Christine
Parte XXXVI
Warning!!!
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.
Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.
Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.
Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.
Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.
Era passata a prendere Daniel come in trance. Poche
parole, meccaniche, scambiate con la nonna. Quasi non sentiva cosa le diceva
lui. Ricorda che era festante, lei, che lo teneva per mano, spaventata, le
dita fredde e le sue piccole, salde. Ne percepiva il calore.
Forse, sarebbe stato meglio, quella sera, rimanere soli
loro due.
La vita la stava travolgendo.
Aveva urtato i piatti, in gesti imprecisi e nervosi, nel
preparargli la tavola. Le mani gelate.
“Che ti succede?” si era preoccupato lui, tirandola per
il braccio.
Aveva visto la sua espressione. Il suo affetto. Gli si
era inginocchiata accanto. “Niente, amore, scusami…” L’aveva avvolto in un
abbraccio. “Va tutto bene…”
Poi, all’improvviso, André l’aveva abbracciata. Forte.
Nascondendo il viso nei suoi capelli. A lungo. Staccandosi quasi a fatica.
Girandosi per nascondere gli occhi lucidi.
Sperò che la abbracciasse, quella notte. In cui rimaneva
con gli occhi sbarrati, nuova, sconvolta. Impaurita.
Vedeva in lui gli abbracci, i gesti di tenerezza
scoperta. Quasi lo odiava perché lei si sentiva come dilaniata, spaccata tra ciò
che era abituata ad essere, e quella che sarebbe diventata… e quei gesti non
sapeva come viverli. Aveva pensato di riuscirci, ora, alla prova dei fatti, non
sapeva che fare.
L’aveva visto guardarla con tenerezza. Sorridere per
niente. Felice. Come fosse davvero un inizio.
A lei sembrava una fine. Un abisso. Non sempre, ma
spesso. A volte era euforica. Felice. Era una cosa che avevano deciso insieme,
si diceva. Anche se lei, certo, c’era stata trascinata. Ma non poteva affermare
che non fosse stata pianificata. Eppure, era talmente disorientata. Lo cercava
con lo sguardo, si aspettava il suo sostegno. Lo odiava, quando lui non recepiva
queste sue richieste di aiuto. Quando era sola, era come se barcollasse. Senza
nessuno strumento accumulato negli anni per poter affrontare una cosa più grande
di lei. Aveva solo André. Solo lui.
Per questo lo cercava, accostando il corpo al suo.
Cercando il suo calore. Il suo conforto. Si sentiva perduta, sola. Voleva che
lui l’abbracciasse. La rassicurasse. Le dicesse che le sarebbe stato vicino,
senza lasciarla, senza abbandonarla a se stessa.
Aveva bisogno di lui. Per non perdersi. O, forse, per
accettarsi di smarrirsi in quel modo.
Incrociava le dita alle sue, premendosi contro di lui.
Guardandolo con un bisogno quasi disperato di amore.
Quasi sentendosi sola, se nell’abbraccio non sentiva
abbastanza affetto. Fragile. In quel momento, emotivamente sentiva di essere fin
troppo fragile. Ma non trovava altra cura.
A volte si era sorpresa a guardarsi, mentre lo facevano,
scivolare su di lui, desiderandolo. Avvolgerlo di sé. Le linee appena più
morbide. Per ora, poteva andare. In certi momenti, si sentiva bella. Più forte.
Forse occorreva solo pazienza. Sarebbe passato.
Altre volte, contando sulla propria magrezza, aveva
considerato quanti effettivamente sarebbero stati i mesi più difficili, quelli
in cui sarebbe stato impossibile nascondersi, a se stessa. Alla propria immagine
di sé. Agli altri. Si era domandata quanto avrebbe resistito, come avrebbe
fatto. Era spaventata.
Quando l’aveva presa, quella sera, i suoi movimenti erano
intensi. Vivi. Era come si sentisse padrone della sua vita. O delle loro, si
chiese? L’aveva odiato. Non voleva un padrone. Non voleva altri impegni.
Rivoleva solo se stessa, com’era. L’aveva detestato. Confusa. Aggrappata alle
sue ondate. Desiderandolo. Desiderando annullarsi in quel loro fare l’amore.
Sperando di dimenticare tutto.
Non lo capiva, in fondo al cuore, lo condannava per non
averla capita.
Senza riuscire a comprendere lui, che una vita sua non
l’aveva posseduta mai; il suo bisogno di costruirsi un suo luogo, affetti suoi.
Con lei. Scelta come compagna.
Le labbra sulle dita. Sui polsi. La richiamò, nell’amore,
sentendola svagata. Voleva davvero condividere quei momenti con lei. Non era una
prevaricazione, come lei pareva viverla. Era qualcosa tra loro due. Era bello.
“Sono felice…” le disse, guardandola intensamente.
Era bello, meraviglioso. Era qualcosa di ancestrale e di
inspiegabile. Ma la spaventava.
Non è che non lo volesse, è che si sentiva male.
Avrebbe voluto solo sparire.
“Non dire niente, ancora…”
Si era girato a guardarla, dopo l’amore. Uno sguardo
interrogativo.
“Neanche a Daniel…”
Si era chinato su di lei, il viso sul ventre. Anche lui
si domandava quanto fosse grande, a quel punto. Era voluto, certo, eppure ancora
faticava a crederci. “Perché”, le aveva chiesto, la voce sulla pelle. Giocando
con le dita su di lei. Piccole carezze. Baci. Il respiro sulla sua pelle, che la
faceva tremare.
“Per favore… non ho voglia di dare spiegazioni…” Una nota
d’impazienza nella voce.
“Cosa c’è da spiegare…”
“Voglio solo un po’ di pace…”
L’aveva guardata, interrogativo. Si era sforzata di
chiarire: “Un po’ di tempo per abituarmi all’idea…” Umiliante doverlo spiegare
proprio a lui.
Lui era sembrato colpito. Rattristato per non essersene
reso conto. Già… per lui era tutto più naturale.
“Hai ragione”, le venne incontro, in un sorriso.
“Scusami. Se lo diciamo, soprattutto a lui, lo sapranno tutti immediatamente…”
Ma non era sicura che lui avesse compreso. Lui che,
appagato, ma non sazio, le lasciava baci caldi sulla pelle e sembrava sulle
nuvole. Le disegnava il profilo, indugiava sul seno, sul ventre, e la trovava
bellissima.
L’aveva letteralmente trascinata davanti allo specchio.
“Guardati”, le aveva sussurrato. “Questa sei tu.” Mentre
con le dita le percorreva il viso, poi, delicatamente, il collo, la spalla. “Sei
così bella… Sei bellissima”. Aveva sorriso, scuotendo la testa. “Non te ne
accorgi?”
E lei, colpita, aveva guardato fugacemente, e aveva
trovato che era vero. Era guardarsi con gli occhi di un altro. Ma era bellissimo
anche lui, dietro di lei, a proteggerla. Sostenerla. Ne sentiva il calore.
Era rimasta incatenata a quell’immagine. Come affatata.
Senza muoversi. Respirando piano per non romperla.
Le aveva preparato l’ennesima colazione più abbondante
del solito. Il ricordo del frugale solito pasto, lontano. La circondava
d’affetto e cure. Si chinò a baciarla, a scorrerle una mano. A lasciarle un
abbraccio. Pensieri graditi e sepolti da tanto, che, annotava rabbiosa, proprio
ora ritornavano, pronti a festeggiare il lieto annuncio. Detestava che
l’occasione fosse quella. Avrebbe voluto essere lei, lei sola, al centro della
sua attenzione. Della sua felicità contagiosa.
Non capiva che era lei davvero, la ragione. Non voleva
capirlo. Voleva solo motivi per avercela con lui.
Eppure, non che non riuscisse a comprenderlo.
Essere nei suoi pensieri… non era quello che avrebbe
voluto? Non sentirsi sola, dimenticata? Avere un compagno presente? Quante volte
le era mancato, questo, perso nella routine?
Eppure, quelle attenzioni
adesso la urtavano. La facevano
sentire diversa.
Stava lì, di fronte alla tazza, senza alimentarsi.
Colse il suo sguardo interrogativo, preoccupata. Distolse
il proprio.
Si alzò, piegando il tovagliolo. Un gesto inequivocabile.
“Non mangi, amore…”
Uno scatto
che sconvolse lei per prima. Amore un
cazzo!
La sedia a terra, la sua voce sorda. “Non sono diversa da
prima!” Lo guardava, furibonda.
Avrebbe voluto tacere. “Io non sono lei!!! Io non sono
contenta di questa cosa!!!”
Lo scostò da sé, brusca.
Si allontanò.
No, Oscar… lei non
era te…
Daniel aveva visto tutto. Impaurito, senza capire cosa
stesse accadendo, richiuse la porta della sua stanza.
Perché non dici
niente? Mentre correva via e avrebbe solo desiderato che lui la seguisse.
Che la richiamasse a sé. Perché non mi
trattieni? Non hai altro da dirmi? Si sentiva sola. Infelice. Frustrata. Si
sentiva uno strumento. Non sentiva l’affetto di lui, la dolcezza. Non era come
si era aspettata. Non era quello che avrebbe desiderato.
Corse. Corse a perdifiato. Poi si lasciò cadere
sull’erba.
Si rannicchiò, il viso tra le mani. Se solo fosse
riuscita a piangere…
La cercò, quella notte. Gesti di dolcezza.
“Scusami…” le disse piano. “Non intendevo prevaricarti…”
La cercava sempre, quando la sentiva allontanarsi. Lo
odiava, per questo. Detestava questo correre ai ripari intuitivo. Questo
conoscerla così bene.
La cinse da dietro, contro i riquadri della finestra. Le
mani sui seni. Lo sentì respirare più forte, mentre esplodeva di desiderio.
Mentre le passava, insistente, una mano sul ventre, e iniziava a spogliarla. E
lei chiudeva gli occhi, per non vedere i seni erompere, bellissimi, e lui che,
affascinato, impazziva su capezzoli.
“Dio, come sei bella…”
Per non vedere, tra le pieghe della stoffa, la linea più
delicata, e quel tempo che procedeva, e la riempiva. Non si accorse, lui, che si
ricopriva per non vedersi, mentre le baciava l’ombelico, e lei fremeva, e lui
scendeva, facendola impazzire.
Quella mattina, lo specchio le aveva restituito
un’immagine straniante. Non si era riconosciuta in parte del suo corpo. Le
spalle, il viso, le gambe, erano gli stessi, ma, se si voltava, ormai, qualcosa
si notava. Qualcosa che significava tutto.
Rimase attonita. Si sentì perduta.
Raccolse, furiosa, i vestiti, provando a fasciarsi, a
lasciar cadere più larghe le pieghe.
Lo odiò.
Si era soffermato a guardarla, Alain. Come scrutandola.
Poi, quando aveva intercettato il suo sguardo, subito
l’aveva distolto.
Si sentiva male con se stessa. Per tutta la giornata, le
parve di percepire gli sguardi di tutti addosso. Le veniva da piangere. Poi,
invece, rise di se stessa. Far sparire tutti gli specchi? Fuggire dal mondo?
Forse, visto come si sentiva in quel periodo, era l’unica cosa ragionevole.
Lo respinse. Secca.
Era troppo frastornata per pensare al sesso. Lo odiava.
Si sentì triste per lui, ma lo era di più per se stessa.
Lo respinse ogni notte.
Poi, rimasta sola, si sfiorava. Impaurita dal proprio
corpo. Scornata. Triste.
“Abbracciami”, avrebbe voluto dirgli.
Invece, rimaneva in silenzio. E lui non osava accostarsi.
Non fu facile.
Non fu facile viverle accanto.
D’altronde, non lo era neppure per lei.
Stava lì, sola, contro il muro, rannicchiata. A odiare se
stessa e quel ventre che le pareva crescere, anche se piano – ma nessun altro
sembrava notarlo –. Quel grumo dentro. Estraneo.
Ad alternare momenti di accettazione e quasi speranza a
fasi nere. A sentirsi fuori posto.
“Aiutami!” “Aiutami”, avrebbe voluto gridare.
Aveva aperto la porta timidamente, Daniel. “Che succede?”
Le aveva teso la mano. “Vieni…”
Si è sentita un verme. Ingiusta. Cattiva. Fuori posto.
Aveva ricacciato indietro le lacrime, alzando su di lui
lo sguardo. Aiutami…
L’aveva trovata lì, seduta sul muretto. Piegata su se
stessa, sarebbe stato più corretto dire.
Le si era messo accanto. Vecchia consuetudine che non
osava rinnovare da tempo. Il Grandier non essendo nei paraggi.
“Che hai?”
Era strano sentirlo così vicino.
Aveva alzato le spalle, dopo un lungo silenzio.
Si era asciugata qualcosa col palmo della mano. La pelle
pallida, le vene azzurre. Ostinatamente voltata di là.
Ha pianto?
Avrebbe voluto parlare, ma cosa dirgli?
“Che ti ha fatto?”
Aggrottò le sopracciglia..
Semplice. Diretto.
Si passò le dita sugli occhi.
“Non ci vuole molto a capire che ha a che fare con lui.”
Respirava piano. Avrebbe voluto aiuto, davvero avrebbe
voluto potersi sfogare, ma poi il problema sarebbe rimasto.
Strinsee nervosa le dita intrecciate.
“Io…”
La osservava.
“Più che altro non era lo scopo della mia vita…” Sembrava
sperduta, nel riquadro della porta che si era serrata alle spalle, ora che aveva
terminato di confessare il misfatto. Quello che nessuno, lei per prima, si
sarebbe aspettato da una come lei. Non le andava di parlare di quella cosa, meno
che mai dove potessero sentirla. Dare spiegazioni era già penoso. Sopportare i
suoi sguardi. Il sarcasmo.
Si era seduta sulla scrivania. Provata. La voce sembra
fragile.
“Già… sai che ti dico? Molliamo tutto e diamoci alla
pirateria nei mari del Sud.”
Le sfuggì un sorriso. “Non siamo fuori tempo massimo?” Lo
guardava con due occhi che sembravano laghi. E a lui parve di annegarvi.
Aveva chiuso gli scuri. Due giri di chiave.
Le aveva sciolto le dita, che teneva intrecciate in
grembo.
Come uno strano sogno.
Mentre le stringeva il braccio, e diceva qualcosa, le
sembrava, la sua voce bassa. Calma.
Sprazzi. Ricordi, odori, mescolati alla penombra della
stanza.
E quella lama di luce sulla sua pelle chiara.
E la spalla di lui.
Le stava slacciando l’uniforme.
“Fermati… che vuoi fare?” Ricordava la propria voce
stanca.
“Voglio guardarti.” Le sfilò la giacca.
Ricordava il respiro farsi teso. “Solo guardarti”.
Il legno freddo. Che odora di dolce.
La pelle tesa, pallida.
Ricordava di aver seguito con lo sguardo la sua mano, su
di sé, lenta. La piega del gomito, le dita e la sua pelle, così più chiara. I
gesti.[1]
Poi, di aver distolto gli occhi.
“Già…”
“Solo guardarti…” La camicia. I nastri.
“Non ci credi neanche tu…”
Respirava piano. Tutto sembrava sospeso.
Ricordava contorni, sensazioni. Come la luce, piano,
avvolgeva la pelle, il pulviscolo. Sentiva i capelli sciolti su camicia, corpo.
Il respiro più pesante.
Lo sguardo di lui in una domanda, muta. Il suo abbassare
gli occhi. Aveva voglia di piangere. Aveva paura.
La stoffa scivolare pigra, in un soffio. Scoprire i
capezzoli tesi. L’ombelico. Sentire, calde, le sue labbra.
“Sei bellissima.”
Io?
Il respiro le sollevava il seno, teso. Si guardò in
basso. Il ventre. Che seguiva il respiro, sottile.
Lui pensò che non aveva mai visto occhi tanto tristi.
Avrebbe desiderato abbracciarla, aiutarla a dimenticare. Portarla via. Sapeva
che non glielo avrebbe lasciato fare. Non lo avrebbe seguito. E dove mai, poi?
Si domandò, ridendo di sé. Non tutti sono pazzi come il Grandier.
Scosse la testa, incredula. Provava paura. L’aria
sembrava rarefatta. Ogni movimento, durare un infinito.
“Davvero…” le dita. Il seno. Glielo sfiorò, piano. Le
venature sottili che non ricordava. La sentì irrigidirsi. Tremare. Stoffa, mani.
Mentre i capezzoli reagivano.
Sollevò lo sguardo su di lui. Ferita. Spenta. Non voleva
che la guardasse, non in quel modo, eppure restava lì. Come una prova, non lo
sapeva neppure lei.
Forse cercava di vedersi con gli occhi di un altro. Che
non fosse André.
Forse quella porta chiusa segnava un limbo.
Quello che è fuori era reale. Lei, quello che stava
accadendo, ora, no. O, forse, il confine tra l’accettazione ed il rifiuto. Tra
il vivere e il nascondersi. O il sogno.
Eppure, lo sentiva.
Che le posava un bacio sui capelli, le mani sulle spalle.
Poi sui polsi.
Le dita attorno ai capezzoli.
S’inarcò, soffocando un gemito. Vergognandosi, perché le
pareva che il ventre si facesse immenso. Lui, invece, la trovava bellissima. E
la desiderava.
Nella penombra, di frasi sorde che suonavano accuse.
“Perché l’avete fatto?” La inchiodò nella domanda.
Eppure, la voce era triste. Quella tristezza era anche sua.
Di gesti. Di una delusione, di una rabbia pacata, forse.
Stavolta, davvero, si sentiva tradito. Stavolta avrebbe voluto fosse stata,
fosse, ancora, solo sua.
Solo sue le mani a scorrerle sulle braccia. Stoffa.
Pelle.
Stringerla. Premerla.
“Lo desiderava…”
“E tu?” Delusione, disinganno, amarezza, tristezza,
forse. Annotò con una punta ignobile di compiacimento.
Come ti sei ridotta, si disse.
Alzò le spalle. Come spiegarglielo… Si era sentita
coinvolta. Ora, si sentiva persa.
Avrebbe voluto coprirsi. Fuggire. Non essere più da
nessuna parte. Cessare.
Ancora dita, pelle chiara. Tra le pieghe della cintura.
Con le mani la percorreva. “Sei bella.” Calde. Ruvide. Sul ventre. “Sei così
bella…” Si sentiva infelice.
“No…”
Si vergognava.
“Fermati…”
“Voglio solo guardarti.”
“Solo guardarti…”
“Lasciami fare…”
Lo sguardo triste, lontano. Mentre lui la liberava dalla
stoffa. Le scorreva i fianchi. Lei, la testa girata, perché avrebbe preferito
che lui non la guardasse. Eppure, avrebbe voluto interrogarlo su come gli
sembrava, ora. Forse sarebbe stata meno disperata. Ma taceva. Come sempre.
“Sei ancora più bella.”
come rispondesse ad una domanda
muta. Era bello, lui, con quel corpo indolente e forte, la schiena inarcata, le
spalle buttate indietro, il respiro che gli sollevava la pelle, tra le pieghe
della stoffa. Si chinò a baciarla. Premendo contro di lei. Avrebbe voluto
domandargli se davvero gli sembra più bella, e in cosa. Ma si sentiva triste.
Sopraffatta. La voce non sapeva più uscire. Forse, non aveva imparato mai. Forse
non era servito a niente soffrire tanto e far soffrire. Imparare a battersi.
Essere forte e, prima, diventarlo. Non
abbiamo imparato dal passato.
Sentì il suo rifiuto, mentre girava il viso di lato. Il
silenzio di quel dolore.
“Piantala di tormentarti.” Le sue carezze. Il suo
cercarla.
Le dita, tra la pelle e la stoffa leggera. Tra le pieghe.
Cercarla. Insinuarsi.
“No. Fermati.”
Con le mani lo fermò.
“Non posso farlo…”
Indugiare.
“Non posso…”
Poi, la rabbia che accompagnava ogni movimento.
“Non posso…”
Penombra e forse sogni. Pulviscolo.
La lama di tramonto che si assottiglia.
Fino a perdersi.
Fino a dove avrebbe potuto davvero perdersi.
Se stessa, più ancora che lui.
A lui non voleva farlo.
Non ora.
Non dopo tutto quanto.
E non voleva farlo neanche a se stessa. Al suo amore. Al
loro legame.
No.
Lo allontanò. “No.”
“Torna a casa, allora”. Da lui. Non lo dice.
L’abbracciò. “Da amico”, precisò. Un po’ triste, un po’
scanzonato.
“A domani”, chiuse.
E lei sentì i capelli spioverle addosso.
Senza sapere bene cosa pensare. Dire. Si strinse la
camicia addosso.
Le sembrava di aver perso il contatto con se stessa. Di
essersi smarrita da qualche parte, lungo quegli ultimi mesi.
Se fosse stata diversa, forse, sarebbe normale, tutto
questo. Una fase, voluta o accettata, nella vita di una donna. Ma era lei, solo
lei, e non lo era affatto, normale.
Silenziosa, meccanicamente, sistemò le carte. Chiuse le
stanze.
Cavalcò fino a casa, senza riuscire quasi a pensare. Si
rendeva solo conto che non andava. Che non andava bene, che lo doveva
allontanare, doveva andare via. Perché arrendersi anche a lui era l’unica fuga
che le restava.
Per non pensare.
Per non fare quello che forse avrebbe desiderato.
Liberarsi di quel peso.
O, infine, accettarlo. Viverlo.
Lei, così, non sapeva riuscirci.
Ma non curava il problema. Non voleva fare altro male ad
André. Perché quella decisione l’avevano presa in due. Non poteva fuggire.
E, poi, lo amava.
Lo cercò. Per sfuggire gli altri pensieri. Lo guardava
come se lo implorasse.
Lo portò verso sé, intrecciando le dita alle sue.
Chiudendosi la porta alle spalle.
Labbra. Orecchie. “Vivi… cerca di vivere…” le aveva detto
Alain. Cercò di cancellarlo. Non voleva pensarci per rancore o tristezza. Adesso
la sua vita era un’altra.
Si spogliò.
Lo sguardo febbrile.
Le scostò i capelli.
La sfiorò, già bagnata.
Le dita scivolavano lungo le gambe, schiudendola. Slacciò
i suoi indumenti.
Se lo premette contro. L’aveva serrato, con le dita.
Infinito.
L’aveva desiderato. Immenso.
Lo carezzava dentro di sé. Ogni attimo. Ogni venatura.
Lo serrava. Incurvato. Carezza.
Mentre, non richieste, affioravano le parole di Alain.
“Perché l’hai sposato…”
Un brivido.
Lo avvolse.
“L’ha voluto lui…” Sentiva il respiro. E tremava.
“Non decidi mai niente, comandante…” mentre le rideva
contro la pelle. Caldo.
E lei lo respingeva. “Io stavo bene così…” Ma lui
insisteva.
Allora, l’aveva allontanato.
“Forse aveva paura di perderti…”
Le mordeva il seno. Si inarcò.
Odiava André, mentre si domandava perché. Odiava André
che aveva voluto quella cosa. Cosa cazzo pensava, si domandò, mentre si bagnava
e, di nuovo, lo desiderava, di paragonarla a Christine? A come l’aveva vissuto
con lei? Lei era diversa! L’altra l’aveva voluto e una vita come la sua non
l’aveva mai neppure pensata – o, forse, sì, ma non aveva avuto coraggio o modo
–! Cosa cazzo aveva in mente André? E premeva contro il corpo di lui. La rabbia,
il dolore, e la sensazione di piacere della realtà. Calore. Le labbra di lui
addosso. Mani.
“Ti voglio…” ansimò.
“Di più… di più…”
Avvolgerlo nella voragine di quell’orgasmo, non smettere
di contrarsi, venire. All’infinito.
Prendendoselo tutto. Tutto.
Una infinita vendetta.
Un infinito amore.
“E se entra qualcuno?”
“Al diavolo…”
Vaffanculo, André!
Davvero, vaffanculo. Sparisci. Non tornare, non ricomparire.
Vivi, vivi felice
e scompari dalla mia vita!
Sei tu che l’hai
voluto, mi hai fatto questo, e ora ho voglia di averti.
Dammelo.
Dammelo…
Lingua. E i suoi seni. Bruciava. I battiti impazziti.
Prenditi metà del
mio cuore, metà della mia memoria, e vaffanculo. Vivi felice e lasciami in pace!
Voglio andare via!
Non ricordarti mai più!!
Quanto può durare?
“Se ci sentono?”
Non rispose.
Le mise le mani sulle labbra. “Grida piano, quando
vieni…”, sussurrò.
Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008, revisione febbraio 2018, pubblicazione sul sito Little Corner febbraio 2018
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Continua
Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com