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Christine

Parte XXV

Warning!!!

 

The author is aware and has agreed to this fanfic being posted on this site. So, before downloading this file, remember public use or posting it on other's sites is not allowed, least of all without permission! Just think of the hard work authors and webmasters do, and, please, for common courtesy and respect towards them, remember not to steal from them.

L'autore è consapevole ed ha acconsentito a che la propria fanfic fosse pubblicata su questo sito. Dunque, prima di scaricare questi file, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli su di un altro sito, tanto più senza permesso! Pensate al lavoro che gli autori ed i webmaster fanno e, quindi, per cortesia e rispetto verso di loro, non rubate.

 

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The Copyright of Lady Oscar/Rose of Versailles belongs to R. Ikeda - Tms-k. All Rights Reserved Worldwide.
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Nota: L'idea l'ho avuta a Macerata, un pomeriggio del maggio 2000, mentre, camminando lungo le mura, andavo a fare spesa. Ho immaginato subito la I scena. Poi, subito di seguito, una successiva. Un pomeriggio, a luglio, ho cominciato a trascriverle e a lavorarci, come è mio solito, per intervalla insaniae.

Sebbene delle mie storie sia stata sempre la più piana, quella di cui avevo in mente lo svolgimento da subito, una svolta, maturata durante l’autunno del 2005, mi ha portato a cambiare un po’ il plot, rendendolo più disturbing. Tra l’altro, dato che BK, che mi richiedeva più energie, evolveva verso la fine, ho potuto tornare a lavorare su questo racconto, di cui, negli anni, avevo messo insieme parecchi appunti.

Questa nuova versione della prima parte contiene solo aggiustamenti cronologici in vista del seguito.

Il copyright dei personaggi appartiene a R. Ikeda – TMS-K.

Il copyright dei personaggi di Christine e Daniel, così come la loro rappresentazione, appartiene all’autrice. Le rappresentazioni di essi si trovano nelle immagini della vecchia versione del I episodio.

 

 

Oscar era una donna amata, in casa. Rompeva poco, c’era poco. Ora, però, le cameriere si lamentano, perché ha preso a comportarsi come un uomo: s'è trascinata in casa i gatti, il Grandier e il pargolo, e tocca a loro pulire...

 

Se qualcuno è sommamente soddisfatto, in questo periodo, incredibile a dirsi, è il generale. Impazzito per il “nipote”, giulivo si dà a versetti e moine che alle figlie mai ha riservato – e spesso neppure ai nipoti veri. Averlo in casa è diverso. Daniel ha, suo malgrado, trovato un sedicente nonno che lo riempie prematuramente di soldatini, cannoni, cavalli, inscenando, di fronte a lui, riproduzioni in scala di battaglie famose. Parla, racconta, il generale. Inventa storie. Sul tappeto di seta steso sul parquet, di fronte al povero nipote – acquisito – allibito.

“Non sarà troppo piccolo, per queste cose?” lo interroga Madame.

“Le donne non possono capire…” fa lui, deliziato, e già pensa all’Accademia, all’incarico, e a quando gli regalerà la prima uniforme – a proposito, deve contattare il sarto!!! Gliene regalerà intanto una per il compleanno. Su misura –.

 

André, che pensava di poter tirare un sospiro di sollievo, assiste terrorizzato alla caccia al nipote che, negli ultimi mesi, si è scatenata. La sua reattività, già azzerata dagli eventi, si riduce a sguardi muti e desolati. Poi, nei momenti in cui riesce a stringere a sé il bambino, la sera, come a proteggerlo, lottando contro la tendenza ad abbandonarlo al nonno e dimenticarsene per sempre, tanto, probabilmente starebbe meglio, si domanda perché questa generale tendenza a scambiare suo figlio per un pacco o un giocattolo. Forse l’essere orfano. Forse in quella casa davvero aspettano il maschio, dopo le intemperanze di Oscar che, per il generale, non riga abbastanza dritto. Forse… Capisce che per Daniel è solo un bene essere circondato da tanto affetto. Finché resta affetto. E non vuole danneggiarlo. Lui di prospettive da offrirgli non ne ha molte, vero. Ma gli pare un po’ presto strumentalizzarne già il futuro, e indirizzarne le scelte. Suo figlio è un essere umano, non un possesso. Né degli altri. Né suo.

 

Bussano piano.

Gli mette, complice e orgoglioso, una mano sulla spalla. Agghiaccia, André. Vade retro, avo del cavolo!!!

“Proprio un ometto, eh…” Fa la bella voce profonda del generale. E già sogna.

 

“Oscar, è folle, credimi!!!”

“Che ha combinato, stavolta?” Ne ha un po’ piene le scatole, di sentire tutte quelle storie per un pargolo urlante. Possibile che nessuno noti quanto strilla e tutti siano impazziti? O diventati sordi?

“Hai presente la culla?”

Annuisce.

“Ecco, c’era un fioretto, dentro!”

Ooopss… dev’essere una mania. “L’hai tolto?” Sconcertata. Pratica.

“Certo, poteva farsi male… ma…”

“Mhhh… potremmo provare ad appendere un cartello tipo ‘Vietato infilare fioretti ed armi in genere in una culla abitata’…”

“Già, pensa che bello…”

“Smettila, chi dovrebbe sentirsi strumentalizzato sono io: prima mi costringe a vivere come un uomo, ora è pronto a buttarmi via e a sostituirmi…”

“Non è bello fare parte dei piani di qualcuno…”

“No…”

“Beh, almeno non mi sono beccata un’educazione femminile. È già qualcosa…”

Improvvisamente, un’ondata di tenerezza. Le scosta un po’ i capelli dal viso. La guancia contro la sua.

Resta così, lei.

Poi, il braccio a serrarle le spalle. Contro di sé. Ti amo… “Ti amo…”

 

 

 

“Oddio, oddio, e adesso che gli dico??? Oddio, oddio, fermatelo! M’ha chiamato mamma…”

Mamma??? Ma de che???

Guarda André come a cercare aiuto.

Poi il dubbio “Sei stato tu, stronzo, ad insegnarglielo…” Mica ci ha pensato da solo?[1]

Lui fischietta e si guarda attorno, come a dire veditela tu… sembra divertito, il cretino.

Torna a squadrare, con sospetto, come aspettandosi qualche altro tiro, quel fagottino roseo che sembra non voler altro che metterla in difficoltà. Ma lei non si sente a suo agio. Ha paura di mostrarsi diversa da quella che è normalmente, di dismettere la maschera, di lasciarsi prendere da istinti che le fanno paura, di mostrare la sua dolcezza.

“No, no”, gli agita le mani davanti al viso e lui lo prende per un gioco e le afferra le dita. “Aiutoooo!!!” André se la gode. “No, no, NON SONO IO!!!… capito?”

E qualcosa Daniel deve aver capito, perché scoppia in un pianto dirotto, irrefrenabile, disperato, violento, il trauma dell’abbandono elevato a teorema, come a chiarire che i giochi li dirige lui, lui l’ha scelta, peggio per lei se non è d’accordo.

“No, no… dai… non è vero… su, ora calmati…” interviene André, mentre Oscar pensa di azzerarlo, lì, sul momento. Ma il bambino è inarrestabile. Piccolo tremendo viziato e capriccioso…

André lo prende in braccio, cerca di cullarlo, le parole sussurrate, il solito giro della stanza. Niente. Oscar vorrebbe sprofondare molto sotto terra. Rievoca Dante, l’altra parte, a testa in giù… una bolgia malefica sono queste urla che si diffondono, amplificate, mentre André si produce, col bambino, nel giro dei corridoi del piano, che di solito lo calma. Niente. Nemmeno aprire tutte le porte – più di una volta hanno sorpreso il generale, che, per fortuna, stravede per quel quasi nipote improvvisato, finalmente un maschio in casa! –. Stavolta sembra che Daniel abbia deciso che occorrerà ben altro per placarlo. Ritorna, scornatissimo, rintronato, dopo aver assordato mezzo palazzo.

Glielo consegna, manco fosse colpa sua.

“Avanti, diglielo che la ‘mamma’ scherzava”, la inchioda, lo stronzo malefico, soprattutto perché Daniel si placa. Piccolo malefico fagottino armato di padre fetente ma bellissimo che ripete “Maa… aaa” e lei vorrebbe scappare via.

“Scusa”, le fa notare lui, mentre la guarda trionfante, soddisfatto di averla incastrata, “e cosa dovrei dire, io, che non si degna di chiamarmi papà…” sembra pure un tantino deluso – vecchio istrione consumato –.

Ha paura di romperlo, quel giocattolo morbido e vivo. “Guarda che i bambini sono resistenti”, le ha fatto notare una volta, sorprendendola in quei suoi timori e con quella strana sicurezza – che a lei pare incoscienza – dei novelli genitori. E ha paura, perché è un essere umano come lei, non qualcosa di inanimato. E interagisce. Lo prende, piano, in braccio. E si stupisce di sapere come tenerlo, di come le venga naturale. Lo sa, ma se ne meraviglia ogni volta. E Daniel, lentamente, si calma, mentre lei si sente vagamente in gabbia e vagamente contenta.

 

“Ascolta, io non voglio che mi scambi…” annaspa, rossa in volto.

“Per???”

Stronzo maledetto.

“Eddai…”

Tira un respiro profondo. “EEEEE…..”

“…” La guarda impietoso. E dillo.

“Per sua madre.”

Oh, ce l’hai fatta!

“E allora?”

“Allora? Ma ti sembra normale?” Cerca scampo.

“Per lui è normale.” Obietta.

Si è sinceramente rotta le palle.

“Lo fai solo perché ti imbarazza l’idea di un figlio.”

Stasera se vuole trombare, se lo scorda.

“Anche. Ma non è solo questo.” Mo ti sistemo, stronzo. “Vuoi che cancelli il ricordo di lei?” è rompere un tabù riferirsi all’altra. Lo squadra in attesa di una reazione. “Come se non fosse mai esistita? Pensi che sia giusto?” è con imbarazzo che si costringe a incalzarlo: si sente senza scampo. Si domanda se Christine aveva pensato che sarebbe scomparsa dalle loro voci, parole, seppellita in un limbo di dolore muto. Nella pena e nel ricatto del quieto vivere.

“No. No.” Sembra calmo. Come sempre. Ed è un sollievo, per lei. “Ma preferisci che si senta un orfano tutta la vita? Non vuoi che abbia una famiglia normale, come gli altri?”

“Normale?” Le viene da ridere e si intenerisce insieme, alla parola normale e a quella famiglia. “Normale con una come me?” E però sa che lui, orfano, sa cosa vuole dire.

“E cos’hai di strano?” Non ha voglia di comparazioni. Non più. Il passato l’ha chiuso nel cuore.

“Non mi vedi?”

“Io ti vedo come sei…”

“Non dire idiozie…”

“Tu sei una persona dolce.” Solo che non vuoi ammetterlo. Se glielo dice con quel tono, guardandola in quel modo, potrebbe anche convincerla.

“Ma…”

“E gli vuoi bene, solo che hai paura.”

“Di cosa?”

“Lo sai…”

“Oscar, vedi tu. Ma il bambino merita una situazione normale.”

È colpita, Oscar, dall’atteggiamento di André. E, pensa, forse si sta davvero riprendendo. Se ripensa a com’era stato passivo, di fronte ai genitori di Christine, se torna con la memoria a quei giorni, in cui lui non reagiva e si sarebbe fatto portare via il figlio, se lei non fosse intervenuta, ora, questa determinazione, la rende orgogliosa di questo nuovo André che ha di fronte.

“Come vuoi, ma un giorno dovrai parlargli di lei…”

“Certo”, come a dire chissà, in un futuro remoto, come a scansare il problema. Ovvio, per lui è tutto a posto. Lui è il padre. Ma lei no, non è la madre. Non è niente. E per quanto si stia affezionata a questo bambino, sa che non è quello il suo posto. Sa che un giorno lui reclamerà una spiegazione. E se ne preoccupa.

E sa di non voler entrare neanche come sostituta in un ruolo. Il Grandier non può essere prendere o lasciare, tutto o niente. Questo, lui deve capirlo.

E neanche vuole perdere la sua vita, i suoi spazi. Così, per ora si divide tra il palazzo e la casa. La casa serve per quei rari sprazzi che riescono a rubare. Il palazzo come nursery e la bolgia infinita attorno al lattante.[2]

 

Si toglie i guanti, li lascia sulla commode. E, subito, è colpita da quell’immagine. Lui sul pavimento che fa giocare Daniel, un ragazzino che gioca con un bambino, mentre un altro inverno è andato e un’altra primavera quasi esplode alle porte, verde e rigogliosa. Non sembra un padre, pensa Oscar, mentre osserva il disordine caotico di quella stanza. A volte si domanda come riesca a resistere, lui, espropriato da contenitori, ceste, pannolini, giochi, tutti segni della presenza del bambino. Quanta devozione occorra, per arrivare a quel punto.

 

Poi, subito dopo averlo riconsegnato alla nonna, la prende per mano, complice.

E corrono via, chiudendosi tutto alle spalle.

 

Sono lenzuola. Cuscini. Sono assalti furiosi. Respiri.

Dita che s’intrecciano.

Labbra.

Ondate calde e piene, che quasi la feriscono. Per l’irruenza. La potenza.

Quasi non riesce a rendersi conto di essere proprio lei che lui desidera, con tanto, infinito ardore. Con quei movimenti con cui la prende, con cui la fa gemere.

Quando le è tutto dentro, e la vorrebbe ancora di più, se solo si potesse. Come a possederla tutta.

Caldo. Immenso.

 

E lei, l’avvolge nelle sue ondate.

E a lui sembra d’impazzire.

 

Lo sente respirare piano, nella notte.

Con una mano, imperiosa, le cinge la vita e le impedisce di muoversi.

È strano riabituarsi a dormire insieme. Abituarsi, si impone di correggersi, se pensa a quella manciata di occasioni, e, poi, l’altro, che, talvolta, ricompare, importuno, in fondo al cuore e lei lo ricaccia via.

Non era stata male, sola, una volta che si era abituata. E ora sembra così difficile riconsiderare la possibilità di una vita con lui.

 

[1] Grazie a Sydreana e ad Elisa che mi hanno fatto notare la cosa.

[2] 26-3-2007.

 

Laura, primavera 2006-primavera 2007, pubblicazione sul sito Little Corner giugno 2012

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

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