Christine

Parte XXXI

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

Osserva, in quella coda d’inverno rigido, i guanti laceri di André. Lisi di anni.

Lo vede stringersi di più nel mantello.

Poi, intercettare il suo sguardo indagare su di lui. Sottrarre velocemente alla sua vista le mani.

 

Continua a nevicare e lui congela a mani nude. La prima volta che gliel’ha domandato, ha risposto di averli dimenticati, poi non gli ha chiesto più niente. È andata da Nanny.

“Beh… sta risparmiando per pagare gli studi a Daniel…” è la risposta, imbarazzata e insieme orgogliosa della nonna.

Ed è tenerezza, per i pensieri di lui verso il figlio. Frammista a un senso di estraneità, per cosa, verso lei? Sfiducia? Non voler approfittare? Eccesso di discrezione? Quando ha detto, anni prima, che si sarebbe occupata degli studi del bambino era seria. Non è neanche corretto pensare di volerlo fare per non essere tagliata fuori dalla loro vita. È un impegno che ritiene d’essersi presa prima di tutto con l’altra. E comunque lo fa volentieri.

Non sa come sentirsi, mentre il respiro si condensa bianco. Non vuole vederla in negativo. Non vuole essere distruttiva. Non è certo di questo che loro tre hanno bisogno. Ma deve parlargli, si dice, mentre i passi affondano nella neve, e va verso casa loro, a cercarlo.

Poi, nel freddo, alza gli occhi, e vede il fumo dal comignolo.

Le finestre illuminate. E prova un tepore, dentro, che lava via la tristezza, l’egoismo, il fare qualcosa per gratificare se stessi e non per dare, senza niente in cambio.

 

Il gelo entra con lei. Mentre velocemente accosta la porta, posa i guanti.

“Ciao, ragazzi!” sente la pelle del viso ancora ghiacciata, al contatto con l’atmosfera calda di dentro.

Si è voltato, come avesse visto la cosa più bella, verso di lei, mentre sta seduto, davanti al camino, Daniel accovacciato accanto a lui, un libro, la mano, protettiva, del padre sulla spalla.

Le va incontro. Mentre Daniel le salta in braccio, in un “Ciao!” affettuoso e le si appiccica al viso, al collo, alla sua pelle, rassicurato, appagato dal suo odore, dai suoi capelli, dalla vicinanza. Perché Oscar è sua. È di loro due e basta. “Sai di freddo!!!!”

“Si gela! Ma… che profumino… che hai preparato?” Rivolta a lui.

E lui le sorride, imbarazzato. Si scambiano, da sopra la testa del bambino, uno sguardo rapido.

Non c’è tempo per i discorsi. Daniel reclama attenzione, mentre scivola di nuovo a terra, e la riempie di feste e parole.

“Sei gelata”, riesce a trovare uno spazio, André, mentre le prende le mani tra le sue, per scaldarle.

L’affetto. La dolcezza. Questo è lui. La sollecitudine.

Lo scruta con uno sguardo strano. In cui s’alternano un po’ di dolore, qualcosa di oscuro, e più tenerezza.

 

Hanno giocato, poi cercato di cenare. Non è più la casa silenziosa di prima. Di quando lei ormai apprezzava la quiete, la solitudine, e le serate trascorrevano tranquille, un pasto rilassato, senza nessuno attorno, qualcosa di caldo, dopo, libri, o giornali, la musica. Ora quelle stesse pareti risuonano di voci. Energie. Eppure, non si sente invasa come avrebbe immaginato allora, dopo aver accettato tutto. Cambiamenti, perdite, solitudine, amore.

Daniel è sempre impegnativo, da alimentare, loro due quasi fanno la fame impegnati nei tentativi, poi è voluto restare in braccio. Quando s’è stancato, si è piazzato sul tappeto, tra gatti e fogli e giochi.

 

Lo tira per le mani, ora. “Vieni di là devo parlarti.” Approfitta del momento di quiete, uno sguardo al disordine creativo della stanza. Che, riflette, è esteso un po’ a tutta la casa. Sono una ragazza paziente, si dice.

Socchiude la porta, in modo da poter tenere sotto controllo comunque i rumori familiari e rassicuranti del bambino. Lo guarda, seria.

“Cosa c’è…” si allarma lui.

“Tua nonna mi ha detto che risparmi.” La guarda interrogativo. “Per pagare gli studi di Daniel.” Lo fissa.

Lui resta in silenzio. Per capire dove vuole arrivare. Dove ha sbagliato. Perché immagina già di averlo fatto, dal tono di lei.

“Avevo detto che l’avrei fatto io, ricordi?” In attesa di una risposta. Impressione. Cenno.

“Sì.”

“E allora?”

“Sono suo padre… devo pensarci io.”

Ecco. L’ha detto.

Si rende immediatamente conto che è la frase sbagliata. Che lei è ferita. E si sente fuori. Mentre le si legge in viso tutto quanto.

“Scusami, non è… penso solo sia giusto così…” cerca di rimediare.

Sei penoso, si scopre a pensare, mentre vorrebbe solo andarsene e sbattere furiosamente la porta. Si controlla. A stento. Fanculo, Grandier!

“Sono tua moglie.” La mette in imbarazzo pronunciare quelle parole. Dover chiarire un concetto che le è quasi estraneo, perché è difficile imbrigliare in forme giuridiche i sentimenti, vincolarli entro il consentito dallo Stato. “Ora non sei più da solo.” Lo fissa, seria. “Sono cose che dobbiamo valutare in due.”

Resta lì, ad osservare segnali e reazioni alle sue frasi. È lui che s’è voluto sposare, pensa, rabbiosa, possibile che non afferri il senso di qualcosa insieme?

“Io ho preso un impegno.” Continua. “E ci tengo a rispettarlo.” Non dice con chi. Non la nomina, ma accarezza con affetto il suo nome nel cuore. E, prima che lui possa ferirla ancora, lo anticipa. Abbassando la voce, “Voglio poter fare qualcosa.” Lo guarda in faccia. E adesso dimmi di no, stronzo.

Non dice che può permettersi più di quanto potrebbe lui. Che potrà offrirgli possibilità più ampie. Insegnanti migliori. Non ce ne è bisogno. Mentre considera quanto sia ingiusto che le stesse opportunità non siano offerte a tutti in maniera uguale ed indiscriminata, che tutto dipenda dal censo, anche la qualità dell’istruzione, anche se e come coltivare l’intelligenza di un bambino, e che si debba, poi, scontare questa disparità di trattamento, nel vedersi la vita futura condizionata. Una violazione del concetto di uguaglianza. Che, poi, non esiste neppure formalmente. Daniel non deve restare impastoiato in questo mondo ingiusto. Nessuno dovrebbe…

Lui resta in silenzio. Crede di sapere cosa le sta passando per la mente.

“Non voglio umiliarti, proponendoti questo”, cerca di spiegare. Di mediare. “Ma siamo in due.”

“No… lo so…” sembra scoperto, lui. “è solo… non volevo addossarti anche questo…”

“Non a me.” Lo corregge, abbracciandolo e soffocando contro di lui l’indignazione che la arde. “Lo faremo insieme.”

 

“Beh, non sarà entusiasta di vedersi riempito di libri… soprattutto all’idea di studiare… povero, povero Daniel…” e gli batte una pacca sulla spalla. Mentre André lancia una vaga occhiata di compatimento all’ignaro oggetto di tante attenzioni, crollato, esausto, sul tappeto, pensando con tristezza all’idea che, presto, anche per lui il tempo dei giochi sarà andato e che verrà incastrato nei mille meccanismi della vita, della società, suo malgrado. Senza aver domandato di nascere. Di finire inchiodato sui libri, ad un lavoro – se sarà fortunato da averlo – che si fa per dovere – il suo, per fortuna, non ha più molto a che fare col dovere –. La mente volta alla speranza di qualcosa d’altro. E che, comunque, è già moltissimo quello che, rispetto ad altri, avrà. E che, in quella strana forzatura ad innaturalità che è la vita, è già parecchio.

 

Due pacchetti. Uno grande, l’altro in scala.

Li scartano. “Su, avanti, sono per voi due…” resta a godersi la scena, divertita.

E i due tirano fuori due paia di guanti, perfettamente identici, di pelle, e perfettamente in scala.

 

“Devo parlarti.”

L’ha preso da parte.

Non sa come spiegargli il disagio che, da qualche tempo, la attanaglia a corte. Dove si sente inutile. Dove si vive inutilmente.

Alza uno sguardo speranzoso, lui.

Che lei quasi ha timore ad intercettare.

Cosa speri, tu? Cosa sogni… io… io non te l’ho mai domandato…

Mi sono sempre e solo domandato cosa volessi io, spesso senza neanche riuscire a darmi una risposta…

E, così, legge la delusione negli occhi di lui, quando gli confessa di aver chiesto il trasferimento, sì, ma che è stata assegnata al distaccamento di Versailles delle Guardie francesi.

Le tiene le mani nelle sue. Mentre la scruta, a lungo. Ponderando il colpo. La delusione. Per la speranza, svanita, di andarsene via, lontano, loro tre, e mollare tutto. Per non aver intuito il disagio che lei viveva. Perché lei si è tenuta tutto dentro di sé.

“Perché non me l’hai detto?”

“Mi dispiace… io… non me la sentivo più.”

Annuisce.

“Certo, lo capisco. Solo, non eri tu che parlavi di fare le cose insieme?”

Si rende conto di doversi scusare. “Non ne sono stata sicura fino al momento in cui mi sono resa conto di troppe sproporzioni. Toccando con mano. Vivendo. Pensavo a te, a Daniel…” alza le spalle, quasi noncurante. “E, allora, prima che tu potessi fermarmi, ho preferito non avere…”

“Ostacoli”, conclude lui.

“No!”, alza lo sguardo nei suoi occhi. “No, cosa dici? Non un ostacolo, mai! Non volevo che mi chiedessi di essere ragionevole. Di non espormi al rischio di un lavoro meno comodo o di un trasferimento. Volevo farlo per essere più coerente. Con te.”

“Certo. Non avevo dubbi.” Deluso.

Si alza, va alla finestra.

Oscar lo segue con lo sguardo, la sua figura incorniciata nella luce che si spegne, quasi sfocata.

Lo raggiunge.

“Non prenderla male…”

Con le dita, gli cerca il braccio.

Scuote la testa lui, accogliendola accanto a sé, passandole un braccio attorno alle spalle. Un sorriso malinconico.

“Mi sorprendi sempre…” ammette, abbassando gli occhi verso di lei, baciandole i capelli.

“Ma non ti avrei fermato”, confessa. “Hai ragione tu”, era la cosa giusta da fare.

 

Sembra più leggera, ora, lei, mentre lui le tiene le mani, e gliele intreccia in grembo, accarezzandola, in un abbraccio delicato.

Ora viene il difficile, pensa.

Ora deve dirglielo.

“Quanto a te…” mentre lo sente irrigidirsi.

André percepisce il proprio respiro arrestarsi. Per un attimo, sperimenta la paura.

Già, lui non era stato neanche sfiorato dal dubbio. Starle accanto. E dove mai altro potrebbe essere? Che senso avrebbe, lontano da lei?

Anche se, ora, vedendo sempre meno, ricostruire da capo abitudini, luoghi, spazi, reimparare da capo, non sarà facile. Per niente facile… eppure. Eppure, se lei lo vuole, prenderà ogni rischio, accetterà ogni sfida.

“Per me è difficile…”

Alza il mento, in un gesto di ribellione. Che intendi…

“Io ho paura per te.”

Lui si stacca da lei, nella luce che muore. Anche io… per te… ma allora…

Lei invece gli prende le mani. Lo attrae a sé.

“Cerca di capirmi.”

Lui aggrotta le sopracciglia. Non vuole sentire. Le parole del commiato. Del tradimento di una vita.

Si prepara a resistere.

“Io ti voglio con me. Sempre. Assolutamente.”

Lui sembra respirare più liberamente.[1]

“Ma tu hai Daniel. E”, in una carezza, in un gesto, gli sfiora lo zigomo, la ferita, “questo… e mi fa paura l’idea di esporti a dei pericoli… io non posso più solo pensare a me stessa. Devo fare delle considerazioni che riguardano anche te, e lui.”

Scuote la testa, lui. “No.”

“No. Questo fa parte del gioco”, le passa le dita sul viso, tra i capelli, fino a intrecciarle con quelle di lei. “Anche io ho paura, per te.” Una paura che, a volte, mi fa impazzire. L’amore rende deboli, è vero, e scoperti, ma… “Ma non ti chiedo di lasciare… non finché non lo vorrai tu…”

Quindi, conclude, risoluto. “Verrò con te.”

 

E mentre, nelle ondate disperate che nascono dai suoi fianchi, cerca di darle il piacere, ha la sensazione, a volte, di non averla mai davvero raggiunta. Che lei, in qualche modo, sia ancora lontana.

Che non siano loro due, solo loro due, ma che, in fondo, lei insegua qualcosa di diverso. Forse un sogno, forse un ideale. Di non bastarle, e non è neanche questo.

In fondo, anche lui ha cercato qualcosa, nella vita, e questo lo sa bene. Ma non aver intuito cosa stesse passando per la mente di lei, in quegli ultimi tempi, gli fa uno strano effetto.

Come di averla smarrita, da qualche parte.

Deve ritrovarla.

La rivuole.

Sua.

Con sé.

Mentre la percorre, mentre la possiede e la sente ansimare sotto di sé, sembra quasi non rendersi conto che, invece, è stato inseguendo lui, che Oscar ha sentito la necessità di cambiare. Per comprenderlo meglio. Per essergli davvero più vicina.

Davvero sua compagna.

“Io”, sembra leggergli nel pensiero lei, mentre gli passa sopra, mentre sente la sua pelle sfiorarle i capezzoli e lo desidera ancora di più, “io l’ho fatto per esserti più vicina.”

Ansima, mentre cerca di scrutarlo e le pare bellissimo. Gli accarezza il viso, dita, capelli, respiri.

“Credimi… volevo distanziarmi da loro… stare più vicina a te…”

Lui le ha messo le mani sui fianchi, assecondando i suoi movimenti con più impeto.

Mentre lei lo serra con forza. “Solo per te…”

S’inarca, su di lui, attorno a lui, sempre più, come trovando forza in quelle parole. “Dammelo”, quasi supplica, fino al limite, “Dammelo”, appena un gemito, oltre quel punto, fino a impazzire, mentre viene, viene in ondate e spasmi, e lui le copre il grido, le labbra, con lei dita, amandola ancora di più.

 

“Io, invece”, osa confessarle, dopo, allacciato a lei, la testa sul suo grembo, mentre gioca coi suoi capezzoli, ma non è sicuro che lei sia ancora sveglia, “avrei voluto che andassimo via… lontano…”


 

[1] Citazione evidente da M. Migliavacca, La storia di Lady Oscar, Milano, Fabbri, 1982.

 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008 e fino a ottobre 2015 pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2015

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Continua

Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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