BK's Night

 Parte X

 

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Prefazione alla nuova versione.

Ho riletto il pezzo, a distanza di oltre un anno, e ho sentito che, in un passaggio, qualcosa stonava fortemente col mio stile e col mio sentire. Troppi aggettivi. Troppe parole. Un'occhiata alle note mi ha confermato quello che ricordavo: avevo apportato una revisione seguendo i consigli di una proof reader e, in effetti, lo stile di certe parole (per la precisione, quelle corrispondenti alla nota [3] nel testo), che, pure, avevo scritto io, si integrava male con i suoi suggerimenti di stile -nel cercare di seguirli- e, ancora peggio, con tutto lo stile di BK. Perché è difficile rendere qualcosa con uno stile che non ci è proprio. Non mi era sembrato così lo scorso anno. Eppure, il tempo dà più obiettività e, così, ho recuperato la versione originale del testo e ho deciso di mettere on line quella, perché dia conto di quello che è il mio stile, forse rude, certamente senza orpelli.

 

Furono giorni grigi, per André. Senza di Oscar, si sentiva come perso. Il generale lo aveva subito impegnato, mandandolo a seguire per lui una serie di questioni, ma terminato questo, la tristezza lo avvolse di nuovo. Chissà perché, poi, si disse. In fondo, Oscar stava lavorando – e lui anche -, non l’aveva certo deciso lei quel cambiamento di programma. Si sdraiò sul letto a leggere, ma presto la vista si stancò, le lettere si confusero, le frasi divennero incomprensibili. Si sedette, la testa tra le mani. Scese dalla nonna, che lo tenne occupato con una serie di lavoretti interminabili. Alla fine, la giornata era trascorsa e lui si sentiva vuoto. Rabbioso, forse più verso se stesso, spronò il cavallo fino a Parigi, infilandosi in una taverna, la prima che gli capitò in quel vagabondare. Voleva solo starsene un po’ tranquillo, trovare pace. E non pensare più.

 

Oscar partecipava con particolare indifferenza ed impazienza all’ennesima riunione dopo giorni e giorni. Non riusciva a non considerare quantomeno sperticate le esternazioni che, sui sediziosi, facevano quei nobili impomatati, in divisa – come lei d’altronde – solo per necessità di casato. Inoltre non se la sentiva di condannare persone che cercavano soltanto di diffondere un minimo di condizioni civili presso la popolazione, che, per la maggior parte, viveva male e oberata dalle tasse. Era forse stato per André, per l’incontro con Bernard, era forse stato per la considerazione di avere attorno borghesi, ma aveva sempre più la netta impressione che quei nobili fossero solo arroccati nella difesa di privilegi feudali che ormai non avevano più senso. Così, quella mattina, dopo essersi trattenuta a stento da un paio di osservazioni sferzanti, cercò di non ascoltare più le cose che venivano declamate con pompa ed ostentazione, cercò rifugio nei propri pensieri. Pensieri penosi, a tratti, da affrontare. Stranamente tristi, per avere come protagonista lui. Chissà cosa stava facendo… E, ad un tratto, come un lampo, le tornò in mente una frase. “Mi girava un po’ la testa…” Quelle parole, che erano rimaste sopite nella sua coscienza per tutto quel tempo, improvvisamente si collegarono ad un’altra scena, in un altro luogo. Provò un brivido. Doveva vederlo. Doveva parlargli. Sapere. Ma come? Come? Si alzò decisa e, con discrezione, si avvicinò a Girodel.

Victor trasalì a quella vicinanza. Sentiva l’odore dei suoi capelli, il tono confidenziale della sua voce, il tocco della sua mano sul braccio.

“Dite, per favore, al generale che ho bisogno di una giornata di permesso… E, dato che la missione termina domani, ci vediamo a Versailles”, tagliò corto lei.

Avvertì la perdita di quel contatto, l’assenza di quella voce, il profumo sospeso in aria. La guardò allontanarsi. Sembrava agitata.

Fece in fretta le valigie e partì immediatamente, in preda all’angoscia. Poi, a mano a mano, quando i pensieri presero a vagare incontrollati, furono la dolcezza, poi la tristezza, poi ancora la rabbia, la delusione, l’affetto, l’ardore, la delicatezza ad accompagnarla nel viaggio.

Arrivò che era tardi. Stanca, non vedeva l’ora di incontrarlo, quasi aveva dimenticato la ragione per cui era tornata. Era emozionantissima, mentre immaginava la sua sorpresa, salendo le scale. Eppure, nessuno rispose quando bussò alla porta. E neppure quando aprì. Lui non c’era. Una rapida ispezione alle stalle le confermò che doveva essere uscito. Perché sentiva un misto di delusione e rabbia? Perché? In fondo, semplicemente, lui doveva aver pensato di trascorrere una serata fuori in sua assenza. Improvvisamente, provò un fortissimo senso di possesso, nei confronti di André. Dovunque fosse stato, gliel’avrebbe fatta pagare. Eppure, immediatamente dopo, lo stesso sentimento si trasformò in pena, all’idea di come doveva essersi sentito lui, in quei giorni. Si diede dell’egocentrica: niente poteva confermarle che la vita di André, la sua felicità, la sua tristezza, ruotassero intorno a lei, dipendessero da lei. Eppure, sentiva che era così. Che, per qualche ragione, l’equilibrio di André era legato anche a lei – e ne ebbe paura. Disagio. Inforcò il cavallo.

 

L’ennesima sera perso nelle taverne di Parigi. Solo, quasi abbrutito, nel tentativo di non pensare. Eppure, anche lì, pareva calamitare gente attorno a sé. Non era passato molto tempo, che un giovane gli si era seduto accanto e aveva attaccato a parlare con lui e quegli incontri erano divenuti un’abitudine quotidiana. Lui era solo stanco, non aveva neppure voglia di ascoltare, eppure si era trovato coinvolto, suo malgrado, in quelle conversazioni. Tante, sera dopo sera, come se si fossero dati un appuntamento… curiosamente, ogni sera si sorprendevano di ritrovarsi. Sarebbero forse rimasti delusi dall’assenza di uno di loro. E quel rito si rinnovava, sebbene André non sapesse spiegare perché continuasse ad onorarlo… non gli importava particolarmente né di Alain, né di quei discorsi, in cui egli si limitava ad ascoltare – già, era un buon ascoltatore, ma non aveva molta voglia di parlare. Di affrontare il suo problema. Strani incontri, quelli delle osterie… un giovane soldato arrabbiato col mondo e con le ingiustizie. Che avrebbe pensato, se gli avesse confessato che la ragione per cui lui si trovava lì era nobile, si chiamava Oscar ed era un militare, per di più donna? Per una volta ancora, André si illuse di eludere il discorso alzandosi ed andandosene. Ma la testa gli girava, vedeva male.

Qualcuno lo sostenne da dietro.

“Ehi, che ti succede?” Era ancora lui.

“Scusami…” Cercò di rimettersi in piedi. “Devo andare…” Non aggiunse ‘a casa’ – non era casa sua, in fondo. Cercò le briglie del cavallo. Avrebbe voluto restare solo, poter pensare un po’ a lei. Ma la testa era pesante, il buio rendeva più opprimenti le sue sensazioni.

“Avanti, faccio un pezzo di strada con te…”

“No, grazie, non ce n’è bisogno…”

Alain lo guardò allontanarsi, malfermo sul cavallo.

E si stupì quando, da lontano, vide un cavaliere approssimarsi, poi avvicinarsi a lui, quasi a proteggerlo. Un cavaliere biondo con un mantello grigio.

 

“Ma cosa ti succede?!”

Aveva alzato la voce senza riuscire ad impedirselo. Era rabbiosa, delusa, preoccupata. Non aveva avuto dubbi quando lo aveva notato. Una stretta al cuore, la tensione che si allenta, la paura che lascia il posto alla rabbia. E ora lo osservava, pallido, sudato, chino sul cavallo, senza capirlo, senza fare un passo verso di lui, sopraffatta dalla propria tristezza. Lo detestò. E detestò se stessa per aver tralasciato il proprio lavoro per uno che passava la serata a sbronzarsi. Non capì che era a causa sua – se ebbe il dubbio, volle scacciarlo -. Non capì la sua solitudine. E neppure la sua angoscia. Eppure, quando lui, in un attimo di lucidità, si rese conto che lei era lì, accanto a lui, come in un sogno, e, sorprendendosi di vederla, dolcissimo e indifeso, le disse, piano, “Bentornata, amore”, qualcosa le colpì il cuore, qualcosa che era dolce - eppure le faceva male. Vederlo ridotto così, rendersi conto di quanto lui fosse scoperto nei suoi confronti, aveva sgretolato il muro con cui lei aveva tentato di sfuggire alla delusione.

“Fammi salire”, gli disse, la voce quasi stanca.

Passò sul suo cavallo. Lo sentì serrarle la vita con forza, come se quella stretta,[1] il tenerla tra le proprie braccia, potesse rassicurarlo, in qualche modo. Come se avesse bisogno di lei. Le fece tenerezza. Lo sentì addosso a sé, perdersi tra i suoi capelli, affidarsi a lei, come un bambino. Lo amava anche per questo. Ne percepì il respiro, credette di intuirne le lacrime, leggere, bagnarle il collo. Avrebbe voluto saperlo proteggere da tutto – e non ci riusciva. Poi, capì che si era addormentato, come cullato dal passo del cavallo e rassicurato dalla sua presenza. Allora, lentamente, per non interromperne il sonno, Oscar lo condusse a casa nella notte stellata.

 

Da quando si era svegliata, quella mattina, si era sforzata di trovare in qualche modo ancora accettabile il suo incarico. Ma più ci pensava, peggio si sentiva. Era qualcosa che le si era rotto dentro definitivamente, dopo mesi di incrinature, una disaffezione via via sempre più radicale, una sensazione di falsità, che si erano rafforzate nell’ultimo periodo, dopo quello che era capitato ad André. Lei stessa si sentiva diversa, nuova, più forte, più determinata - lo era sempre stata, lo era nel lavoro, ma stavolta si trattava della sua vita e la sua nuova consapevolezza si alimentava dal sapere quanto lei contava per André, che lui la amava, che lui era per lei, l’aveva voluta, scelta, circondata col suo amore. E questo le dava qualcosa in più che prima non aveva. Cose che prima erano state importanti ora non lo erano più, era pronta ad allontanarsene, a voltare pagina. Ora come mai sentiva il bisogno di chiudere una fase della sua esistenza.

La vita a corte pareva la stessa. Tutto come di consueto. Passò dai suoi uffici, sistemò alcune questioni, trovò Girodel più caloroso del solito, ma non diede alcun peso alla cosa. Si sorprese, dunque, ai brusii e alle occhiate che accolsero il suo passaggio, quando si recò a salutare la regina, che sapeva molto preoccupata per la salute della principessa Sofia.[2] La ragione non tardò a capirla.

“Come osate presentarvi qui?” l’apostrofò la Polignac appena la vide.

“Contessa, per favore…” intervenne Maria Antonietta. “Non siate precipitosa.”

Oscar non capiva. La regina pareva imbarazzata. La Polignac godeva pregustando il trionfo. André, che l’accompagnava, era alquanto perplesso.

“Maestà, con quello che ha fatto…”

“Scusate, contessa”, la interruppe Oscar, “potrei sapere cosa avrei fatto?”

Si intromise la Lamballe.

“Si in giro dice che siate una…” arrossì.

Oscar la guardava interrogativa. Proprio non riusciva a figurarsi cosa dovesse essere.

“Una… una puttana…” terminò la principessa con gran difficoltà. Il suo carattere non l’aiutava certo in quella messinscena.

Oscar era sbalordita. André pure.

“Io una peripatetica??? Ma per favore” Scoppiò a ridere. “E, di grazia, con chi avrei dovuto esercitare quest’arte…” La stava chiaramente prendendo in giro. “Uomini, donne… non so, ditemi voi…” Lanciò un’occhiata eloquente intorno. La platea l’accolse ridendo di gusto e la povera Lamballe scappò via, mentre Oscar commentava “Ma non lo sapete che sono strettamente monogama?”, strizzando l’occhio ad André che se la rideva.

“Ma che impudenza!” La Polignac non poteva sopportare che il piano si rovesciasse contro di loro. “Siete senza vergogna! Dovreste scomparire da qui!” Doveva assolutamente provocarla allo scontro.

“Non so davvero di cosa stiate parlando…” ribatté con calma.

Cominciava ad essere stanca del gioco. La contessa, invece, non aspettava, evidentemente, altro, per dare sfogo al suo gusto teatrale e alla scena madre che doveva aver pregustato per tanto tempo.

“Si dice che abbiate lucrato sulla faccenda del Cavaliere nero” ebbe cura di dire ad alta voce, guardando poi attorno a sé con soddisfazione per constatare gli effetti.

Oscar stavolta accusò il colpo. Già digeriva male la questione di Bernard in sé, ma proprio non immaginava il livello a cui le malelingue potevano arrivare, per gettarla nel fango.

“Già”, fece eco la contessa d’Ossun, la nuova favorita della regina, che, per non essere da meno delle altre due, era anche lei della partita, “si dice anche che abbiate avuto problemi con la giustizia!”

Oscar non se l’aspettava. Evidentemente avevano approfittato della sua assenza per tenderle una rete di chiacchiere attorno. Disgusto. Rabbia ed amarezza. Dolore. Questo, provava, nel dover subire quelle meschinità.

“E chi lo dice, di grazia?” ebbe la forza di domandare. A mano a mano, nella sua mente andava realizzando il senso di quell’attacco, l’invidia per gli encomi avuti per i casi della collana e del Cavaliere nero, il dubbio delle favorite che ciò potesse accrescere il suo potere – lei, che del potere se ne fregava… E la stessa Polignac aveva tentato d’infangarla durante il caso La Motte. Già, ora le era tutto più chiaro. Chissà se la regina aveva creduto loro…

“Guardate!”, M.me d’Ossun le gettò addosso con disprezzo alcuni fogli sgualciti. Oscar si chinò a raccoglierli. Sbarrò gli occhi. Dei pamphlet, addirittura! Pamphlet su di lei, di autore e stamperia ignoti, con varie accuse, che erano circolati proprio mentre lei non poteva fare niente per difendersi. André si era avvicinato a lei, le prese i fogli dalle mani, come se volesse risparmiarle l’umiliazione, diede un’occhiata.

“Andiamo via, Oscar”, le disse.

Oscar fece un cenno di diniego.

“Ho già fatto avere”, il suo tono era stanco ma fermo, “a chi di dovere il rendiconto circa la missione relativa al Cavaliere nero. Chiunque può esaminarlo.”

“E’ vero”, confermò la regina.

[3]“Quanto al guadagno che posso averne tratto”, le tremava la voce, un lampo le attraversò lo sguardo mentre con la mano scostava i capelli dal viso di André, scoprendone la cicatrice, “eccolo qui!”

Attorno ci fu solo silenzio. Aveva agito d’impulso, ora le era difficile mantenere il controllo dei propri nervi. La mano calda di André si sovrappose alla sua, gelata, costringendola ad abbassare il braccio.

Oscar, quasi delusa a quel gesto e, insieme, sollevata per l’imbarazzo di trovarsi in pubblico, il viso contratto in un’espressione dolorosa, che André non poté vedere, incontrò lo sguardo di Maria Antonietta.

“Ed ora, Maestà, chiedo il permesso di ritirarmi”, disse, poi si voltò, lasciandosi alle spalle le miserie della corte.

 

Fuori, nel corridoio, si fermò, tesissima.

“Che vigliacche! Non hanno altro da fare, nella vita…”

Stava per aggiungere qualcosa quando sentì, improvvisa, la stretta di André pesare sul proprio braccio. Lo guardò. Vacillava, pallido in viso, i fogli sparsi ai suoi piedi. Fu un attimo. Lo sostenne.

“André! André!”

“Scusami, Oscar…” sembrava sperduto, lo sguardo nel vuoto, oltre lei. “Ho avuto un capogiro”, tentò di giustificarsi.

Come stordito, si guardò la mano per un istante. Un gesto istintivo, che, però, Oscar notò con terrore.

“Che cosa ti succede?!” Lo teneva per le braccia.

“Non… non è niente”, cercò di tranquillizzarla. “I fogli… mi sono sfuggiti di mano… non ho fatto in tempo a fermarli…” sembrava quasi scusarsi, imbarazzato. “E’ un po’ diverso, adesso, con le distanze… E’ solo questo, non preoccuparti…” Le sorrise, incoraggiante.

Fece per recuperare i pamphlet, quando Oscar lo fermò e si chinò a raccogliere i fogli caduti.

“Tieni.”

Glieli rimise in mano, guardandolo con dolcezza e tristezza.

 

 

“Come ti senti, ora?” S’informò Oscar.

Si erano seduti sul bordo di una fontana. All’agitazione si sommava la preoccupazione per André.

“Sto bene…” C’era qualcos’altro che lo impensieriva. “Oscar… ascolta… non devi prendertela”, disse meditabondo, i fogli dimenticati in mano. “La regina stessa non si è lasciata ingannare”, osservò. “Sono solo persone alle quali il potere ha dato alla testa…” Sapeva quanto Oscar potesse uscirne ferita.

Oscar lo guardo, sorridendo, per un attimo. “Devi ammettere, però, che hanno molta fantasia…” Pareva essersi ripreso perfettamente.

“E un pessimo stampatore”, aggiunse André, sollevato. “Guarda qui che pessima edizione che hanno tirato fuori”, le disse, porgendole i fogli. Poi, invece, li ritrasse. Un pensiero gli aveva attraversato la mente.

 

Oscar passò il resto della giornata coi suoi uomini, più silenziosa del solito, rabbuiata, meditabonda. André la osservava in silenzio. Avrebbe voluto parlarne ancora, gli era chiaro che lei stava ripensando a quello che era accaduto e sapeva che questo avrebbe radicalizzato le conseguenze, ma non ne ebbe modo o, forse, lei stessa lo evitò. Temeva di sapere cosa stava per fare, ma intuiva anche che quella decisione Oscar doveva poterla maturare in piena libertà. Poi, al tramonto, Oscar si recò dalla regina per prendere congedo definitivamente. A lui non rimase che guardarla allontanarsi, mentre le loro mani, dopo il bacio, si scioglievano lentamente.

La attese a lungo, senza nascondersi di essere un po’ agitato. Sapeva che quello sarebbe stato un cambiamento radicale nella vita di Oscar e, dunque, anche nella sua. Non gli era difficile indovinare… Oscar lasciò le stanze della regina con un turbine di sentimenti che le si agitavano dentro. La rabbia ed il risentimento del giorno avevano progressivamente lasciato il posto alla preoccupazione per André, alla tristezza, alla dolcezza dei ricordi, all’affetto per Maria Antonietta. Eppure, era stata irremovibile nella sua risoluzione – nel tacerla ad André che, forse, avrebbe cercato di dissuaderla – non ne era più così sicura-, e nel difenderla di fronte alla regina, che, come era prevedibile, aveva tentato di farle cambiare idea - e si meravigliava di come, cavalcando verso casa, tutto quello che era accaduto le apparisse come sfumato, quasi meno pesante di fronte alla vita, attorno a sé, che continuava a scorrere nonostante tutto, sorprendendola, ogni volta, con la sua bellezza, ma indifferente, senza scampo, a quelle meschinità. Si sentì meno triste, lasciandosi sopraffare dalle sensazioni dei colori che si stemperavano nell’oscurità e dall’idea che, in fondo, tutto quanto, le vigliaccherie, la sua stessa vita, André –tremò al pensiero- era soltanto una piccola parte di un universo – eppure, contava così tanto. Si sentiva, insieme, presa dalla commozione, come di fronte alla musica, e da una malinconia infinita, per la consapevolezza di non poter fare niente. Sentì il bisogno di suonare. E di lui. Affrettò il passo.

Due immagini gli rimasero nella mente, di quella sera. Oscar che, al crepuscolo, si allontanava da lui verso la reggia e Oscar che, a sera fatta, era comparsa sul viale d’ingresso.

La vide rientrare, stanca e tirata. L’aveva aspettata nelle scuderie. Aveva preferito rimanere per conto proprio, quella sera. Le aveva tolto le briglie dalle mani quasi senza forze, si era preso cura del cavallo, mentre lei pareva come rotta. Eppure, nonostante la distanza che, senza nemmeno rendersene conto, quella sua passività metteva tra di loro, sentì l’affetto con cui lui la circondava e cedette al bisogno che aveva di dolcezza e pace. L’aveva aspettata per cenare e ora Oscar si lasciava cullare da quelle piccole attenzioni e si sentiva pervasa dalla riconoscenza per il conforto che lui sapeva portarle. Dimenticò che avrebbe voluto suonare. Volle soltanto lui.

A letto, più tardi, gli raccontò del colloquio. “Ho deciso di lasciare la Guardia reale”, aveva detto alla regina. E lui, in silenzio, tenendola abbracciata, era rimasto ad ascoltarla, senza interromperla, per lasciarla, finalmente, sfogare. Oscar non aveva fatto parola di quale sarebbe stato il suo futuro, il loro futuro - qualsiasi incarico sarebbe andato bene, aveva detto -. E lui non l’aveva chiesto. Forse per paura, forse perché sapeva di stare diventando sempre più debole, forse perché intuiva che qualcosa nel meccanismo che, agli occhi del mondo, gli consentiva di rimanere accanto ad Oscar, stava per incrinarsi. “Che cosa faremo”, avrebbe voluto chiederle. Ma quel plurale sembrava quasi una indebita intromissione nella vita altrui, qualcosa a cui lui non aveva diritto – o, forse, sì, ma non era giusto per lei. Sentiva, lo percepiva, che Oscar era sollevata, come se, dietro di sé, avesse davvero chiuso una fase, e per questo era più tranquillo. Il fatto, però, che le cose non sarebbero state più le stesse lo portava a considerare che, in qualche modo, anche lui ne sarebbe stato toccato e il non sapere come lo innervosiva.

“Sei preoccupato?” Oscar gli si era rivolta a bruciapelo.

Lui, sorpreso, aveva abbassato lo sguardo. Di solito non era lei a preoccuparsi di cosa lui pensasse. Aveva annuito. Lei gli si era fatta sopra, poteva sentirne i capelli addosso.

“Perché?” Sembrava stupita. “Non eri stanco?”

“Tu eri stanca?” Girò la domanda, guardandola negli occhi, l’espressione seria.

La prese per i polsi. Oscar, cosa ti prende… mi fai paura, a volte…

“Da tanto tempo”, fu la risposta. “Non andava più da tanto tempo…” Lui rimase in silenzio. Tra di loro l’atmosfera era come rarefatta. “Era una vita… falsa”, cercava le parole.

Finalmente riuscì a dirlo.

“Ora che cosa farai…”

“Che cosa faremo”, lo corresse lei.

“Intendi dire che sono parte dei tuoi progetti?” Si era illuminato.

“Sì…”, rispose lei, “solo che ancora non so quali sono…” Lo abbracciò stretto. “Una vacanza, prima di tutto. Poi, si vedrà.”

“Arras?”

“Arras!”

 

La mattina dopo, André raggiunse Bernard e lo incaricò di rintracciare lo stampatore mediante i tipi editoriali. In capo a qualche giorno si diffuse la notizia che il Cavaliere nero era rientrato in azione per visitare una tipografia lungo la riva della Senna e che aveva devoluto il ricavato, come suo solito, ai poveri. A corte venne fatto trovare un dossier con prove circostanziate contro la Lamballe, la d’Ossun e la Polignac. Analogo dossier fu consegnato, ad ogni buon conto, presso il Tribunale di Parigi. Se non altro, era stato il commento di André di fronte ad una sbalordita Oscar, qualche funzionario avrebbe incrementato i propri introiti col denaro ricevuto dalle tre per archiviare la pratica. Era comunque un modo per aiutare qualcuno…

“Chi… chi è stato di voi due?” Trovò la forza di domandare.

“Indovina…” fu l’enigmatica risposta dell’eroe che si affrettò a nascondere il piccolo taglio al polso destro.

 

Laura, maggio 2002. Revisione del testo, 30 settembre 2003. Ripristino della originaria versione sul sito Little Corner del settembre 2003.

Continua...

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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[1] Scena che mi è stata ispirata dalla lettura di “Controluce” di Alessandra.

[2] Nata il 9 luglio 1786 e morta il 14 giugno 1787 secondo alcune fonti, il 19 secondo altre. A. CASTELOT, Maria Antonietta, Milano, BUR, 1987, pp. 234-7; C. ERICKSON, Maria Antonietta, Milano, Mondatori, 1991-1996, pp. 221-37; E. LEVER, Maria Antonietta, l’ultima regina, Milano, Rizzoli, 2001, pp. 246-52; S. ZWEIG, Maria Antonietta, Milano, Mondatori, 1984, p. 183.

[3] Ho deciso di ripristinare la mia scena originale, scritta il 24 maggio 2002, eliminando quella che riportava anche le integrazioni suggerite da Alessandra e riportandola, per conoscenza, in nota. In data 30 settembre 2003. La scena, da ‘“E’ vero”, confermò la regina’ fino alle parole di Maria Antonietta ad Oscar, originariamente molto più breve e dura, fu integrata da me con alcuni suggerimenti di Alessandra. Ne è venuta fuori una versione più articolata, ma che, ancora oggi, non rispecchia il mio stato d’animo relativamente alla scena che volevo scrivere. Ho deciso, dunque, di recuperare la scena originale che, per fortuna, avevo conservato nel mitico BKCUT e che qui potete leggere.