L'alba
III
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Questo testo nasce da un mio disegno e il disegno nasce da un regalo di Sydreana, un album da disegno formato panoramico, sempre desiderato ma che non avevo mai osato comprare perché mi ritenevo inadatta a usarlo, un tool, pennelli, colori.
Sono venuti fuori così due disegni, diversi per tinte e atmosfera, e quello che riguarda André l’ho realizzato negli ultimi giorni di maggio e finito il 3 giugno. Mentre lo disegnavo, mi rendevo conto che volevo dire qualcosa, che dietro quell’immagine di alba sbiadita qualcosa raccontava, anche se con un canone diverso, e poche righe.
Reprise
È entrata nella stanza di André. Le fa male, vederla vuota.
Ma cerca una traccia di lui.
Sfiora il legno della scrivania. I fogli lasciati lì. I libri.
La cosa più terribile è come si sente nei suoi confronti. E che, dopo che è stato ferito, è stato lui a farle coraggio. Perché non riesce a spiegarglielo? Perché si tiene dentro tutto questo dolore?
Si sente gelare.
Gli attimi dell’incidente la toccano, all’improvviso. A tradimento. Lacerandola. Nonostante abbia ‒ e avesse ‒ cercato di tenerli a bada. Con la razionalità. Respirando forte. Bevendo, la notte, per poter dormire.
Ma niente, non serve a niente. È tutto lì. Tutto ritorna. Nella gola che si serra. Nel cuore che si stringe e fa male, fa malissimo.
Vorrebbe urlare, poter urlare, ed essere abbracciata e consolata.
“André…” dice, piano, perché non la scoprano.
Poi, rannicchiata su se stessa, con la schiena al lato del letto, con la mano cerca il cuscino. Lo abbraccia. Cerca conforto nel suo odore. Ma non c’è, ormai. Ormai è partito. Da troppi giorni. Non c’è…
Calma, Oscar, si dice. Dopo. Dopo un lungo pianto senza voce.
Calma, è vivo. Sta bene, sei solo stata troppo dura. Troppo dura.
Troppo spaventata…
Scende le scale, per cercare conforto, a disagio.
Quando, dallo specchio della porta, vede la nonna, di spalle, così sola, così triste, non ha il coraggio di chiedere aiuto.
Vorrebbe avvicinarsi, giusto un attimo.
Abbracciarla.
Ma se ne va.
Serra le dita, la nonna. E il fazzoletto. L’ha sentita arrivare. Ha cercato di trattenere il fremito delle spalle, scosse dalle lacrime.
Ora, si toglie gli occhiali. Le asciuga.
Bambina…
Di nuovo su, per le scale. Senza aver avuto il coraggio di rifugiarsi nella governante.
Nella stanza.
La nonna dell’incidente quasi non parla, quando c’è lei, neanche ora che lui è lontano. Una delicatezza che la crocifigge alla responsabilità. Ma non può non accorgersi delle occhiate delle cameriere, un mondo così distante dal suo, quel drappello di ammiratrici di André radunato in casa, che, da allora, sono diventate gelide. Con lei. Piene di sollecitudine per la nonna. Per lui.
“E con quelle, come la mettiamo”, avrebbe voluto domandargli. Poi, l’orgoglio e la dignità hanno avuto la meglio. Eppure era stata chiara. “Puoi giurare di amare me, solo me, tutta la vita?”
Certo che domandarlo a lui, come una sfida impossibile, sembrava quasi un controsenso. Forse, avrebbe dovuto chiederlo a se stessa. Non a lui che l’aveva inseguita, latente.
Lui, che sembrava quasi non volerlo considerare, l’incidente. Non appena si è sentito meglio, le ha fatto una sorpresa. Lo sapeva ancora a letto, invece, senza dirle niente, si era alzato, l’aveva raggiunta, abbracciandola da dietro, stringendosela contro. Al riparo dalle mura ombrose della casa.
Quell’abbraccio, ora, quella dolcezza, le mancano irreparabilmente.
Gli occhi le si riempiono di lacrime.
Le manca il bambino che aveva conosciuto. E il giovane che era diventato.
Di allora, le manca quel sorriso così fiducioso rivolto a lei. E, da allora, sentiva che, se le fosse venuto a mancare, non avrebbe saputo dove trovare la forza. Come fare.
Quella mattina, all’alba, non avrebbe dovuto lasciarlo partire. Eppure, l’ha fatto.
Non ha potuto fare altrimenti.
Non si dà pace.
Esiste un prima.
Esiste una realtà diversa da quella che, ad un certo punto, si modifica, investendo la vita delle persone. Può non essere ottimale, ma è quella abituale. Quella che si riconosce come propria. A cui ci si è adattati. Rassicurante.
Forse, la salvezza è dimenticare il prima.
O, forse, cercare in ogni modo di riportarlo in vita. Adattandolo.
Loro due, su questo si sono trovati in contrasto. Lui a cercare di recuperarlo, lei a volerlo oltrepassare.
Ma, forse, può darsi volesse superarlo anche lui a modo suo.
Le distanze, i gesti. I passi. Tutto da ricostruire. Non ha detto niente, André. Non voleva rivangare. Caparbiamente, ha agito. Cercando di ricostruire e reimparare. Giusto qualche volta, e tentando di nascondere l’imbarazzo, minimizzando, ha accennato: “Con un solo occhio…” con noncuranza, quasi scusandosi, ha ammesso “è molto difficile giudicare le distanze…” la voce, in un sorriso, come a sdrammatizzare.
Le chiedeva aiuto. Non poteva fare da solo, in quel caso.
Ma glielo ha evitato come ha potuto. Non sapeva se sentirsi ferita o sollevata, quando ha scoperto che si stava allenando, a corte, con Girodel. Con Fersen, addirittura. Si è ritrovata ad osservare delle scene incongrue, lui, suo, che condivideva qualcosa di loro due, il loro allenamento, con qualcuno che non era lei. Anzi, era quasi il nemico, come non sapesse la predilezione di Oscar per Hans, così colto, e quella di Victor per lei. Loro tre, tutti più simili. Lui, il diverso. Eppure aveva bisogno di ognuno di quei gesti, di quei momenti, proprio per ricostruire quello che ora mancava, per tornare quello che era. Con lei.
È stato il suo modo di proteggerla, di difenderla, non chiederlo a lei. Non mettere continuamente quella cosa tra di loro. Quell’interferenza.
Tuttavia, nonostante lui abbia cercato di fare come prima, di rendere tutto il più simile possibile a prima, a tratti non riusciva a nascondere la difficoltà, la fatica di supplire alla perdita della profondità. Lei ha percepito quei disagi, gli sforzi. Nonostante tutto, hanno cercato di fingere.
Entrambi.
Anche quando gli hanno tolto le bende, e lei non ha distolto lo sguardo. Confusa. In un brivido di pena, disperazione e, insieme, orrore che non sa se è riuscita a nascondere. E non sa se non sia passato, attraverso le dita, che si sono contratte sulla mano di lui. Che ha reagito. Stringendole. Giusto un attimo. Poi, non ha retto. Con una scusa si è sottratta. Dolore. Rabbia. Vendetta.
Sottraendo la mano a quella di lui. Fuggendogli.
Che, pure, manteneva il controllo. Apparentemente. Nascondendosi dietro il distacco. Il tono volutamente distante. “Posso ancora vedere…” Quasi noncurante, quando l’aveva raggiunta.
Come non si trattasse di lui.
Ad un certo punto, però, su André è discesa un’ombra. Più pensieroso, come preso da qualcosa. Se ne è accorta, ha domandato, ma lui niente, apparentemente quello di sempre, solo, a tratti, rabbuiato.
Non sa dei disturbi che ha avuto. Non può. Né che lui è andato dal dottore. E, dopo, è tornato stravolto.
Avrebbe voluto abbracciarlo. Stringerlo. Ma era come se qualcosa, in lui, opponesse resistenza. E, in lei, la reazione creasse pudore. Paura.
Tra i fogli che sente sotto le dita, per delicatezza, sceglie di non guardare. Poi, sentendosi in colpa, ci ripensa e inizia a cercare. Un segno. Una traccia. Qualcosa. Ma non trova niente. Neanche tra quelli stracciati. Non vedrà quell’appunto, Haüy. La scrittura si è persa nell’inchiostro, dilavato. E, anche avesse potuto vederlo, forse non avrebbe intuito.
Come attonita, scorre gli occhi sulla sua calligrafia. Le si stringe il cuore. Non osa sfiorare con le dita le boccette d’inchiostro di colori diversi. Si siede, al suo posto. Rimane lì, a lungo, i capelli sparsi, la testa sulle braccia. Sente l’odore della carta. Del legno. Li sente contro la sua guancia, sotto la pelle delle mani.
Si rannicchia, sul letto. Cerca solo l’odore di lui sul cuscino. Qualcosa della sua pelle che sia rimasto. Tra i capelli, le lacrime confondono la vista.
Ricorda le prime volte che lui la abbracciava. La spogliava. Sorpreso, incantato dalla delicatezza della sua pelle, non smetteva di sfiorarle il collo, le spalle…
“Sei così bella…” diceva, piano. E, poi, come confessandolo: “Mi piaci…”
“Mi piaci…” quasi commosso, affondandole il viso tra i capelli.
Si addormenta, così. Immaginando di essere abbracciata da lui.
Di colmare quella mancanza.
Il camino tira che è una meraviglia!
La stufa anche.
Ha scoperto, nel soggiorno, una cosa che non ricordava.
Forse, all’epoca, era troppo piccolo.
La finestra incornicia il paesaggio in un quadro perfetto. Sornione, soddisfatto, ogni tanto se ne va lì, si siede, appoggia il mento alla mano, e si ferma a contemplare la visuale.
Poi, ravviva i ciocchi nel camino. Si stira, contro lo schienale, e niente impedisce un sorriso. Essere vivi è anche questo. Riuscendo a dimenticare il resto.
Rientrare in casa dopo la corsa che, ogni giorno, si impone di fare per tenersi in forma. E, dopo, un’ora di scherma nel cortiletto. In camera, gli addominali. Ripensando a quella volta che lei era entrata nella sua stanza e l’aveva trovato a torso nudo, tutto intendo a sudare come un disperato per tenersi in forma. Si erano guardati, da quella strana prospettiva rovesciata, lui, schiena a terra, gambe sul letto. Lei quanto meno interrogativa. Poi, entusiasta, aveva proposto “Voglio farli anche io” e, da allora, aveva adottato la pratica.
In effetti, annota tra sé, non è facile riuscire a dimenticare quel resto.
Quel silenzio attorno, quella mancanza della sua voce, sta diventando una strana forma di esilio. Non esistono i suoi passi. Per le scale. Non esiste la sua voce. A volte argentina. Altre profonda. Né il suono della sua musica. Non esiste quando scuote la testa per scostarsi i capelli dal viso. Quando rientra e appoggia la spada. Quando lo chiama. Qui c’è il silenzio di lei.
Eppure, lei c’è.
Guarda fuori dalla finestra. Gli si allarga il cuore. Le nuvole sono bellissime, un po' trascinate verso il basso, come da pennellate. Vola, il pensiero, subito: se lei fosse lì, se fossero insieme, quelle nubi sarebbero un ricordo comune. Uno schizzo, un quadro, meriterebbero. E, così, mentalmente o fisicamente, rimarrebbero parte di loro...
Gli rimane, invece, quel velo di tristezza. Che lascia su di sé, come una coperta fatta di sensazioni e ricordi.
Gli manca. Ma deve ricostruirsi. Deve rafforzarsi. Deve trovare il suo spazio. Ed esistere.
È solo così.
Scende, lenta, la sera. Dopo un’altra giornata intensa. Piena. E, poi, la notte.
Cade, la pioggia.
Sente le gocce martellare sulle tegole. Sulla pietra delle scale. Battere sui vetri, assieme al vento. Si sente come quando era bambino, e la casa era il rifugio. Ed era, è rassicurante, avere una tana, quando fuori fa brutto.
Chiude il libro, chiude gli occhi.
Il fuoco si è consumato.
Lentamente, si avvia verso il letto.
Si rannicchia. Tira su un’altra imbottita, di cui ricorda l’odore, quando era piccolo, e la sensazione di contatto, con la stoffa, ammorbidita e consumata. Azzurra, ricorda. Ora non la vede.
Fuori, nel buio, c’è un mondo in cui lei esiste.
Lì, sotto le coperte, e anche fuori, in quella stanza, c’è un altro buio. Sono i suoi occhi.
Li serra, per non pensarci.
Pensa a lei, si dice. Pensa a lei.
Si sente, improvvisamente, come trasportato altrove. Con lei. A quei giorni. Che ora gli sembrano lontanissimi, invece sono quasi ieri. Certo, la decisione di Oscar di lasciare l’incarico lo ha colpito. Dopo tanti anni, non era quello che si aspettava. Né si aspettava che non gliene avesse parlato.
Era quasi sorpreso di non essere riuscito neanche lui, che di solito la leggeva perfettamente, a non intuire niente. Neanche un accenno. Certo, in quel momento era preso da altro ma… lo feriva il fatto che lei non avesse sentito il bisogno di metterlo a parte, se non comunicandogli le mere conclusioni in modo brutale.
Alla fine, sono cose che fanno male. Ci passi sopra, ma restano. Poi, vivi, ami, le seppellisci di cose migliori. Di abbracci, sguardi, nuovi traguardi. Nuove cose comuni. Come se lo spazio per la memoria, anche degli affetti, possa essere, in fondo, limitato e, quindi, le cose belle possono rimpiazzare nei ricordi quelle tristi, che rimangono sotto, e un essere umano riesca a proteggersi, con questo cumulo, dal riportarle troppo in superficie.
Eppure, il pensiero è lì. E, soprattutto, neanche tanto quello, quanto quell’idea di andarsene per un po’, da sola. Il modo barbaro in cui l’aveva informato. Su cui avrebbe sorvolato. Ma il concetto, no. Si è sentito perso. Ferito. Tradito. Come essere buttato via. Come non contare più niente. Come se tutto quello che aveva portato su di sé, vissuto, a cui aveva rinunciato, non avesse nessun valore. Neanche dare un occhio, bastava. Neanche la vista. Come non fosse servito a niente. Che non era certo il modo giusto di inquadrare una vita, decisioni, tante cose. Era falsato da troppa amarezza. Non era da lui. Ma calzava. Rendeva l’idea.
Una persona che, in un attimo, vede precipitare tutto il proprio mondo. Compreso il terreno sotto i piedi. Tutto quel sistema in cui è vissuto e che si è consolidato.
Oscar, che è stata tutto per lui.
Attorno alla quale, ha costruito tutto.
Anzi, lui è stato costruito. Creato. Lui stesso si è modellato. Prima, è successo, poi lo ha scelto. Perché stare attorno a lei gli piaceva. Lei gli piaceva. Lei e quel che c’era solo tra loro due. Quasi esclusivo.
Esiste un se stesso di prima. Poi, c’è stata lei. Non ricorda più come fosse un prima senza di lei. Ha quella sensazione di incompletezza, a definirlo. Un’abitudine.
Forse il problema è quello.
In realtà è come se da una lunga distanza possa osservare se stesso e il resto. E, allora, cosa sia non saprebbe neanche dirlo con precisione, perché in fondo in parte lui può arrivare a comprendere Oscar. L’allontanarsi da lui, lasciarlo solo, no, quello non gli faceva piacere, eppure, contortamente, poteva capirlo. Non accettarlo, ma comprenderlo. Ma il sapere che la sua vista sarebbe peggiorata, che l’avrebbe persa, è stato qualcosa che gli ha cambiato ogni prospettiva. Ogni possibile capacità di assorbimento e metabolizzazione dei vari eventi. Il punto di non ritorno, prima del quale riesci a farti scivolare addosso le cose. Dopo, invece, ti intridono l’animo. Te lo ammalano.
È una cosa che ti toglie le basi.
È stato questo. Tutto assieme, sentirsi come se lei lo rifiutasse e lui, all’improvviso, non fosse più in grado di reggere i colpi. Dopo aver dato tantissimo.
Lui, che, invece, ricostruiva. Parava. Andava avanti. Noncurante.
Tanto, c’era lei.
È stato, invece, qualcosa di peggio. Si è reso conto, a quel punto, che non solo tutta la sua vita era stata costruita su una dipendenza necessaria dalla famiglia di Oscar, ma che il suo futuro, ora, era totalmente incerto. Sarebbe dipeso da loro? Dalla loro benevolenza? Gli avrebbero trovato qualcosa da fare, anche cieco? L’avrebbero tenuto? Mandato via?
E come sarebbe stato, dopo? Sarebbe stato in grado di fare qualcosa? Un lavoro? Mantenersi?
E lei? Loro due?
La prospettiva di reinventarsi una vita, ora, lo annienta. Non è neppure definibile come una prospettiva, è un muro nero insormontabile, assorbente. Non sa com’è, cosa sarà. Se lo pensa, ci si sente dentro tanto da non riuscire a respirare, soffocato da tutto quell’infinito oscuro.
Non c’è stato niente da fare, ha cercato di non pensarci, di dirsi non è adesso, di tenersi su, ma è lì, davanti a lui, è solo questione di tempo.
Si gira, nel letto. Ha freddo. Avrebbe voglia di un po’ di alcol per scaldarsi. In altri tempi si sarebbe alzato, ora ha paura di fare danni, muovendosi. Le cose cambiano. Al diavolo, scosta le coperte. Guidandosi con le mani, raggiunge la cucina, in un percorso che, si stupisce, gli sta diventando familiare. Sorride. Prende bottiglia e bicchiere, cercandoli alla luce della finestra, a tentoni. Poi, col bottino, ancora più cautamente, per evitare catastrofi da bevitore, placato se ne torna nel nido.
A riflettere. Se proprio non si può dormire. In una strana veglia che non è spiacevole.
In fondo, non si tratta neppure solo del suo stato d’animo.
È, anche, capire cosa farà Oscar, come reagirà, come sarà tra loro due, e sapere, in qualche modo, di dipendere lui stesso da decisioni che non sono le proprie. Sono quelle di lei. O dei suoi.
Dipendere. Una parola che, sebbene da tempo presente nella sua realtà, quando, nelle mutate condizioni, si è trovato a pensarla, gli ha procurato un senso di disagio molto più forte di sempre. In fondo lo ha sempre saputo, ma ora tutto pesa di più. Non più solo un attendente. Un attendente presto cieco. Non potrà più leggere. Dovrà dipendere da qualcuno per farlo.
Il non sapere se Oscar lo vorrà con sé, i discorsi di lei, totalmente al singolare. Chiaro, Oscar non vorrà imporsi nella sua vita, non vorrà, in teoria, imporgli le sue scelte. Probabilmente ha paura di fargli di nuovo del male – ma come potrebbe fargliene? –
O, si ferma, impietrito, forse ha paura. Oscar ha paura.
Quel pensiero lo colpisce. Strano, inusuale.
È lì, lo costringe a prenderlo in esame, anche se non sa bene come affrontarlo.
Paura di lui, questo in qualche modo l’ha notato. Ma paura di cosa altro?
Paura di quello che è successo?
Scava. Prova a cercare di andare più a fondo.
Paura di avergli fatto del male?
Gelato, si immobilizza, alzandosi a sedere nel letto. Scava ancora. Paura di essere responsabile delle ferite. Come averlo ferito con le proprie mani. È una progressione inarrestabile. Straniante.
Di avergli causato indirettamente un danno irreparabile. E destinato a peggiorare, questo lei non lo sa. Non lo sa ancora e neppure lui sa come dirglielo. Come affrontare l’argomento. Non dirlo a lei, è come, in fondo, nasconderlo in parte anche a se stesso. Conservare uno spicchio di vita in cui si è ancora lo stesso di prima. Quasi lo stesso.
Si porta le mani al viso. Sente il mento, gli zigomi. Sfugge dalla cicatrice, poi le dita tornano sulla pelle offesa. Giocano a ripassare sul solco.
Quindi, Oscar ha paura.
E, di più, e ancora, forse paura di come rapportarsi a lui.
Possibile, si domanda André. Possibile che sia questo?
Forse…
Si versa altro alcol.
Paura anche di decidere… scegliere. Andare avanti.
Perché la realtà è che, invece, lui da quelle scelte dipende. Lo sanno tutti e due. E forse è anche per questo che Oscar usa il singolare, per non sentire quel peso, per non decidere anche per lui.
Oscar ha paura di decidere, considera.
Le ragioni… iniziano forse a chiarirsi… l’intuizione che lei tema di fargli altro male. Di prendere altre decisioni sbagliate che graveranno su di lui.
Decisioni sbagliate. Assurdità. D’altra parte, senza l’incidente le conseguenze sarebbero state diverse. E l’incidente è stato un caso.
Ma non la caccia al ladro. La questione del cavaliere nero era stata un problema tra loro, aveva coinvolto Oscar più del normale. Come un enigma sul quale si era eccessivamente accanita, quasi fosse un investigatore. Quasi dovesse capire il senso di fin troppe cose, cercando di fornire un significato e seguendo il giustiziere.
La ricerca della topografia parigina. La ricostruzione degli itinerari. Le mappe coi condotti tra i palazzi. Le loro uscite notturne di pedinamento, tra le strade di Parigi, nelle taverne.
Avevano scoperto, in borghese, i luoghi in cui si riuniva il gruppo del giornalista Châtelet. Lui non era affatto convinto che il ladro andasse stanato e poi perseguito, ma si era adeguato al furor investigativo di lei. In fondo, erano tutte occasioni per stare loro due soli. Gli piaceva girare insieme per taverne. Gli piaceva perdersi nei discorsi con lei. Era una lei diversa, più intima. Qualcosa che aveva intuito, ma che non aveva potuto conoscere spesso. In quelle sere, invece, la ritrovava. La stessa ragazzina di cui si era innamorato, ma più adulta, a tratti più triste, cinica. A volte, inaspettatamente, dolce.
Tranne quando tornava all’argomento. Una sorta di ossessione per non pensare ad altro. Per scansare altri problemi. Tipo cosa fare di loro due. Nascondersi. Fingere. Rivelarsi.
“Voglio prenderlo. Voglio togliergli quella maschera. Capire perché lo fa”.
Lui avrebbe voluto risponderle che togliere la maschera era una perfetta metafora del capire le ragioni, politiche in generale e loro personali, e che, per quanto lo riguardava, le ragioni erano chiare.
Anzi, onore al ladro, che era riuscito a fare qualcosa di concreto per la gente.
Aveva provato a parlare, ma, siccome lei non sembrava ascoltare, era tornato in silenzio.
Alla fine, l’alcol l’ha addormentato.
Al risveglio, quasi si sente più leggero.
Apre gli occhi sulla stanza, e gli ci vuole un po’ per abituarsi.
Un’immagine di allora gli torna, improvvisa, davanti agli occhi. Intenerendolo. Da bambino, la domenica mattina, fissando quella stessa finestra, aveva sognato che, un giorno, sarebbe stato felice. Un giorno in cui la pioggia, là fuori, fosse caduta, inarrestabile, ma lui, lì, dentro, protetto, sarebbe stato appagato, con la sua lei, abbracciandola, e sentendosi completo.
Ricorda perfettamente quella sensazione…
Le immagini, là fuori, sono lucide di pioggia. Che lava via colori, contorni. Che sente scorrere, in una strana sensazione di brividi nelle ossa. La scruta cadere, gli occhi serrati. Attento. Gli piacerebbe saperla dipingere. Riuscire a disegnare le sensazioni che prova, in questi momenti. Raccontare i propri pensieri. Li sente scorrere, e li racconta a se stesso, a volte. A volte li scrive. È strana, la pioggia. Fa sentire soli. Eppure, avvolge.
Pioveva, quando la rincorse, sulla strada per Fersen.
Quando la strinse a sé, nel proprio mantello.
La pelle gelata. Sentiva il suo respiro.
E lei, sembrò quasi abbandonarsi a lui.
Così tanto tempo fa…
Ama la pioggia che confonde i contorni e nasconde. Che sfuma la realtà, quasi a renderla irreale. La amava. Ora, a volte, gli fa paura. Sa che scivolare è più facile, ora che a volte non vede, attorno a sé. Ma, se si estrania da quell’idea spaventosa, chiudendo gli occhi, può ancora immaginare quelle sensazioni. Immagini. Ricordi. Loro due. Viaggi. Solitudine. Poi, finalmente, insieme. Tanto, troppo tempo fa…
Dopo la pioggia, il cielo plumbeo grava ancora, dall’alto, di pioggia.
Eppure la luce quasi splende, quel mattino, abbagliante, sferzante, improvvisa. Ferendolo.
Si ripara con un braccio.
Quando riapre gli occhi, fissa a lungo lo sguardo in basso, a terra, in una pozza d’ombra. Poi, torna a guardarsi attorno.
Fa qualche passo indietro, si siede sulle scale. Cerca il muro dietro le sue spalle. Come una sicurezza.
È possibile sentirsi quasi in pace, anche se qualcosa manca? Qualcosa di fondamentale? Di fondante? Gli pare strano. E ingiusto. Eppure, lui, in quel momento, con una strana stanchezza addosso, e la schiena contro la porta, quasi a cercare rassicurazione nel muro, in qualcosa di solido e fondante, si sente così.
Quella porta. Quei muri. Sono suoi. Quella è solo una casa come le altre. In pietra. Con le tegole di ardesia. Ci sono gli alberi. E c’è il mare. Ma, per lui, in quel momento, è tutto.
Il cielo era stato di pioggia, e quasi plumbeo, ma quello squarcio che si era aperto, prepotente, è bellissimo. Gli ferisce il cuore.
*** Grazie, davvero, a Sydreana
Continua
Laura, da autunno 2013 ad aprile 2015 pubblicazione sul sito Little Corner aprile 2015
Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore
Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com