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Christine

Parte XXIX

Warning!!!

 

The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

 

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The Copyright of Lady Oscar/Rose of Versailles belongs to R. Ikeda - Tms-k. All Rights Reserved Worldwide.
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

 

Riemerge lentamente dal limbo dell’incoscienza. Percepisce delle voci, attorno a sé. Rumori, inizialmente, poi riconosce quella di lei. La nonna. Un uomo, il dottore… ma cosa… prova ad aprire gli occhi, ma è il buio.

Si spaventa. Cerca di alzarsi, agitato, ma il dolore è troppo forte, lo piega. Come qualcosa che taglia in due la testa. E qualcosa alla mano…

“André… stai tranquillo…” la voce di lei intuita a stento. Accorata. “Va tutto bene…”

Si aggrappa a quelle parole, ma non ricorda… solo sensazioni. Dolore. Lei che è tutto, tutto… se lei dice che è tutto a posto, è così… il dolore è lancinante.

Si tocca, e non gli sembrano suoi la mano, il viso. Quel contatto estraneo vicino all’occhio, che gli fa così male. E non vede. Non vede niente. Gli gira la testa. Ha la nausea.

“Non vedo…” articola.

“Tenetelo fermo, per favore…”

Oscar annuisce, stringe le dita gelate attorno alla mano di lui.

L’occhio… e, faticosamente, affiorano le immagini – curioso come la mente sappia ricrearle, anche nel buio della vista –, i ricordi. Brandelli di quello che sembra successo. L’impatto violento, bruciante, prima, alla mano, poi, la fine di tutto, al viso. Le forze che mancano. Non vede più niente. Ma ha nelle orecchie un ronzio terribile, che non smette… non smette, e nel corpo il suono sordo dell’impatto col terreno, il frusciare della stoffa, i capelli, il suo corpo che si piega e soffre, come in un incubo di suoni che sovrastano la ragione e lo fanno impazzire.

Lei che grida. Lo chiama. Lei che lo stringe, forte, è un ricordo di aria mossa, capelli, la sensazione del suo corpo vicinissimo, la voce, terrorizzata, spezzata, accanto a lui. Quella mano sulla spalla, come a proteggerlo, l’altra sulla sua, e poi, sul viso, a scostargli le dita sporche di sangue. L’orrore nel grido, forse nel vedere la ferita, lui non lo sa... Poi, la delicatezza nel tamponarlo, piano, e parole sconnesse, dolci, a rassicurarlo “Ora andiamo a casa… stai tranquillo”.

Poi più niente, l’abbandono e basta. Niente altro, non sa come l’abbia trascinato fin lì, niente, se non la lenta, progressiva acquisizione della consapevolezza che sia accaduto a lui. Che poco prima stava bene, solo infreddolito e un po’ giù di morale, e ora è a letto, annientato da un dolore che non passa. Che quei lampi di visioni, nella notte, gli squarci di voci, grida, appartengono alla memoria di qualcosa che è capitato a lui. Una memoria visiva ma ora tutto è immerso nel buio.

Ha mille pensieri. E insieme il vuoto. Barlumi di coscienza.

Daniel…

Daniel, come glielo spiegheranno? Avrà paura…

Delira, nella febbre. C’è come un suono, discorde, che non smette, non smette. “Basta… per favore…”

Scambia sguardi preoccupati con la nonna e col dottore, Oscar, mentre non smette di tenergli la mano, sfiorarlo in una carezza, pallida in viso.

Ricorda la sua stretta. Poi, di nuovo il nulla…

 

Affiorano dalla memoria altre voci. Più lontane. Quella, preoccupata, di lei. “Perduto?”

I singhiozzi di sua nonna.

“E… la vista, dottore…” ancora le sue parole. Che tremano.

“Se non ci saranno complicazioni, infezioni…”

 

È successo tutto troppo in fretta, pensa lei. Ricorda solo la freddezza di portarlo a palazzo, il dottore non sa dov’è casa loro e lì c’è più aiuto.

Non sa da dove l’abbia tirata fuori. Né da dove sia nata la forza che le ha permesso di trascinarlo fino a lì, sola. Come abbia fatto, con lui che non si reggeva in piedi, completamente abbandonato contro di lei.

 

Era voluto rimanere ad aspettarli, Daniel, e l’ha visto.

Ha sentito rumori, voci, è sgattaiolato fuori, sorridente, pregustando la gioia di abbracciarlo, poi, è crollato tutto.

Fuori dalla stanza, prima abbracciato da Mme Jarjayes, poi trattenuto a stento, piange, disperato. Spaventato. Il sangue. Il padre ferito. Le cose diverse da sempre. Le voci dei grandi. La loro paura. La sua.

Perché gli è successo?

Chi è stato?

Non sa cosa rispondersi.

Ha paura sia colpa sua. Che aveva desiderato gli capitasse qualcosa di male, per punirlo dell’abbandono di lui. Che l’aveva odiato. Ma lui gli vuole bene. Un bene infinito.

Dentro, Oscar sente la sua voce. Lo raggiunge, si inginocchia accanto a lui, , impaurito, cercando di trattenerlo per la vita, non sa come fare, non lo sa…

"Papà sta bene… Sta bene", gli dice, la voce incrinata, anche lei piange, e volta la testa per non farsene accorgere. “Ha solo un taglio…”

La tira per la mano. "Andiamo… da lui…", insiste. Oscar si sente senza possibilità di scelta.

Scuote la testa.

“Lo voglio vedere…”

“No…”

“…” Abbassa la testa, le labbra che tremano, gli occhi pieni di lacrime. “Voglio vedere che sta bene!”

Resta lì, di fronte a lui, non vuole vederlo così. “Va bene, ma prima ascoltami.”

Lo costringe a guardarla negli occhi. Gli serra tremando le mani gelate. Vorrebbe dargli forza, ma teme di trasmettergli il suo terrore. E Daniel sembra morire di paura, pallido. Intuisce che lei non sa come parlargli.

“Ascolta, non spaventarti… ha solo un taglio, piccolo… coperto da una benda… non si vede…” Ripete, sperando serva. “Guarisce presto…” Ma non lo sa, il bambino le sembra sempre più spaventato.

E vorrebbe domandare dove, il taglio, Daniel, ma non osa, crede di aver capito e non parla.

“Papà sarà diverso, adesso?”

“No, amore, no…” lo abbraccia forte. Forse sì… un po’…

Lo prende in braccio. Forse dovrebbe dirlo, ma non sa come fare. Non lo sa davvero.

 

André è disteso sul letto, il dottore lo sta ancora medicando. C’è anche la ferita al polso destro, quello che è stato colpito per primo e il medico l’ha esaminata preoccupato, prima, e ad Oscar si è stretto il cuore, ancora di più.

Resta lì con Daniel che, a lungo, in silenzio, osserva la scena, intimidito. Stretto ad Oscar. Il respiro in piccole prese, lente.

Lo tiene saldo, non smette di accarezzargli la schiena, come per tranquillizzarlo.

Ma quando il dottore si sposta e lui vide il padre, il viso, le bende, si nasconde contro di lei, in un gesto repentino, abbracciandola più stretta.

“Vuoi che andiamo via?” Parla con dolcezza, piano. Non gli domanda se ha paura. Non vuole metterlo sulla difensiva. E ha paura lei per prima, ad affrontare quella realtà…

Ne ha tanta di paura, Daniel. E vorrebbe fuggire. Paura di quelle bende. Di cosa nascondano, sotto. Paura che lui possa abbandonarlo. Che possano essere state le sue parole a fargli così del male. Ha paura, ma vuole vederlo, sapere che è vivo, che guarirà. Che sarà sempre lo stesso. Quello di prima. Allora fa segno di no, in silenzio.

Scendere, ma rimane attaccato alla mano di lei.

Non parla. Si avvicina soltanto. Serio. Osserva.

 

“Ora vieni, se vuoi torniamo domani… va bene?”

Annuisce. Vorrebbe dargli un bacio, mettere la mano nella sua. Ma è intimidito. Il padre è diverso, sembra un altro, anche se è lui. Sembra lontano. Sembra tutto così distante. Estraneo alla realtà che conosce.

Lo porta fuori. “Si sveglia, domani?”, le domanda, appena dietro la porta.

“Ma certo”, lo rassicura, mentre lo affida a sua madre.

 

“Mi raccomando, deve restare a letto, bendato…”

Annuiscono.

“Ora vi dico cosa bisogna fare… io tornerò domani.”

 

Domani… domani… quella parola sembra trovare un significato per tutti, tranne che per loro due. Vorrebbe tornare indietro. Che domani non arrivasse e tornasse ieri. Rientra nella stanza. Non avverte più la stanchezza, la mancanza di sonno. Prova solo paura.

 

Si sente malissimo. Debole. E vorrebbe solo trovare un nascondiglio abbastanza profondo e buio. Vorrebbe solo lei non lo vedesse così. Non ha forze, dipende per ogni cosa dagli altri, ed è tremendo. Il dottore gli ha spiegato. Conosce le proprie condizioni Sa cosa rischia. E non ha idea di come farà a tirare avanti, già da solo, e di come potrà crescere Daniel, essere in grado di stargli accanto, in quello stato.

Vorrebbe solo scomparire, annientarsi.

Almeno, sfuggire a quel dolore.

 

“André…” lo chiama, piano, Oscar.

Muove una mano, pare riemergere dallo stato di incoscienza. Ci sono più rumori. Dev’essere tardi.

“C’è qui Daniel…”

Un’espressione confusa. Un velo di preoccupazione.

Non vuole che il bambino lo veda. Ha provato ad alzarsi, la mattina, e non ce l’ha fatta, tanto era il dolore.

Cerca con la mano sana di coprirsi la benda. Gira il viso di lato.

Daniel è ammutolito. Avrebbe bisogno di essere tranquillizzato.

“Ehi…” lo esorta lei.

"Sei qui…", sorride debolmente, intenerito, confuso. Tende la mano verso di lui.

“Vuoi che ci mettiamo, qui, vicini…”, propone Oscar, attenta ad usare il plurale. Perché non si senta solo.

Si siede, piano, accanto ad André, cingendo la vita di Daniel.

Si sente più sicuro, ora, Daniel, con lei a proteggerlo e che gli sta accanto con forza.

Rivuole suo padre. Solo quello. Come tutte le altre volte insieme.

Come sempre.

Prova a guardare verso di lui. Solo un attimo, poi torna a girare il viso, per nascondersi la vista e nasconderlo agli sguardi indagatori. Si sente sotto esame.

Solo, domanda, piano. “Domani stai bene?” Incerto.[1]

Un dolore dilaniante, quello che prova. Nel sentire quelle parole. Nell’intuirne il senso. Nel rendersi conto che gli infliggerà l’ennesima delusione. E rabbia. Per le forze che gli mancano. Perché non riesce neanche a stare in piedi.

"Ma certo…” Quasi un peso enorme, pronunciare ogni parola con più forza di quanto non farebbe. Perché la voce gli si spegne, e lui non ce la fa, ogni cosa costa una fatica immane. “Stai tranquillo…", lo rassicura, cercandolo con la mano, senza riuscire ad accarezzarlo.

Prova la sua stessa rabbia, Oscar. Lo stesso dolore. Di fronte alla paura di Daniel. Alla debolezza di André. Ma, intuitivamente, riesce a suggerire: “Se papà ancora non si sente bene, vieni tu a trovarlo, d’accordo?”

Annuisce, Daniel.

“Così guarisce prima.”

Un cenno a lui, gli sfiora la mano. Lui le cerca le dita, le stringe debolmente.

"Adesso vai con Oscar…", articola André a fatica.

 

Fuori, Mme Jarjayes lo aspetta.

Lo sguardo di Daniel non è quello di un bambino. Non lo è mai stato neppure quello di André, da piccolo. Lo prende per mano, cerca di parlargli. Ma lui rimane ostinatamente in silenzio, gli occhi lucidi, cercando di trattenere le lacrime. Solo quando rimangono soli, al riparo dallo sguardo di disapprovazione del generale, dalla curiosità della servitù, sbotta, piangendo, rifugiandosi tra le braccia di quella che ha sempre considerato una nonna.

 

 

Si appoggia allo stipite della porta, le mani in tasca. È pallidissima, devastata dalla ferita di André. Non lo lascia un attimo. Ma, più della stanchezza, è la preoccupazione per la sua vista.

“Non lo so”, dice piano. “Vuoi provare tu…”

La madre la guarda. Sente tutta la pena, in quei momenti. Sa che Oscar ha una sola cosa per la testa: la paura che lui perda la vista. Non può essere così lucida da pensare anche al bambino.

“Io non so proprio come fare…” si passa le mani sul viso.

 

Un sorriso la illumina. Il primo da giorni.

Se ne accorge, André, si ferma a contemplarla.

“Cosa c’è?”

Porta ancora la benda, ma va decisamente meglio e scoppia di energie, anche se deve stare attento con la mano destra.

“Niente, pensavo a te…” Deve sentirsi davvero meglio, per aver insistito per tornare a casa loro, e, ora, cammina, ancora impacciato nei gesti e nelle distanze, ma lì, accanto a lei. I dolori, prima fortissimi, sembrano dimenticati. Poi, raddolcita. “Sono contenta di tornare a casa…” e vorrebbe stringergli più forte la mano, per trasmettergli il suo affetto, ma, sotto le dita sente la fasciatura al polso e prova una fitta.

 

L’ha voluta, così.

Quasi di fretta. Subito.

Con l’urgenza di possederla.

Come se ne sentisse la mancanza da un tempo infinito.

È stato strano farlo. Riaprire gli occhi su di lui, diverso. E lui era diverso. Più accorato. Come disperato. Come dovesse colmare una mancanza.

E, allora, l’ha avvolto in sé.


 

[1] In questo passaggio devo ringraziare Alessandra e Luana. Anni e anni fa, ma, lo sapete, la pubblicazione procede con tempi diversi dalla scrittura.

 

Laura, primavera 2006-primavera 2007, rilettura estate 2014 pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2014

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

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