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Christine

Parte XXX

Warning!!!

 

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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

“Diventerò cieco?”

È rientrata più presto, e silenziosa, pregusta la gioia di fargli una sorpresa. Ma le voci che percepisce, da fuori dalla porta, la trattengono. Sente André fare quella domanda mostruosa.

Trasale, la mano sulla maniglia. Come se non riesca bene a rendersi conto del senso.

Non ha fatto abbastanza attenzione, dicono qualcosa, poi: “Devi stare tranquillo”, sente rispondere.

Fa precipitosamente un passo indietro, quando la porta si apre.

“Oh… buona sera, Oscar”, la saluta il dottore.

E lei, sorpresa, interdetta.

 

“Com’è andato il controllo?” gli domanda, volutamente noncurante, rimproverandosi di non aver potuto essere presente.

Ma lui sembra del tutto normale. Anzi, la rassicura, l’abbraccia. La trascina in camera.

Mentre si perde nei suoi abbracci, si dice che, forse, lui, sotto pressione, magari spaventato, si preoccupa troppo e a quello è dovuta la frase al dottore.[1]

 

Le sembra tutto a posto, considerata la situazione. Considerate le distanze appiattite, le ferite in via di guarigione. André cerca di riprendere la vita normale. Ha ripreso gli allenamenti con lei, sta riacquistando più forza rispetto alla ferita alla mano. Se Oscar da un lato ha paura di affaticarlo, dall’altro però è contenta. Le è mancata la sua vita normale. La loro. La rassicura vederlo migliorare. Ogni volta che propone di continuare ad allenarsi per più tempo e lui accetta, le pare di compiere, insieme, un passo avanti. Un loro traguardo. Qualcosa che li unisce ancora di più.

Lentamente, cerca di buttarsi dietro le spalle le paure. I dubbi.

 

A testa bassa, come impegnato nei suoi giochi, sembra tranquillo, Daniel, seduto per terra.

Lo sguardo fisso, corrucciato. I due personaggi di legno che cozzano l’uno contro l’altro, in chissà che scontro. Forse è così che si è ferito, e cerca di ricostruire. Perché l’ha visto uscire armato, con quella che considera una madre, e quando è rientrato stava male, faceva paura, e tutti erano agitati. E ora lui ha paura di guardarlo. Cerca di farsi coraggio e di dirsi che è sempre lui, ma ha paura, e scappa.

Paura di quella benda. E di quello che nasconde.

Gli fa paura il padre bendato. E orrore il padre senza un occhio. Si domanda come sia, una persona senza un occhio. Come uno spettro. O come un mostro. Prova a disegnarlo e sembra un fantasma. Un mostro. Orrore che si somma ad orrore, nella sua mente. Ha visto persone tagliarsi, nella casa, piccole ferite, assorbendo il ricordo di quelle scene. Non ha mai visto un trauma vero, come quello. A volte parlano di un incidente, durante una missione, ma lui ricorda poco, solo che giocava con lui che stava seduto, a letto, e sembrava avere meno forze del solito.

Teme di aver provocato tutto con le sue parole. Con quelle cose che ha pensato. Non può dirlo a nessuno. Nessuno capirebbe. Ma è spaventato. Non vuole vederlo. Non vuole più vederlo. Non vuole vedere la punizione per averlo detestato. Lo rivuole com’era prima. Prova quasi orrore, per come lo immagina adesso.

Vorrebbe scappare. Ma è suo padre. Che lo ama. Che lo riempie d’affetto. Che gioca con lui anche quando è stanco e crollerebbe addormentato, subito, invece resiste. Il padre che gli legge le fiabe, che gli racconta di Ulisse e Polifemo, di Tristano e Isotta, come se fossero favole, e invece, lo scoprirà più tardi, sono epica.

È venuta a parlargli, Oscar. E anche la nonna. Gli hanno detto che il padre si rimetterà presto e che, se lui vuole, può incontrarlo. Lui, però, ha paura. Ma non ha avuto il coraggio di dire quella parola.

 

 

Lo prende in braccio, una fitta al polso e serra le labbra, impallidendo. Vorrebbe guardarlo, tenerlo stretto, dopo tanti giorni così, e invece Daniel si svincola, sgomento, cercando di staccarsi da lui. Non se ne rende conto subito. Tenta, lì per lì, di stringerlo a sé, per carezzarlo come fa di solito, e calmarlo, perché non può rendersi conto che è spaventato a causa sua – lui, a non trasalire, quando gli capita di guardarsi, forse si è quasi abituato –. Ma è peggio.

Ha capito subito, invece, Oscar, la pena che le si legge nello sguardo, nella voce. “Dallo a me”, gli dice piano, risoluta.

André si volta verso di lei. Annichilito.

Gli faccio paura… Si vergogna del proprio aspetto. Aveva cercato, nei giorni scorsi, di adattarcisi, di abituarsi a quel nuovo viso, le rare volte che, di sfuggita, è capitato a portata di specchio, voltandosi rapidamente, di non farci caso. Ora, vorrebbe solo nascondersi.

Le fa un cenno, come a dirle di sottrarre il bambino a quella vista impietosa.

Annuisce, lei, tenendo gli occhi nei suoi e, continuando a tranquillizzare Daniel, lo porta via.

 

Sono giorni, ormai, che trova scuse per non incontrare il padre.

Oscar cerca di distrarlo e non sa che dire, per le paure di Daniel e per André, mortificato da quella reazione, anche se con serenità prova a non drammatizzare ed è il primo a cercare di considerare che il bambino è traumatizzato e deve solo abituarsi all’idea del “babbo cucito” – ha detto proprio così, strappando un sorriso al figlio impaurito, e a lei. Poi, ha continuato: “Così possiamo giocare meglio ai pirati”, facendolo ridere suo malgrado. Ha proposto che Oscar interpreti una bella piratessa solitaria, anche lei con una benda su un occhio, dai lunghissimi capelli biondi, e con l’emblema di un teschio su campo rosso.[2] Ma Oscar ha protestato che lei detesta le mascherate, anzi, ne ha avuto abbastanza, e così lui si è messo a supplicarla, le mani giunte, “Non puoi fargli questo, pensa a tuo figlio”, una scena da attore consumato.

“Taci, demente!”

“Allora preferisci interpretare una bellissima dama rapita dai pirati, con un abito lunghissimo e dei vertiginosi tacchi!”

Lo fulmina.

“Per non parlare della scollatura”, aggiunge lui, sornione, a voce più bassa.

“Sì! Sì!” Approva Daniel, a cui sfugge un sorriso, e Oscar li abbatterebbe tutti e due, la festante e malconcia “Alleanza Grandier”.

 

È ora di fare la prova generale.

Chiude gli scuri, le tende. Solo qualche candela. Senza mai lasciarlo. Gli ha spiegato che è solo un taglio. Che l’occhio c’è ancora, solo è malato. Che il padre non è diverso, per questo, e che non è cambiato niente. Daniel lo sa, è spaventato, ma scherzarci sopra, i tentativi di André di alleggerire la tensione, le storie di pirati giustizieri e di funzionari corrotti e rapaci, lo hanno aiutato a rilassarsi. Anche se Oscar giura di continuare a detestare le mascherate e in certi frangenti quasi odia la sfrenata fantasia di lui, quella capacità dissacrante di prendersi in giro.

“Togli le bende”, dice ad André, cercando di infondergli fiducia con lo sguardo. “Avanti…”

Poi, resta lì, ad osservare, le labbra serrate. Un nodo alla gola.

“Ecco, così”, la mano è corsa veloce ai capelli, glieli ha scompigliati un po’, ora coprono la ferita.

Lo osserva, il respiro sospeso. Che, infine, si scioglie.

“Ma sì, va bene”, approva.

Lo abbraccia, un attimo.

Lo guarda. Scuote la testa. “Sei davvero bello…” e lo pensa davvero, mentre lui si sorprende, all’inatteso complimento.

“Chiamiamolo”.

 

“Guarda, vedi che è tutto a posto?”, sussurra, con dolcezza, mentre stacca Daniel da sé.

Daniel ha paura, si stringe un po’ più dietro di lei, come a nascondersi, ma resiste, e, curioso, sbircia, poi, comincia a scrutare interessato e implacabile.

È incredibile cosa prova, quando, dopo giorni, gli si arrampica addosso. “Voglio vedere”, impera, deciso.

 

 

Ma ora che è più tranquillo sulla ferita, Daniel è sul piede di guerra e ha deciso di passare all’attacco. Le si stringe il cuore, quando vede Daniel, sul letto con André, che, nel gioco, lo abbraccia, poi protesta: “Tu sei uscito, e io ti avevo detto di no!”

Resta di sasso, Oscar.

Si allontana, perché quel peso non riesce a reggerlo.

 

È decisamente agguerrito, Daniel, e ne ha anche per Oscar.

“È colpa tua! Tu lo facevi uscire!” la affronta. “Sei cattiva!” grida.

“Lui non sta più bene! “Sei stata tu”, rincara, facendolo pesare.

Oscar, gli occhi sbarrati, considera come i bambini possano essere davvero cattivi. Ma quello che Daniel dice, è vero. È tutta colpa sua.

 

Si sente profondamente infelice. Carica. Preoccupata.

Senza dire niente, nel buio del corridoio, ferma André che sta passando. Si addossa a lui.

“Abbracciami”, gli dice piano. Come sconfitta.

E lui sente, attraverso la camicia, le lacrime che lo bagnano.

 

 

È strano come sappiano reagire i bambini. Forse è stato un bene che Daniel abbia espresso la sua rabbia. Ora sembra essere passato a una fase ulteriore. Una sorta di elaborazione, ma anche di reazione.

Ed è triste quello di cui non si accorgono gli adulti. Quel resistere coraggioso, ma le notti di incubi. Lo scrutare con paura agli angoli bui della casa. Cose di cui non si parla, per timore che si avverino. L’impatto, per la prima volta, con la paura di perdere suo padre. Che non guarisca. Che un giorno svanisca.

Quando è solo, continua a disegnare. Pensieroso. Colpito.

Guarda Oscar, ormai, più che rabbioso, spaventato, chiedendosi se succederà anche a lei. Vorrebbe domandarglielo. Ma non parla. Si tiene tutto dentro.

Lei, nessuno di loro, ha modo di accorgersene.

 

Finalmente può sorridere, Oscar, pallida, ancora molto provata, al pensiero di Daniel così attaccato al padre. Sembra tornato quello di sempre, apparentemente e ora, più di prima, non lo abbandona mai. Ha paura di lasciarlo. Di cederne la custodia. Come se, finché c’è lui, un incanto lo protegga.

È come se pensi di poter esorcizzare con la rassicurazione della propria presenza il timore di perderlo, di vederlo farsi male. E, così, ogni attimo che André ha libero, pretende di stare con lui, lo riempie di attenzioni e affetto, e André lo coccola più di prima. Ormai, sono inseparabili.

André ha imparato a metterlo a parte della sua nuova condizione e gli racconta che, ora, nella realtà, non vede la profondità, ma in compenso la può vedere nelle immagini. E Daniel pretende, allora, di sfogliare assieme a lui libri, di guardare quadri, e di sapere come sono, per suo padre. Se ci si può camminare dentro, quanta distanza, e come gli appaiano. Sembrano pieni di risorse, quei due. Serra le braccia attorno al corpo. Se solo André potesse stare bene, si dice.[3]

 

È un attimo.

La abbraccia, disperato, Daniel, mentre le lacrime gli rigano il viso. E lei, attonita, non può fare altro che stringerlo, perché non c’è consolazione. E lui è così piccolo.

Aveva sperato stesse superando il trauma del ferimento di André. E, invece, ora ha paura anche per lei. E cerca disperatamente un conforto, una spiegazione.

“Tu non mi lasci, vero?!”

è inspiegabile come un bambino di quell’età pensi alla morte. A qualcuno che potrebbe non vedere più. E vorrebbe tranquillizzarlo “No, sono qui, lo vedi…”

Ma non è una risposta, e anche lui lo sa.

“Che… che succede, se mi lasci solo?” Tra i singhiozzi.

“Ma io sono qui, con te, ora…”

“Sì…” Poi, più piano, come placato, “Non succede, vero?” Sembra come, in una infinitesima parte, rassicurato. Forse, si dice, è riuscita a dargli delle coordinate più concrete, comprensibili.

“No… no, non succede…”, e c’è un piccolo sollievo, perché l’ha distratto. Ma si domanda come abbia potuto pensarci, mentre, nella penombra della stanza, seduta sul divano, continua a tenerlo abbracciato forte e a cullarlo, e il suo pianto sembra, lentamente, calmarsi.

 

è molto apprensivo…”

Gli ha accennato brevemente a quello che è accaduto. È rimasta ad osservare la sua espressione, prima stupita, poi confusa, addolorata.

“Già…” L’ha notato anche lui. “Non sono riuscito a proteggerlo…”

Un sospiro.

In parte crede sia vero. E sa che è anche colpa sua. “Non credo che un bambino vada tutelato da tutto…” Si sofferma a guardarlo. Vorrebbe poter sapere cosa pensa. “Ma, sì, in qualche modo, dovevamo ripararlo da certi traumi…” si accolla anche lei la responsabilità.

È un fatto che chi viene eccessivamente protetto, pare fiondarsi nei peggiori guai, con troppa fiducia nel genere umano, nella vita rosea. Ma è altrettanto vero che averne viste troppe può bloccare… è così difficile fare la cosa giusta, anche con le migliori intenzioni.

 

 

“Se tu non sei la mia vera madre, io ti voglio bene lo stesso…”

Un attimo, la verità in un attimo.

Quando lo ha capito, sul principio non ha avuto reazioni. Poi, si è sentito strano. Come fuori posto. Solo. Tradito. Ingannato. Pieno di domande. Dubbi. Sul come fosse la mamma, dove fosse – anche se qualcosa aveva intuito –. Sull’affetto di Oscar. Sul perché avessero taciuto. Sensazioni che si erano affacciate come domande. Mentre sentiva un dolore lentamente impossessarsi di lui. E avrebbe voluto che niente cambiasse. Tacere e non chiedere niente. E non aver mai udito. Ma non poteva. Poteva solo rimandare.

“Ma cosa dici…”

“Io lo so…”

“Io…”

“Émilie, Rose… lo dicono…”

Rabbia, sconcerto, indignazione. Parlare senza criterio davanti ad un bambino. Che deficienti! E lui che, a metà tra i loro mondi, così piccolo, sta attento a non usare il termine cameriere…

“Daniel, io ti voglio bene…”

“…” Fa timidamente segno di sì, senza guardarla, il respiro sospeso.

“Solo questo ha importanza.”

Lo abbraccia. “Tu stai bene con me?” Gli accarezza i capelli.

Lui annuisce.

è tutto qui… è solo questo…”

 

 

Gliel’ha detto, emozionata, poco tempo dopo. In un momento tra loro. Ha solo pensato che fosse giusto lo sapesse.

“Vedi, io sono contenta che tu ci sia…” Era imbarazzata, e lui taceva, sospeso. Ma ha continuato “Tu e André per me siete tutto… non voglio altro…”

Non ha risposto, lui, ma se l’è abbracciata. Non c’era niente da dire. Solo registrare, nel tempo, quelle parole. Che, anni e anni dopo, sarebbero tornate.

Ma intanto, quando lei cammina, lui le sgambetta dietro, e cerca la sua mano, fino a serrarla, e, orgoglioso, stringergliela e camminarle accanto.

 

 

“Com’era mamma?”

Gliel’ha domandato senza preavviso, mentre sta accoccolato sul letto, accanto a lei. Eppure, era da tanto che si aspettava quella domanda. E, forse, altre.

“Ti somigliava…” Gli carezza i capelli, la voce lontana. Lo stringe un po’ di più a sé. “Parecchio…” lo avvolge con lo sguardo. “Aveva i capelli lunghi…”

Daniel la ascolta, rapito. E non osa domandare. Mentre elabora le informazioni.

Lei continua a parlare, mentre ripensa con un senso di stordimento e rimpianto alle immagini di allora, alle sensazioni., come sospesa. Il tempo non le sembrerebbe trascorso, lei non si vede poi molto diversa – come si senta è un altro paio di maniche –, se non ci fosse Daniel, coi suoi cambiamenti, la sua crescita continua, a ricordarglielo. Se non ci fossero i segni su André. Ed è una cosa con cui fatica a fare i conti e quindi evita di farli.

 

“Le piaceva leggere.” Una voce, in un brivido.

Oscar lo guarda entrare nella stanza, le mani che scorrono attente sulla porta, ora che deve reimparare le distanze, a vivere senza profondità. Un nodo alla gola, di pena, dolore, rimpianto – troppe cose da spiegare –.

“E ti adorava…” Si siede accanto a loro due. Coi gesti lenti e misurati che ha da qualche tempo, le mani a precederlo, la destra che ha ancora un po’ meno forza dell’altra, ora che si è aggiunto quell’ulteriore segno e per poco il danno non è stato irreparabile. Se lo prende in braccio. “Che altro vuoi sapere?”

 

Lo accarezza con lo sguardo, lui lo sente e la ricambia. Poi, quando il dolore non si può nascondere, gira la testa. Lo sa, è costretto a muoversi con lentezza, cautela, a volte si blocca, stupito, fissando il pavimento, i gradini, la visione che non combacia coi movimenti che il corpo ricorda, i passi incerti. Ha capito che li ha sentiti, non voleva restare ad ascoltare non visto, non voleva neppure interrompere quel momento, ma neanche sottrarsi. Sa che le ha tolto un peso. E ora lo ascolta, grata, mentre, delicato, centellina le parole, per non ferire. Un giorno forse gli parlerà dei suoi, dei loro errori. Ora è un funambolo che glissa e sorvola su quell’intreccio di vite, anche quando risponde che, è vero, lui e Oscar si conoscevano da prima, che lui si era innamorato prima di lei, poi dell’altra e, poi, ma sempre, di lei.

E a Daniel, che ascolta le storie dei grandi, quel racconto pare come una favola lontana.


 

[1] Appunti vocali 18 novembre 2013.

[2] Omaggio ad uno dei personaggi doppiati dalla nostra Cinzia de Carolis e dovuto alla fantasia di Reiji Matsumoto. Ricordo che nel film Addio Galaxy Express, che io ho in edizione vhs Yamato, Massimo Rossi doppia eccezionalmente (e splendidamente) Harlock, quindi si può assistere all’incontro tra Esmeralda ed Harlock, ed al duetto dei nostri doppiatori. Ricordo anche l’episodio di Excel Saga in cui, di nuovo, ricompaiono gli stessi personaggi in una impagabile parodia, con i nostri doppiatori.

[3] Da appunto 15-11-06, trascritto il 17-11-06.

 

Laura, autunno 2006, primavera 2007, 2008 e fino ad aprile 2015 pubblicazione sul sito Little Corner aprile 2015

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

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Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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