sapeva come viverli. Aveva pensato di riuscirci, ora, alla prova dei fatti, non sapeva che fare.

L’aveva visto guardarla con tenerezza. Sorridere per niente. Felice. Come fosse davvero un inizio.

A lei sembrava una fine. Un abisso. Non sempre, ma spesso. A volte era euforica. Felice. Era una cosa che avevano deciso insieme, si diceva. Anche se lei, certo, c’era stata trascinata. Ma non poteva affermare che non fosse stata pianificata. Eppure, era talmente disorientata. Lo cercava con lo sguardo, si aspettava il suo sostegno. Lo odiava, quando lui non recepiva queste sue richieste di aiuto. Quando era sola, era come se barcollasse. Senza nessuno strumento accumulato negli anni per poter affrontare una cosa più grande di lei. Aveva solo André. Solo lui.

 

Per questo lo cercava, accostando il corpo al suo. Cercando il suo calore. Il suo conforto. Si sentiva perduta, sola. Voleva che lui l’abbracciasse. La rassicurasse. Le dicesse che le sarebbe stato vicino, senza lasciarla, senza abbandonarla a se stessa.

Aveva bisogno di lui. Per non perdersi. O, forse, per accettarsi di smarrirsi in quel modo.

Incrociava le dita alle sue, premendosi contro di lui. Guardandolo con un bisogno quasi disperato di amore.

Quasi sentendosi sola, se nell’abbraccio non sentiva abbastanza affetto. Fragile. In quel momento, emotivamente sentiva di essere fin troppo fragile. Ma non trovava altra cura.

 

A volte si era sorpresa a guardarsi, mentre lo facevano, scivolare su di lui, desiderandolo. Avvolgerlo di sé. Le linee appena più morbide. Per ora, poteva andare. In certi momenti, si sentiva bella. Più forte.

Forse occorreva solo pazienza. Sarebbe passato.

 

Altre volte, contando sulla propria magrezza, aveva considerato quanti effettivamente sarebbero stati i mesi più difficili, quelli in cui sarebbe stato impossibile nascondersi, a se stessa. Alla propria immagine di sé. Agli altri. Si era domandata quanto avrebbe resistito, come avrebbe fatto. Era spaventata.

 

Quando l’aveva presa, quella sera, i suoi movimenti erano intensi. Vivi. Era come si sentisse padrone della sua vita. O delle loro, si chiese? L’aveva odiato. Non voleva un padrone. Non voleva altri impegni. Rivoleva solo se stessa, com’era. L’aveva detestato. Confusa. Aggrappata alle sue ondate. Desiderandolo. Desiderando annullarsi in quel loro fare l’amore. Sperando di dimenticare tutto.

Non lo capiva, in fondo al cuore, lo condannava per non averla capita.

 

Senza riuscire a comprendere lui, che una vita sua non l’aveva posseduta mai; il suo bisogno di costruirsi un suo luogo, affetti suoi. Con lei. Scelta come compagna.

Le labbra sulle dita. Sui polsi. La richiamò, nell’amore, sentendola svagata. Voleva davvero condividere quei momenti con lei. Non era una prevaricazione, come lei pareva viverla. Era qualcosa tra loro due. Era bello.

“Sono felice…” le disse, guardandola intensamente.

Era bello, meraviglioso. Era qualcosa di ancestrale e di inspiegabile. Ma la spaventava.

Non è che non lo volesse, è che si sentiva male.

Avrebbe voluto solo sparire.

 

“Non dire niente, ancora…”

Si era girato a guardarla, dopo l’amore. Uno sguardo interrogativo.

“Neanche a Daniel…”

Si era chinato su di lei, il viso sul ventre. Anche lui si domandava quanto fosse grande, a quel punto. Era voluto, certo, eppure ancora faticava a crederci. “Perché”, le aveva chiesto, la voce sulla pelle. Giocando con le dita su di lei. Piccole carezze. Baci. Il respiro sulla sua pelle, che la faceva tremare.

“Per favore… non ho voglia di dare spiegazioni…” Una nota d’impazienza nella voce.

“Cosa c’è da spiegare…”

“Voglio solo un po’ di pace…”

L’aveva guardata, interrogativo. Si era sforzata di chiarire: “Un po’ di tempo per abituarmi all’idea…” Umiliante doverlo spiegare proprio a lui.

Lui era sembrato colpito. Rattristato per non essersene reso conto. Già… per lui era tutto più naturale.

“Hai ragione”, le venne incontro, in un sorriso. “Scusami. Se lo diciamo, soprattutto a lui, lo sapranno tutti immediatamente…”

Ma non era sicura che lui avesse compreso. Lui che, appagato, ma non sazio, le lasciava baci caldi sulla pelle e sembrava sulle nuvole. Le disegnava il profilo, indugiava sul seno, sul ventre, e la trovava bellissima.

L’aveva letteralmente trascinata davanti allo specchio.

“Guardati”, le aveva sussurrato. “Questa sei tu.” Mentre con le dita le percorreva il viso, poi, delicatamente, il collo, la spalla. “Sei così bella… Sei bellissima”. Aveva sorriso, scuotendo la testa. “Non te ne accorgi?”

E lei, colpita, aveva guardato fugacemente, e aveva trovato che era vero. Era guardarsi con gli occhi di un altro. Ma era bellissimo anche lui, dietro di lei, a proteggerla. Sostenerla. Ne sentiva il calore.

Era rimasta incatenata a quell’immagine. Come affatata.

Senza muoversi. Respirando piano per non romperla.

 

 

Le aveva preparato l’ennesima colazione più abbondante del solito. Il ricordo del frugale solito pasto, lontano. La circondava d’affetto e cure. Si chinò a baciarla, a scorrerle una mano. A lasciarle un abbraccio. Pensieri graditi e sepolti da tanto, che, annotava rabbiosa, proprio ora ritornavano, pronti a festeggiare il lieto annuncio. Detestava che l’occasione fosse quella. Avrebbe voluto essere lei, lei sola, al centro della sua attenzione. Della sua felicità contagiosa.

Non capiva che era lei davvero, la ragione. Non voleva capirlo. Voleva solo motivi per avercela con lui.

Eppure, non che non riuscisse a comprenderlo.

Essere nei suoi pensieri… non era quello che avrebbe voluto? Non sentirsi sola, dimenticata? Avere un compagno presente? Quante volte le era mancato, questo, perso nella routine?

Eppure, quelle attenzioni adesso la urtavano. La facevano sentire diversa.

Stava lì, di fronte alla tazza, senza alimentarsi.

Colse il suo sguardo interrogativo, preoccupata. Distolse il proprio.

Si alzò, piegando il tovagliolo. Un gesto inequivocabile.

“Non mangi, amore…”

Uno scatto che sconvolse lei per prima. Amore un cazzo!

La sedia a terra, la sua voce sorda. “Non sono diversa da prima!” Lo guardava, furibonda.

Avrebbe voluto tacere. “Io non sono lei!!! Io non sono contenta di questa cosa!!!”

Lo scostò da sé, brusca.

Si allontanò.

No, Oscar… lei non era te…

 

Daniel aveva visto tutto. Impaurito, senza capire cosa stesse accadendo, richiuse la porta della sua stanza.

 

Perché non dici niente? Mentre correva via e avrebbe solo desiderato che lui la seguisse. Che la richiamasse a sé. Perché non mi trattieni? Non hai altro da dirmi? Si sentiva sola. Infelice. Frustrata. Si sentiva uno strumento. Non sentiva l’affetto di lui, la dolcezza. Non era come si era aspettata. Non era quello che avrebbe desiderato.

Corse. Corse a perdifiato. Poi si lasciò cadere sull’erba.

Si rannicchiò, il viso tra le mani. Se solo fosse riuscita a piangere…

 

La cercò, quella notte. Gesti di dolcezza.

“Scusami…” le disse piano. “Non intendevo prevaricarti…”

La cercava sempre, quando la sentiva allontanarsi. Lo odiava, per questo. Detestava questo correre ai ripari intuitivo. Questo conoscerla così bene.

 

La cinse da dietro, contro i riquadri della finestra. Le mani sui seni. Lo sentì respirare più forte, mentre esplodeva di desiderio. Mentre le passava, insistente, una mano sul ventre, e iniziava a spogliarla. E lei chiudeva gli occhi, per non vedere i seni erompere, bellissimi, e lui che, affascinato, impazziva su capezzoli.

“Dio, come sei bella…”

Per non vedere, tra le pieghe della stoffa, la linea più delicata, e quel tempo che procedeva, e la riempiva. Non si accorse, lui, che si ricopriva per non vedersi, mentre le baciava l’ombelico, e lei fremeva, e lui scendeva, facendola impazzire.

 

Quella mattina, lo specchio le aveva restituito un’immagine straniante. Non si era riconosciuta in parte del suo corpo. Le spalle, il viso, le gambe, erano gli stessi, ma, se si voltava, ormai, qualcosa si notava. Qualcosa che significava tutto.

Rimase attonita. Si sentì perduta.

Raccolse, furiosa, i vestiti, provando a fasciarsi, a lasciar cadere più larghe le pieghe.

Lo odiò.

 

Si era soffermato a guardarla, Alain. Come scrutandola.

Poi, quando aveva intercettato il suo sguardo, subito l’aveva distolto.

 

Si sentiva male con se stessa. Per tutta la giornata, le parve di percepire gli sguardi di tutti addosso. Le veniva da piangere. Poi, invece, rise di se stessa. Far sparire tutti gli specchi? Fuggire dal mondo? Forse, visto come si sentiva in quel periodo, era l’unica cosa ragionevole.

 

 

Lo respinse. Secca.

Era troppo frastornata per pensare al sesso. Lo odiava.

 

Si sentì triste per lui, ma lo era di più per se stessa.

 

Lo respinse ogni notte.

Poi, rimasta sola, si sfiorava. Impaurita dal proprio corpo. Scornata. Triste.

“Abbracciami”, avrebbe voluto dirgli.

Invece, rimaneva in silenzio. E lui non osava accostarsi.

 

Non fu facile.

Non fu facile viverle accanto.

D’altronde, non lo era neppure per lei.

Stava lì, sola, contro il muro, rannicchiata. A odiare se stessa e quel ventre che le pareva crescere, anche se piano – ma nessun altro sembrava notarlo –. Quel grumo dentro. Estraneo.

Ad alternare momenti di accettazione e quasi speranza a fasi nere. A sentirsi fuori posto.

“Aiutami!” “Aiutami”, avrebbe voluto gridare.

 

Aveva aperto la porta timidamente, Daniel. “Che succede?”

Le aveva teso la mano. “Vieni…”

Si è sentita un verme. Ingiusta. Cattiva. Fuori posto.

Aveva ricacciato indietro le lacrime, alzando su di lui lo sguardo. Aiutami…

 

L’aveva trovata lì, seduta sul muretto. Piegata su se stessa, sarebbe stato più corretto dire.

Le si era messo accanto. Vecchia consuetudine che non osava rinnovare da tempo. Il Grandier non essendo nei paraggi.

“Che hai?”

Era strano sentirlo così vicino.

 

Aveva alzato le spalle, dopo un lungo silenzio.

Si era asciugata qualcosa col palmo della mano. La pelle pallida, le vene azzurre. Ostinatamente voltata di là.

Ha pianto?

 

Avrebbe voluto parlare, ma cosa dirgli?

“Che ti ha fatto?”

Aggrottò le sopracciglia..

Semplice. Diretto.

Si passò le dita sugli occhi.

“Non ci vuole molto a capire che ha a che fare con lui.”

Respirava piano. Avrebbe voluto aiuto, davvero avrebbe voluto potersi sfogare, ma poi il problema sarebbe rimasto.

Strinsee nervosa le dita intrecciate.

 

“Io…”

La osservava.

 

 

“Più che altro non era lo scopo della mia vita…” Sembrava sperduta, nel riquadro della porta che si era serrata alle spalle, ora che aveva terminato di confessare il misfatto. Quello che nessuno, lei per prima, si sarebbe aspettato da una come lei. Non le andava di parlare di quella cosa, meno che mai dove potessero sentirla. Dare spiegazioni era già penoso. Sopportare i suoi sguardi. Il sarcasmo.

Si era seduta sulla scrivania. Provata. La voce sembra fragile.

“Già… sai che ti dico? Molliamo tutto e diamoci alla pirateria nei mari del Sud.”

Le sfuggì un sorriso. “Non siamo fuori tempo massimo?” Lo guardava con due occhi che sembravano laghi. E a lui parve di annegarvi.

 

Aveva chiuso gli scuri. Due giri di chiave.

Le aveva sciolto le dita, che teneva intrecciate in grembo.

 

Come uno strano sogno.

Mentre le stringeva il braccio, e diceva qualcosa, le sembrava, la sua voce bassa. Calma.

 

Sprazzi. Ricordi, odori, mescolati alla penombra della stanza.

E quella lama di luce sulla sua pelle chiara.

E la spalla di lui.

 

Le stava slacciando l’uniforme.

“Fermati… che vuoi fare?” Ricordava la propria voce stanca.

“Voglio guardarti.” Le sfilò la giacca.

 

Ricordava il respiro farsi teso. “Solo guardarti”.

 

Il legno freddo. Che odora di dolce.

La pelle tesa, pallida.

 

Ricordava di aver seguito con lo sguardo la sua mano, su di sé, lenta. La piega del gomito, le dita e la sua pelle, così più chiara. I gesti.[1]

Poi, di aver distolto gli occhi.

 

“Già…”

“Solo guardarti…” La camicia. I nastri.

“Non ci credi neanche tu…”

 

Respirava piano. Tutto sembrava sospeso.

 

Ricordava contorni, sensazioni. Come la luce, piano, avvolgeva la pelle, il pulviscolo. Sentiva i capelli sciolti su camicia, corpo. Il respiro più pesante.

Lo sguardo di lui in una domanda, muta. Il suo abbassare gli occhi. Aveva voglia di piangere. Aveva paura.

 

La stoffa scivolare pigra, in un soffio. Scoprire i capezzoli tesi. L’ombelico. Sentire, calde, le sue labbra.

 

“Sei bellissima.”

Io?

Il respiro le sollevava il seno, teso. Si guardò in basso. Il ventre. Che seguiva il respiro, sottile.

Lui pensò che non aveva mai visto occhi tanto tristi. Avrebbe desiderato abbracciarla, aiutarla a dimenticare. Portarla via. Sapeva che non glielo avrebbe lasciato fare. Non lo avrebbe seguito. E dove mai, poi? Si domandò, ridendo di sé. Non tutti sono pazzi come il Grandier.

Scosse la testa, incredula. Provava paura. L’aria sembrava rarefatta. Ogni movimento, durare un infinito.

“Davvero…” le dita. Il seno. Glielo sfiorò, piano. Le venature sottili che non ricordava. La sentì irrigidirsi. Tremare. Stoffa, mani. Mentre i capezzoli reagivano.

Sollevò lo sguardo su di lui. Ferita. Spenta. Non voleva che la guardasse, non in quel modo, eppure restava lì. Come una prova, non lo sapeva neppure lei.

Forse cercava di vedersi con gli occhi di un altro. Che non fosse André.

Forse quella porta chiusa segnava un limbo.

Quello che è fuori era reale. Lei, quello che stava accadendo, ora, no. O, forse, il confine tra l’accettazione ed il rifiuto. Tra il vivere e il nascondersi. O il sogno.

Eppure, lo sentiva.

Che le posava un bacio sui capelli, le mani sulle spalle. Poi sui polsi.

 

Le dita attorno ai capezzoli.

S’inarcò, soffocando un gemito. Vergognandosi, perché le pareva che il ventre si facesse immenso. Lui, invece, la trovava bellissima. E la desiderava.

 

 

Nella penombra, di frasi sorde che suonavano accuse.

“Perché l’avete fatto?” La inchiodò nella domanda. Eppure, la voce era triste. Quella tristezza era anche sua.

Di gesti. Di una delusione, di una rabbia pacata, forse. Stavolta, davvero, si sentiva tradito. Stavolta avrebbe voluto fosse stata, fosse, ancora, solo sua.

Solo sue le mani a scorrerle sulle braccia. Stoffa. Pelle.

Stringerla. Premerla.

“Lo desiderava…”

“E tu?” Delusione, disinganno, amarezza, tristezza, forse. Annotò con una punta ignobile di compiacimento. Come ti sei ridotta, si disse.

Alzò le spalle. Come spiegarglielo… Si era sentita coinvolta. Ora, si sentiva persa.

Avrebbe voluto coprirsi. Fuggire. Non essere più da nessuna parte. Cessare.

 

Ancora dita, pelle chiara. Tra le pieghe della cintura. Con le mani la percorreva. “Sei bella.” Calde. Ruvide. Sul ventre. “Sei così bella…” Si sentiva infelice.

“No…”

Si vergognava.

“Fermati…”

“Voglio solo guardarti.”

“Solo guardarti…”

“Lasciami fare…”

Lo sguardo triste, lontano. Mentre lui la liberava dalla stoffa. Le scorreva i fianchi. Lei, la testa girata, perché avrebbe preferito che lui non la guardasse. Eppure, avrebbe voluto interrogarlo su come gli sembrava, ora. Forse sarebbe stata meno disperata. Ma taceva. Come sempre.

“Sei ancora più bella.” come rispondesse ad una domanda muta. Era bello, lui, con quel corpo indolente e forte, la schiena inarcata, le spalle buttate indietro, il respiro che gli sollevava la pelle, tra le pieghe della stoffa. Si chinò a baciarla. Premendo contro di lei. Avrebbe voluto domandargli se davvero gli sembra più bella, e in cosa. Ma si sentiva triste. Sopraffatta. La voce non sapeva più uscire. Forse, non aveva imparato mai. Forse non era servito a niente soffrire tanto e far soffrire. Imparare a battersi. Essere forte e, prima, diventarlo. Non abbiamo imparato dal passato.

Sentì il suo rifiuto, mentre girava il viso di lato. Il silenzio di quel dolore.

“Piantala di tormentarti.” Le sue carezze. Il suo cercarla.

 

Le dita, tra la pelle e la stoffa leggera. Tra le pieghe.

Cercarla. Insinuarsi.

“No. Fermati.”

Con le mani lo fermò.

“Non posso farlo…”

Indugiare.

“Non posso…”

Poi, la rabbia che accompagnava ogni movimento.

“Non posso…”

 

Penombra e forse sogni. Pulviscolo.

La lama di tramonto che si assottiglia.

Fino a perdersi.

Fino a dove avrebbe potuto davvero perdersi.

Se stessa, più ancora che lui.

A lui non voleva farlo.

Non ora.

Non dopo tutto quanto.

E non voleva farlo neanche a se stessa. Al suo amore. Al loro legame.

No.

 

Lo allontanò. “No.”

“Torna a casa, allora”. Da lui. Non lo dice.

L’abbracciò. “Da amico”, precisò. Un po’ triste, un po’ scanzonato.

“A domani”, chiuse.

E lei sentì i capelli spioverle addosso.

Senza sapere bene cosa pensare. Dire. Si strinse la camicia addosso.

 

Le sembrava di aver perso il contatto con se stessa. Di essersi smarrita da qualche parte, lungo quegli ultimi mesi.

Se fosse stata diversa, forse, sarebbe normale, tutto questo. Una fase, voluta o accettata, nella vita di una donna. Ma era lei, solo lei, e non lo era affatto, normale.

Silenziosa, meccanicamente, sistemò le carte. Chiuse le stanze.

Cavalcò fino a casa, senza riuscire quasi a pensare. Si rendeva solo conto che non andava. Che non andava bene, che lo doveva allontanare, doveva andare via. Perché arrendersi anche a lui era l’unica fuga che le restava.

Per non pensare.

Per non fare quello che forse avrebbe desiderato. Liberarsi di quel peso.

O, infine, accettarlo. Viverlo.

Lei, così, non sapeva riuscirci.

Ma non curava il problema. Non voleva fare altro male ad André. Perché quella decisione l’avevano presa in due. Non poteva fuggire.

E, poi, lo amava.

 

Lo cercò. Per sfuggire gli altri pensieri. Lo guardava come se lo implorasse.

Lo portò verso sé, intrecciando le dita alle sue.

Chiudendosi la porta alle spalle.

Labbra. Orecchie. “Vivi… cerca di vivere…” le aveva detto Alain. Cercò di cancellarlo. Non voleva pensarci per rancore o tristezza. Adesso la sua vita era un’altra.

Si spogliò.

Lo sguardo febbrile.

 

Le scostò i capelli.

La sfiorò, già bagnata.

Le dita scivolavano lungo le gambe, schiudendola. Slacciò i suoi indumenti.

Se lo premette contro. L’aveva serrato, con le dita. Infinito.

L’aveva desiderato. Immenso.

Lo carezzava dentro di sé. Ogni attimo. Ogni venatura.

Lo serrava. Incurvato. Carezza.

 

Mentre, non richieste, affioravano le parole di Alain.

“Perché l’hai sposato…”

Un brivido.

 

Lo avvolse.

 

“L’ha voluto lui…” Sentiva il respiro. E tremava.

“Non decidi mai niente, comandante…” mentre le rideva contro la pelle. Caldo.

E lei lo respingeva. “Io stavo bene così…” Ma lui insisteva.

Allora, l’aveva allontanato.

“Forse aveva paura di perderti…”

 

Le mordeva il seno. Si inarcò.

 

Odiava André, mentre si domandava perché. Odiava André che aveva voluto quella cosa. Cosa cazzo pensava, si domandò, mentre si bagnava e, di nuovo, lo desiderava, di paragonarla a Christine? A come l’aveva vissuto con lei? Lei era diversa! L’altra l’aveva voluto e una vita come la sua non l’aveva mai neppure pensata – o, forse, sì, ma non aveva avuto coraggio o modo –! Cosa cazzo aveva in mente André? E premeva contro il corpo di lui. La rabbia, il dolore, e la sensazione di piacere della realtà. Calore. Le labbra di lui addosso. Mani.

“Ti voglio…” ansimò.

“Di più… di più…”

Avvolgerlo nella voragine di quell’orgasmo, non smettere di contrarsi, venire. All’infinito.

Prendendoselo tutto. Tutto.

Una infinita vendetta.

Un infinito amore.

 

“E se entra qualcuno?”

“Al diavolo…”

Vaffanculo, André! Davvero, vaffanculo. Sparisci. Non tornare, non ricomparire.

Vivi, vivi felice e scompari dalla mia vita!

Sei tu che l’hai voluto, mi hai fatto questo, e ora ho voglia di averti.

Dammelo.

Dammelo…

Lingua. E i suoi seni. Bruciava. I battiti impazziti.

Prenditi metà del mio cuore, metà della mia memoria, e vaffanculo. Vivi felice e lasciami in pace!

Voglio andare via! Non ricordarti mai più!!

Quanto può durare?

“Se ci sentono?”

Non rispose.

Le mise le mani sulle labbra. “Grida piano, quando vieni…”, sussurrò.



[1] 20 settembre 2008.

 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008, revisione febbraio 2018, pubblicazione sul sito Little Corner febbraio 2018

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

Continua

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

Back to the Mainpage

Back to the Fanfic's Mainpage