L'alba
IV
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Questo testo nasce da un mio disegno e il disegno nasce da un regalo di Sydreana, un album da disegno formato panoramico, sempre desiderato ma che non avevo mai osato comprare perché mi ritenevo inadatta a usarlo, un tool, pennelli, colori.
Sono venuti fuori così due disegni, diversi per tinte e atmosfera, e quello che riguarda André l’ho realizzato negli ultimi giorni di maggio e finito il 3 giugno. Mentre lo disegnavo, mi rendevo conto che volevo dire qualcosa, che dietro quell’immagine di alba sbiadita qualcosa raccontava, anche se con un canone diverso, e poche righe.
Meno male che c’è la nonna! Se dovesse portare quel peso tutto da sola, non sa se ce la farebbe.
Ha preso l’abitudine di passare del tempo nella stanza di André.
Aiuta contro la solitudine imposta, rabbiosa.
Si ritrova, inquieta, tra le cose di lui. Si scopre a desiderare oggetti loro. Di tutti e due. Che, presentemente, mancano. Non esistono.
È diventato un conforto, questo aggirarsi tra le sue cose. Libri. Passare la mano su una camicia, nel cassetto. Dormire nel suo letto. Guardare dalla sua finestra. Condividere ciò che vede lui. Uno scorcio abbastanza diverso da quello delle sue stanze. Vedere… le si stringe il cuore. È vero che l’amore, a volte, fa male. Male davvero.
La pena la invade. Si rende conto, all’improvviso, che lui aveva movimenti più incerti. Più lenti. Era come se, gradualmente, tentasse di abituarsi alla nuova situazione. Apprendendo. Passo passo. Imparando a calcolare da capo le distanze con dati diversi. Elaborando le mancanze con l’esperienza di prima. E quella di adesso. Quando faceva le scale, con gesti trattenuti, e cercava il corrimano. Quando le mani lo precedevano, come a saggiare per lui l’ambiente. Le distanze.
Si sente, improvvisamente, malissimo.
Qualcosa di gelido e bruciante le serra il cuore.
Quasi le manca il respiro.
Per cercare di calmarsi, si siede alla sua scrivania.
Appoggia le mani sul legno.
Si concentra sul reale.
Sui particolari.
Gli inchiostri, di colori strani. Colori che a lui sono sempre piaciuti. Una cosa a cui lei in fondo non ha mai fatto caso. E a cui lui, invece, teneva moltissimo.
La carta.
La grana dei fogli.
Il legno chiaro del tavolo.
André.
André…
Quello consumato della finestra.
Che quasi lascia passare gli spifferi.
Il panorama oltre il vetro.
La stanza. I particolari. E annegare l’angoscia.
Non deve farsi sommergere. Deve uscirne incolume.
Si guarda attorno, ancora.
Alla ricerca della salvezza.
Mille ricordi che affiorano. Immagini. Lui. Loro due. Bambini. Poi, adulti.
Una mano tra i capelli. Una carezza timida.
L’emozione che erompe nel petto.
Lo scoprire l’amore… indovinarlo, sorpresi, nella confusione dell’amicizia, della consuetudine. La luce negli occhi che cambia. Un diverso stato nel cuore.
Che sobbalza.
Che gela le mani. In un tuffo.
Fa tremare la voce.
Una marea solida di emozioni la investe. Lì, anche lì, c’è tanto di loro. Si guarda attorno, implorando un appiglio per non annegare. Per non mollare.
Cerca di tornare alla realtà concreta. Scorre lo sguardo attorno a sé. Scrivania. Sedia. Letto. Finestra. Luce. Pareti. Penombra. Coperta consumata. È strano stare in una stanza così piccola. Senza un pianoforte. Senza comodità. Ricorda quando si intestardì a far entrare lì dentro un tavolo che fungesse da scrivania e, trionfante, trascinò personalmente una sedia di suo gusto sottratta a un salottino, mentre sua madre rideva e la nonna imprecava. Che gusti strani aveva, da bambina… e André si era beccato il tutto silenzioso. Tanto è per sedersi, aveva commentato. Meglio che studiare sul letto. Poi, però, sornione, quella sedia non l’aveva più mollata. Usucapita, precisava, scherzando.
È ormai una consuetudine venire a leggere lì. Gli ha fatto portare un lume migliore, ora, anzi, dopo, avrà bisogno di stancare meno la vista… sempre ammesso che torni. Sempre ammesso che, tornando, lui resti lì, in quella stanza, che non succeda qualcosa di miracoloso a ripristinare e, chissà, magari a perfezionare l’ordine delle cose, e delle loro vite.
Quel pensiero di qualcosa di loro, assieme, continua a tornare, così, di tanto in tanto, che lei quasi comincia ad accarezzarlo. A prenderci confidenza.
Quante volte, ormai, si ritrova a quella scrivania diversa, colpita dalla luce che attraversa gli inchiostri e, nel trascorrere del tempo, e delle ore, cambia, e si fa fredda. Incrocia le braccia, i capelli spiovono. Sente l’odore della carta. Del legno. Sotto la sua pelle. Chissà se, al risveglio, si avverasse la magia di trovarlo di nuovo lì, sorpreso dall’invasione?
È un pensiero improvviso che la scolla, dolorosamente, dall’ambiente di quella stanza intima e spoglia. In cui il pulviscolo e la luce e le ombre abitano con lei, e hanno vissuto con lui.
Ma l’impulso che le ha stretto il cuore e tolto il respiro, le fa scivolare via le dita dalla scrivania. Scendere i gradini di corsa, quelli di legno, poi, ai piani di rappresentanza, quelli di marmo.
“Nonna”, irrompe. Certa di trovarla.
Si rende conto di avere la voce spezzata.
“Vieni bambina…” l’accoglie.
E meno male che non la rifiuta mai, anche se è la fonte di tanti suoi guai.
“Cosa c’è”, la fa sedere lì accanto.
La guarda con occhi immensi. Dolorosi.
Scalda, aiuta, conforta, il vino. Mai, senza. Oscar attende che la governante glielo versi, poi va a rannicchiarsi nel suo posto preferito, tra una credenza e una cassapanca, dove quasi si illude di poter tornare bambina. Di poter ancora essere protetta dall’abbraccio di nanny, in cui le paure, le ansie si stemperano. Si stemperavano, un tempo. Prima. Prima…
Apre le labbra per parlare, poi rimane lì. Muta. Beve. Poggia il bicchiere.
Si stringe le braccia al corpo. Ancora incapace di esprimere a parole il pensiero lancinante, quella voce sorda nella sua mente.
Recupera il vino. Un altro sorso.
E un altro ancora.
Porge il calice e la nonna lo riempie.
Soppesa, titubante, i pensieri, le parole, troppo devastanti da formulare.
“È come se lo avessi ferito io”. Ammette, poi.
In fondo, glielo ha già detto, ma solo allora riesce, finalmente, a confessare fino a farsi male come e quanto si senta profondamente in colpa. Per aver causato la ferita di André, per essersi stupidamente intestardita in quella inutile impresa. Per la sua miopia, la sua insistenza dannosa. Immotivata. Senza contare che già da tempo sempre più sentiva innaturale e ingiusto restare a corte e avallarne il senso, imponendolo anche a lui – ma a lui non l’aveva spiegato –. Questo la fa stare malissimo. Questo immane senso di colpa, di stupidità, di sconfitta, di inutilità. Di nessuna rispondenza agli ideali di un mondo fittizio in cui si è parassiti. È per questo che lascia il lavoro a corte. Deve cambiare. Non si sente più di stare in quell’ambiente. Non ha più nessun senso, per lei.
È un fiume in piena. La nonna la lascia parlare. Si versa altro vino.
E, ammette Oscar, di essersi accorta che André, di fronte a quello che è successo, ha reagito cercando di ritrovare un suo equilibrio, concentrato su problemi pratici come prendere le distanze e reimpararle, riadattarsi, ma si sente stupida per non aver capito che lui aveva bisogno di tempo, e, invece, anche stavolta, gli ha riversato addosso i suoi problemi e i suoi tempi. Non si è resa conto che a lui serviva un momento per acclimatarsi. Tutto è successo troppo in fretta. E lui non ha incassato come al solito…
“È vero…” conferma la nonna. “Non è stato come al suo solito…”
Le tace quei momenti. Le risparmia di aver tentato di far ragionare André, che anche lui è un gran testardo, quando ci si mette, e la risposta è stata che, forse, ad Oscar non avrebbe fatto male poter ponderare un po’ senza avere sempre davanti lui, che sembrava la ragione prima del suo malessere e la cui presenza avrebbe finito per ricordarglielo continuamente. Lui, la ferita.
No, non è proprio il caso di dirlo alla bambina che già sta male a sufficienza.
Che gran casino, scuote la testa, mentre si versa altro vino sperando di abbattersi.
È volato giù dalle scale. È stato un attimo. Si rialza, malconcio. Dolorante. Umiliato.
“Va bene”, si dice. “Questa casa è piccola, ma certo non la conosco bene come l’altra…” non è tipo da arrendersi.
La perdita della profondità, però, è un problema già ora. Non osa immaginare il dopo. Meglio non pensarci, chiude le saracinesche dell’autocommiserazione. L’unica, è agire. Andare avanti. Rendere di nuovo decentemente vivibile quel luogo. Non per un maschio civile e dotato di nonna, ma per un quasi maschio ottimamente educato e abituato sì alla vita militare, ma di corte.
Oggi, pulizie di fino. Armato di stracci e catino, si dà alle rifiniture.
È tardi, quando, esausto, si ferma.
Urge lavarsi.
La mano sulla brocca, mentre le dita, nei gesti ormai consueti, vi scorrono attorno, riconoscendo la superficie, osserva se stesso allo specchio, nella penombra difficile della stanza. Si sorprende di quello che trova di fronte.
“Ehi, André”, si saluta, irridente, chiedendosi perché mai quel nome e non un altro, sorprendendosi a trovarlo adatto a sé, come nessun altro. Guardare la propria immagine riflessa: qualcosa che evita normalmente di fare, scrutando, ora, invece, a beneficio delle comari, se i capelli mascherino a sufficienza. La costernante fama di bello, di cui ha appreso per caso quando gli hanno riferito delle squinternate a corte, fan ossesse e incuriosite da colui che accompagna Oscar. Pure le ragazze a casa, dicono. E poca voglia di rispondere alle domande.
Ma, in un brivido, a tradimento, perché ha cercato in tutti i modi di distogliere i pensieri negativi, non può fare a meno di chiedersi, dopo, come sarà. E quando arriverà, il dopo.
Allora, all’improvviso, si trova di nuovo a considerare che non ha un futuro, che, se le cose peggioreranno e resterà cieco, allora, non ci sarà via d’uscita. Per uno come lui. Per chiunque, in realtà. Per vivere. Cosa potrà fare per continuare? Come, come si vive senza la vista, come si può lavorare e mantenersi? E Oscar, come reagirebbe? Non potrebbe più stare con lei, seguirla dovunque. Di nuovo, tutti i pensieri, inaspettatamente, sgusciano fuori.
Si sente impotente.
Che cosa resta, ad una persona che non ha più niente?
Niente e nessun potere.
Come sfuggire? Suicidandosi? L’ultima e più estrema forma di libertà di un essere umano, quando non ha più scampo, o, magari, appigli, casa, lavoro, denaro. Una libertà o una fuga? Si sceglie davvero, o ci si arrende? Sarebbe stato meglio, forse, un cuore diverso, e meno pensieri, e non essersi incontrati mai.
È peggio restare così, distanti.
Solo, nel crepuscolo, si rende conto di quanto sia cinico in questo momento, ma non riesce a non scandagliare tutto. O, forse, semplicemente, deve far ricorso al suo solito carattere, passare oltre e continuare a vivere. Perché lei è lì, e, se non ci fosse più, lui si sentirebbe perduto.
Lui, senza Oscar, non avrebbe il coraggio di essere più niente.
Forse è per questo, che ha pensato di tornare lì. Forse per poter ritrovare un posto proprio, oltre quello che condivide con lei. Qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa a cui tornare, oltre lei. Qualcosa di fondante. Ancestrale. Radicale. Non forte quanto l’amore per lei, ma latente, un ricordo persistente. Forse, chissà, lì potrà creare qualcosa attorno alla paura che lo attanaglia. Arginarla. Nel suo castello della paura. Costruito, giorno per giorno, pietra dopo pietra. Darsi una prospettiva. Pensare di avere una casa, di avere un rifugio suo, quando la notte verrà, o, magari, anche qualcosa per loro due. O forse no, forse è stata ed è solo necessità di prendere le distanze, di non dover sempre nascondere la paura in agguato ormai sempre più spesso. Di potersi rannicchiare e piangere, e provare, apertamente, terrore. Fare i conti con l’angoscia. Imparare a gestirla.
Eppure, sarebbe facile mentire a se stessi e a lei, sarebbe un modo di nasconderla. Forse, invece, lui ora vuole fare il punto. Affrontarla. Conviverci. E a lei non può dirlo.
Così, cerca di darsi da fare. Di non darsi per vinto.
Rimettere in piedi una casa. Lavare. Verniciare. Riparare. Tenere pulito. Riordinare. Alimentarsi. Decentemente.
È strano questo per la prima volta poter progettare senza previamente chiedere. Cose sue. Suoi spazi. È stanchissimo, quando, a notte, dopo una giornata di lavori, riesce finalmente a raggiungere il letto, mentre la pioggia batte, incessante. Diverso il rumore sui vetri. Sulle pietre. Sulle foglie degli alberi. Sulle tegole. Le grondaie. Si rannicchia nell’incavo del materasso. E, allora, gli pare miracoloso essere, semplicemente, avvolto da lenzuola e coperte. Affondare la testa in un cuscino. Eppure, e, quasi, se ne sorprende, nonostante la pesantissima assenza di lei (chiamiamola, con onestà, volontario allontanamento), nonostante la lontananza, in quei momenti prova una sensazione complessa di felicità primordiale, di appagamento. Le cose primarie. Un letto. Il sonno. Un rifugio. Poter staccare. Poter fuggire. Via. Via, abbastanza lontano, ma non troppo. Scritto tutto attaccato, abbastanzalontanomanontroppo, per percepirne il senso recondito. Perché il bisogno di evadere i confini, l’ansia di libertà, ma la paura di ferire, di far male, e il terrore dell’allontanamento, dello scacciamento, del rifiuto e della perdita. Ecco, sono lì. E fanno i conti con noi ogni giorno. Una volta risolti i bisogni primari di tetto sulla testa e alimentazione.
Lei manca, clamorosamente assente, ma presente. Eppure, in quegli attimi, va bene così. Si sente vivo. Morto di stanchezza e di sonno, ma vivo.
Perché, in fondo, è quello che lo lega a lei, che continua a dargli forza.
È l’alba.
Guarda fuori dalla finestra quella sorpresa di colori vivi e foglie, dopo la pioggia. Pesante e continua. Che pareva non finire mai, non aver mai avuto un inizio. Si sente felice, sono bellissimi. Intensi. Quei grigi e quei rossi. Quei verdi rinati dall’acqua. Si sente felice, poi, è un attimo, e prova lo stordimento della consapevolezza che, dopo, il buio verrà.
Chi lo conosceva, gliel’ha detto, coi segni del tempo che spazza.
“L’aveva fatta costruire bene, tuo padre. Ci teneva.” Indica in alto, il tizio, che è venuto a cercarlo, presentandosi. “Mi ricordo di te. Eri alto così”, segnando con la mano. E, ora, commenta: “Guarda che travi.”
“E queste assi”, aveva aggiunto lui, compiaciuto, mentre sfiorava, quasi carezzando, il legno chiaro, senza riuscire a trattenere un sorriso d’orgoglio misto a un lampo di mancanza.
Non riesce a non covare quel barlume di sogno.
Portarla lì.
Forse farne il loro rifugio.
Senza forse.
Farne il loro rifugio.
Si sente stupido. Infantile.
Il bambino che ha covato un regalo per l’amica del cuore.
Sognatore. Eppure, non riesce a non pensarci. Non in modo ossessivo, ma come osare coltivare una piccola idea. Finché non ti abbattono, i sogni possono motivare. Dare forza. Coltivati piano, in sordina, tenuti custoditi e protetti. Poi si vedrà. Prima, da qualche parte bisogna arrivare.
“Veniva qui tutte le sere, tuo padre. Ad innaffiare gli alberi che aveva piantato.” Quell’anziano lo ha conosciuto. Sospirano con rimpianto, le comari che, quando vedono André, ormai si affrettano a fare capannello. Lo hanno adottato.
“Ci teneva moltissimo. E guarda queste piante, ora!”
A quelle parole, prova un moto di orgoglio. Ma, improvvisa, anche una ventata gelida di solitudine. Si sente così solo. Suo padre aveva avuto un progetto, aveva cercato concretamente di costruirlo. Ne trovava i segni, erano ancora lì, attorno a lui. Che, forse, ne era egli stesso parte. Lui, invece, non era stato in grado di costruire niente, di fare niente, se non trovarsi vivo, essere un attendente, niente di suo, se non i pensieri, forse neanche la sua vita. Finiva lì. Lui finiva lì.
L’ha incrociato tra gli altri medici, tutti accorsi concitati dal principe. Fersen si è fatto da parte, se ne sta isolato, attonito. Girodel, lì accanto, in imbarazzo, trastulla Louis Charles. Forse, pensa, il futuro Luigi XVIII dovrebbe giocare con quello che tutti dicono suo padre, tanto gli somiglia. Oscar è rimasta lì, con loro. Silenziosa più del solito. Inavvicinabile. Tutti fingono di non vedere tutto. Comprese le assenze.
Lentamente, i medici escono. Tempo interminabile. Facce di circostanza.
Un saluto, di routine, terminato il consulto.
“Ah, Oscar”, si ferma, invece, il dottore.
Quasi stupita.
“Volevo domandarvi… non vedo da tempo André, come sta?”
Aggrotta le sopracciglia. La feroce, sarcastica risposta neanche io, che le è affiorata alla mente, soffocata dall’incombere insensato di quella domanda: come sta?
“Non è più venuto a farsi visitare…”
Sbalordita, fatica a connettere i pensieri: “Visitare? Ma… ma cosa…”
Qualcosa sotto i piedi, dietro le spalle vacilla.
“Non vi ha detto?”
“Che cosa…” Le trema la voce: “Che cosa ha…” È come se la realtà, lì attorno, si stia deformando, imbarcando.
“Pensavo ve l’avesse detto: avrebbe dovuto: dopotutto siete il suo…[1] ecco… dovete saperlo.” Oscar è gelata. Vorrebbe sapere e, insieme, non sentire più niente. Non conoscere. Invece il medico continua, implacabile. “Comunque, in breve: l’occhio destro non sta andando bene. La vista sta scendendo. È probabile che la perda.”
Tutto va in pezzi.
Pallidissima, barcolla. “Ma cosa dite?” Le trema la voce, in quella domanda accorata.
Girodel e Fersen si voltano.
“Diventerà cieco.”
Si appoggia al muro. Qualcosa le impone di restare coi piedi per terra. Di ragionare. Di cercare una spiegazione: “Da quanto lo sa?”
Si avvicinano. Victor molla il principe al presunto padre. “Per favore…”
“Circa un mese. Mi pare…”
Victor si fa più vicino. Oscar ne sente la presenza. Lui vorrebbe stringerle il braccio, ma non osa.
“In quanto tempo…”
Scuote la testa. “Questo non posso dirlo… però vi suggerisco di rimpiazzarlo appena possibile. Potrebbe peggiorare e causarvi danno. Anche a se stesso.”
Girodel sbarra gli occhi. Ha capito bene? Scambia un’occhiata con Fersen. Guardano lei.
Oscar fissa il dottore, incredula. Stranita. Lui non può capire. Non può capire la voragine che le si è scavata dentro, e la pena, il senso di vuoto, e il dolore.
“Dottore… non si può curare?”
“Anche se spendeste una grossa cifra, no, non credo si possa curare.” Sembra sorpreso, il medico. Forse deve ricalibrare la comunicazione. Strana famiglia, quella, che lo chiama per curare l’attendente. Oscar, degna figlia. O c’è di peggio?
“Bene”, le stringe una spalla. “Certo, è un peccato, alla sua età.”
“…”
È veloce, Victor a sostenerla.
“Colonnello…”
“Oscar…” Fersen ha posato il presunto figlio a terra.
“Stava dicendo sul serio?”
“Sedetevi…” le tremano le gambe. “Ecco…”
Si rende conto della sua estrema debolezza. Fersen le poggia una mano sulla spalla.
“Io… io non lo sapevo…” la voce rotta.
Non l’hanno mai vista così scoperta. Ma entrambi è come se dessero per scontato che tra loro c’è qualcosa.
È pallidissima. Si prende la testa tra le mani.
“Pensavo stesse meglio…”
“Anche io… anzi, ci teneva così tanto ad allenarsi…”
“Sì, anche io”, fa eco Hans, “sembrava che si fosse ripreso. Ma dov’è, a proposito? Non lo vedo da qualche giorno…”
“È andato… via…”
“E dove?”
Non vorrebbe neanche parlare con quei due, né che la vedessero in quello stato, ma si sente così terribilmente debole, e senza loro sarebbe crollata a terra. Sono cose sue, private, ma a volte si trovano appigli insperati per evitare di precipitare ora, subito. “Non lo so…” confessa, come fosse un disonore non saperlo. “Ha detto che sarebbe andato via… per un po’… non capivo la ragione”, mente parzialmente, eclissando la porzione di ragioni di cui è al corrente e di cui è responsabile, “ma… ora…”
“Povero André…” inaspettatamente, Victor, parla.
[1] Dai dialoghi originali del cartone, ep. 37.
*** Grazie, davvero, a Sydreana
Continua
Laura, da autunno 2013 ad aprile 2015 pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2015
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com