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L'alba

II

Warning!!!

 

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Questo testo nasce da un mio disegno e il disegno nasce da un regalo di Sydreana, un album da disegno formato panoramico, sempre desiderato ma che non avevo mai osato comprare perché mi ritenevo inadatta a usarlo, un tool, pennelli, colori.

Sono venuti fuori così due disegni, diversi per tinte e atmosfera, e quello che riguarda André l’ho realizzato negli ultimi giorni di maggio e finito il 3 giugno. Mentre lo disegnavo, mi rendevo conto che volevo dire qualcosa, che dietro quell’immagine di alba sbiadita qualcosa raccontava, anche se con un canone diverso, e poche righe.

 

L’aria fredda e un’oscurità azzurrina ovattata lo avvolgono. E il senso di vuoto.

Lascia andare il respiro trattenuto.

Queste sono le prime sensazioni che prova, rientrando in casa. Lentamente, muovendo i passi mentre sente il pavimento sotto le suole, e l’umidità attorno, trova la finestra. Risente, nel toccarla, le sensazioni di allora. Non come quando si tocca qualcosa di nuovo, che al tatto è sconosciuto. Questo è riconoscere. Nei ricordi. Nel tempo. O forse è solo un povero sentimentale. Cosa avrebbe da dire lei, a riguardo, sul concetto di sentimentalismo e mascolinità, è tutto da capire e lo innervosisce, ma non vuole infierire su se stesso, e tralascia il pensiero. Ci prova, almeno.

Apre la finestra, poi le imposte. Si sorprende di quanto fragili gli sembrino, ora, i vetri, le intelaiature. Quando era bambino quello era un rifugio, ora sembra solo la sua vecchia casa rimpicciolita. Un guscio. Una tana, piccola. Con un bel po’ di manutenzione arretrata. Non si era reso conto di cosa si sarebbe trovato davanti.

Lentamente, con emozione, comincia a girare. Scosta lenzuola e teli che hanno lasciato gli inquilini, lentamente, per non sollevare tutta la polvere. Segue con lo sguardo l’intrico delle ragnatele. Piano, saggia i mobili che riaffiorano. Prova ad aprire una ribalta, che fa resistenza per l’umidità. L’odore di allora lo colpisce. Ricorda le cose che sua madre teneva lì dentro. Ora dovrebbero essere chiuse in un baule, nel ripostiglio. Serra le labbra in un sorriso, intenerito. Era più giovane di lui, ora.

Ma, quando, alla scrivania del padre, aprendo un cassetto, riconosce le macchie d’inchiostro sul legno, quelle che aveva contribuito a fare lui, bambino, e tornano prepotenti le immagini di quando aveva dovuto mettere via, prima di partire, gli inchiostri, i pennini – gli pare quasi di risentire sotto le dita la superficie del tampone – e, d’impulso, invece, li aveva avvolti e nascosti nel proprio bagaglio, sentendosi come se li stesse rubando, allora, alzando gli occhi, feriti dalla luce improvvisa e ormai troppo tenue che penetra dalla finestra e danza assieme al pulviscolo, non riesce a costringere indietro una lacrima, poi un’altra, e resta lì, in piedi, la testa china, le spalle che tremano.

 

Non sa quanto è durato, sa che l’unica è agire. Non può portarsi dentro tutti quei dolori, tutti assieme, non è in grado. È venuto lì per una serie di ragioni, e una di queste è pratica.

La stanchezza comincia a farsi sentire. Bisognerà capire se lì si può dormire, stasera, o no. E il resto.

Riprende, come rinfrancato, l’ispezione. Darsi un obiettivo.

Appunta via via su un foglio tutte le cose urgenti. E quelle meno. Non ha considerato se ci sarebbe stato tempo per farle, il tempo è un concetto che ha volutamente tralasciato. Scelte.

 

 

“Oscar, tieni”. L’aveva raggiunta e le aveva passato un libro, il volto illuminato.

“È per me…” incerta.

Aveva annuito. “Sì.” Un sorriso convincente. “Leggilo.”

Quanti anni poteva avere, allora?

Le immagini sono vivide. Lo sguardo brilla.

Gli occhi.

Entrambi i suoi occhi brillavano.

Ora… ora…

A volte rivede, improvvisamente, come un maleficio, come un incanto, davanti a sé il suo viso di anni fa. Di quando era ragazzo. E le pare impossibile e crudele che gli anni passino così e non si possano fermare, in un lungo momento di felicità. Che, poi, basterebbe una lunga serenità. Le cose di tutti i giorni, semplicemente. Loro due, insieme. Poter stare insieme. Tornare indietro di quell’attimo.

Solo questo, invece di quella paura, invece degli anni perduti a rigare dritto, ad essere la figlia responsabile, quella che non poteva infangare il nome con una relazione sconveniente. Tutto si poteva fare, debitamente nascosto, ma l’attendente non l’avrebbero tollerato. Gli amanti delle sorelle, le storie, tutto, ma nella giusta cerchia. André, perfetto per lei, quello scelto da loro, lui, no. André che, anche se tace, basta un solo respiro, un gesto, e non puoi non notarlo, con quell’espressione, quella luce nello sguardo ardente e la voce sicura. André che di solito pondera cose fondate, ragionate, altrimenti non inquina l’acustica. Così diverso, in fondo così stranamente, incongruamente saldo.

Che infame inganno, a cui loro due cavie erano state sottoposte. Bambini ignari, adolescenti legati, tra loro, da loro e dagli altri, dai sentimenti, dalle frasi loro destinate, a volte aperte, a volte a metà, ma che loro dovevano capire e che dovevano servire a scoraggiarli.

 

 

“Hai visto quanto è carino?”

“Bello. Decisamente bello…” L’altra comare è più tranchant. Si passa le mani sulle guance.

Poi sul grembiule. “Non è sposato.”

“No, ma mi sa che ha una fidanzata…”

“Più un amore infelice…”

“Già…”

“E così simpatico…”

“Così… perfetto…”Un sospiro pieno di soddisfazione.

 

 

È la prima sera, lì. La prima dopo tanto.

Non pensava ormai più a quella casa. Quasi l’aveva rimossa. Poi, mesi prima, quella lettera che annunciava la scadenza dell’ennesimo contratto con gli inquilini. Indirizzata a lui. L’aveva notata per caso, nelle cucine, si era incuriosito. Se ne era sempre occupata la nonna, doveva averla dimenticata lì.

“Quindi è vuota ora”, aveva constatato, poi.

“Eh, sì…”

“Chissà com’è, ora…” Improvvisamente sognante. “La ricordi?”

“Certo, ma adesso non perdere tempo, portale queste cose…” Sempre pragmatica, passandogli un vassoio affettuosamente ricolmo.

“Sì, però…” nell’allarmato computo delle calorie, si era soffermato sulla porta. Un’ispirazione improvvisa, ancora inespressa. Ma pressante. “Non riaffittarla.”

“Non voglio che la riaffitti”, aveva ribadito.

 

Era andata così.

 

La casa è umida dell’abbandono dei mesi invernali.

Ha girato a recuperare un po’ di cose, è tornato, carico di pacchi, e ripartito varie volte. Il camino e la stufa sono in funzione. Le ore sono trascorse.

Trascorre sempre, il tempo, quando ci si tiene occupati. Quanto velocemente, però, è relativo.

Ma “occupati” è dir poco, sorride, guardandosi attorno. Spazzole, secchi, stracci in un angolo. Olio di gomito.

Decisamente, si è dato da fare.

E lo attende una bella lista di lavori. Domani. E dopo.

Sarebbe un maritino perfetto, si concede di scantonare.

 

La volta del cielo nero, abitata da piccole nuvole grigie, emana un senso di infinito.

Una notte strana, nel letto umido di lenzuola recuperate dalle cassapanche. Quanti bucati ci sono, da avviare? La nonna gli farebbe una lavata di capo, sicuro.

Si appoggia, indolenzito, al cuscino. È stanco.

Gli manca da bere.

Gli manca lei.

Cerca di non pensarci.

Lei.

Forse è meglio tentare di dormire.

Lei.

Lei…

 

 

La cerca, nanny.

“Stai un po’ meglio?”

Così, senza un appiglio, senza sapere altro, come può stare meglio?

Un’anima in pena, sola, tormentata.

Le ha preparato il tea. “Oh, bambina…”

Si passa una mano dietro il collo. Scuote la testa. Non riesce…

“Ti senti in colpa per lui?

“…”

“Non puoi continuare così…”

“Io… è… per… le ferite…”

Ecco, l’hai detto… finalmente.

È solo colpa mia.

“Mi sento male, perché è colpa mia.”

“Ha scelto lui di seguirti.” Allunga un vassoio di biscotti. Pericolosamente debordante.

“Sai che non è così…”

“…”

“Non gli ho neanche chiesto se era d’accordo. Sapevo che non lo era, ma ho dato per scontato che sarebbe stato come sempre…” alza le spalle.

“Oscar, non ti avrebbe lasciata sola.”

“Appunto. Avrei dovuto considerarlo…” Tiene ostinatamente lo sguardo fisso sul tavolo.

“Ma non l’avrebbe fatto.”

“Avrebbe dovuto.” L’immagine comincia ad ondeggiare. Pericolosamente.

“Vuole proteggerti, lo sai.”

Un cenno della spalla. Nanny lo recepisce. È lì, ora, seduta accanto a lei. Che vorrebbe ricacciare indietro le lacrime. Ma non riesce. Crolla. “Che cosa farà, ora? Che gli succederà?”

L’abbraccia, nanny. “Stai tranquilla, bambina.”

La culla. “Tornerà qui”, che altro vuoi che faccia?

 

Deve rientrare al lavoro, pena la sanità mentale. Difficile spiegarlo alla nonna, che la vorrebbe a casa, con sé, protetta, infelice. Non è abituata a non sapere dov’è, come sta. Tutta la vita ha sempre potuto contare sul fatto di saperlo. Si riduce a sperare che almeno stia bene. Ma deve allontanarsi da lì, non appena si sentirà meglio. Occupare la mente.

Torna a rifugiarsi nel letto come un guscio. Se riuscisse a dormire… Il cuscino conserva l’odore di lui. E memorie.

Di lui. Di loro due. Di quella sera, nelle sue stanze, in cui hanno studiato fino a tardi le mappe, aperte sulle scrivanie, per memorizzare e vagliare condotti, cunicoli. Dove appostarsi. Dove poter tendere un’imboscata. Lui, riluttante, eppure pronto a suggerire. Dopo, ha avuto la sua rivincita. L’ha presa per la mano, trascinandola con sé sul letto. È vivo, presente il ricordo di quando le è sopra, i capelli sciolti le ricadono addosso. Li sente tra le dita, mentre lo abbraccia. “Dovrai tagliarli…” come a se stessa, e già registra che le dispiace.

“…” Mentre lui serra di più il suo corpo a lei.

“Forse ti staranno anche meglio…” mentre alza le spalle e gli passa le dita sulle spalle. Sulla schiena. S’inarca. È così bello. Mentre gli accarezza il viso. Così innamorata.

Lui accelera il ritmo.

 

Ora è lì.

Sola.

A pezzi.

La sua pelle, contro il ricordo di quella di lui, sulla stoffa. Sono stata una pazza. Non avrei dovuto accanirmi in quell’indagine. Nessuno me l’aveva chiesto…

Ricorda che ha guardato i capelli tagliati sparsi a terra. Desolanti. Abbandonati. Privi di vita.

Ero curiosa, volevo capire.

Lui non li ha degnati di un’occhiata.

Era una sfida. E un’evoluzione a comprendere. E ci ha rimesso lui.

 

Uno sprazzo di quiete, il risveglio. Quegli attimi di inconsapevolezza, in cui la percezione del dolore non è ancora riaffiorata. In cui lui non è ancora partito. Poi, la realtà ripiomba su di lei.

Sono stata una pazza…

Fa per alzarsi, ma quasi non si regge in piedi. Si sente malissimo.

È colpa mia…

Si ostina. Puntellandosi tra comodino e tavolo.

Ha bisogno di andare a corte. Lì, a macerare nei ricordi, non può stare.

 

Le sembra una dannazione. Lì, mentre la regina parla, lei fatica a stare in piedi. Vorrebbe poterla implorare di tacere. Di arrestare quel torrente ininterrotto di inutilità.

Taci, oca!

Si appoggia al muro, sfinita.

Guarda lontano, fuori dalle finestre. Una musica aleggia distante. Fatica a coglierla.

Il tempo scorre di nuovo, indietro. Lo ricorda, durante un concerto d’archi. Lei era seduta, sola, annoiata. Poi, aveva sentito una presenza lì accanto. Non aveva quasi osato voltarsi. Era lui. Lui che era sgattaiolato tra gli adulti, cercando proprio lei. E, piano, con le loro mani che si toccavano, come casualmente, era rimasto lì, tutto il tempo, e anche dopo, non l’aveva mollata. Era fatto così.

Le sorelle, importune, non avevano risparmiato le prese in giro, incalzandola: “André ti seguiva!!! È innamorato di te!”

“State zitte, cretine!” pure loro ci mancavano.

 

Non ci sono ancora notizie.

Non ci sono più notizie.

Due punti di vista.

Non trova pace. Non trova neanche una soluzione.

Riesce solo a rifugiarsi nel rivivere il tempo.

Come una casa del ricordo. In cui abitano loro due. Ancora insieme. Uniti, in spazi temporali diversi. Nel medesimo, separati.

Incrocia Fersen, e passa oltre, stranita.

Scambia cortese qualche parola con Victor, che la osserva, perplesso.

Sale a cavallo, fa le cose di sempre, e la testa è altrove.

 

Quante volte è accaduto? Questo correre nel passato.

L’unico conforto.

Lo ricorda, adesso.

In quella notte, appena prima della partenza, in cui lo osserva e riesce a perdersi nei ricordi di loro due ragazzini. Non è riuscita a chiedergli di non partire. Ha esaurito le parole. Lui dorme, lì accanto. Quasi ha paura di raggiungere quei capelli, quel viso, in una carezza. Così respira piano, trattenendo ogni rumore, smarrendosi nel sole di quel ritorno, da lontano e lontano nel tempo, loro due, insieme… eccitati per il viaggio in ginocchio sui sedili della carrozza, a guardare fuori.

“Speriamo di arrivare il più tardi possibile”, aveva confessato.

“Perché?” aveva alzato lo sguardo su di lei.

“Perché…” aveva esitato, come tra sé, vergognandosi, “vorrei che questo viaggio durasse ancora…” Era la verità. Non aveva voglia di terminare quelle giornate che avevano trascorso più vicini che mai, lui che le stava incollato, che le parlava in un modo più accorato del solito, come avesse timore di non poterla raggiungere. Sentiva che qualcosa era diverso da prima e non voleva allontanarsi da quella sensazione. Che quasi la stordiva. Che la spaventava, lontana, e la richiamava, attraente, ineluttabile.

Lui, che aveva quasi quattordici anni ed era bello, e alto, e gli ardevano gli occhi, non aveva distolto lo sguardo. Piano, aveva mosso una mano verso di lei. A sfiorarle viso. Capelli. E lei lì, senza sapere neanche formulare il pensiero “è una carezza”, no, perché tutto era troppo anormale, per loro due. E quegli sguardi, non potevano, assiomaticamente, essere.

Le si sono riempiti gli occhi di lacrime. Perché l’amore e il tempo sono crudeli. E tutto dovrebbe restare così, e poter durare all’infinito. Esistere, in un momento lungo più della vita. Poter rimanere loro due, a quell’età, e ora, per sempre. E conservare ogni istante. Eppure, non è così.

E, ora, un altro viaggio.

Domani.

È rimasta lì, a contemplarlo. Sospesa. Ogni gesto congelato dal maleficio del tempo che passa. Lui, addormentato. Arreso. Quel collo bellissimo. L’espressione. La cicatrice. Domani sarebbe partito, ormai, oggi, e si è sentita strappare il cuore.

 

E vorrebbe soltanto che non fosse mai accaduto niente. Vorrebbe non aver mai parlato.

Non avergli comunicato, con troppa, innaturale, tra loro, freddezza, l’intenzione di lasciare la corte e, soprattutto, il bisogno di andare via, sola, per qualche tempo.

 “Ho bisogno di allontanarmi…” ha tentato di minimizzare, smarrendo la freddezza nell’angoscia. Sperando lui sorvolasse. Non infierisse. Non chiedesse oltre.

Impossibile.

“Allontanarti da cosa?” Le ha domandato con voce tagliente. Triste.

Inquieto, come è da qualche giorno.

Mentre quel tramonto li avvolge.

Si è alzato il vento. Quasi le parole non arrivano.

“Oscar, è inutile fuggire…”

Furioso, se ne è andato. Che diavolo ti salta in mente?

Non l’ha quasi mai visto, così.

Non è riuscita a capire…

 

Ma lui è ferito. Ferito davvero. Quello, più delle cicatrici, gli ha fatto male. Oscar che afferma, quasi noncurante, “Vado nella casa in Normandia”, dove sono sempre andati insieme, loro due. Perché quel singolare? Perché adesso?

Perché quell’idea della partenza di lei, sola, è un’assenza, una mancanza abissale. Un giudizio e una condanna. Qualcosa che si elimina da tutta una vita – una sorta di rinuncia per esercitarsi a farne a meno –. E, allora, come si può essere sereni e distaccati, e fingere di non reagire, di fronte a una cosa del genere?

 

Non parla, mentre la osserva, distante, dalla porta.

Rabbuiato, per questa che si aggiunge ad altre tristezze. Inutile, non richiesta. Perfino eccessiva.

Le mette le mani sulle spalle, mentre suona il piano. La sente irrigidirsi.

Si sente quasi aggredita, da quel tocco.

 

Solleva le dita dai tasti.

“No, non smettere”, l’astio suona nella voce. “Fa parte della finzione.”

“Che cosa vuoi?” Colpita dal quel sarcasmo.

“Voglio sapere perché.” Non voglio che tu vada via. Ma non riesce a dirlo.

“Ho…” ma la voce le muore in gola.

Troppe cose ci sono da dire. Troppe da nascondere.

Le prende un polso.

“Lasciami.”

La costringe a guardarlo in viso.

“Che cosa ti succede?”

Riesce solo per un attimo a posare gli occhi su di lui. Poi, li distoglie dalla cicatrice.

“Ti odio quando fai così.”

Non vuole vedere. Non ce la fa. Troppo dolore. Troppa sofferenza. “Io non…” si fa indietro.

È da quando gli hanno tolto le bende. Quasi non riesce a guardarlo. Per la pena. Per il dolore. Per averlo causato lei.

La attrae a sé. Oscar, che cosa ti succede? “Non respingermi…”

Poi, in un lampo, la consapevolezza.

Rabbrividisce di rabbia.

“Ti faccio paura?”

Ti faccio paura? Io?

“Guardami.” Le prende il viso tra le mani.

“No… ti prego…” non vuole.

“Ti prego…” la implora.

Non vuole vedere quelle ferite. Non vuole vederle su di lui.

Non può accettarlo.

La bacia. “Ti prego…” suona immensamente triste, la sua voce. Mentre lei si sottrae.

“Ti prego… non posso farti paura…” Sono sempre io…

Prova tristezza. Prova rabbia. Una rabbia sorda. Dolorosa. Lentamente, la spoglia.

Mentre, senza concederle scampo, cresce l’urgenza di averla. Sua, solo sua.

Vorrebbe poterglielo dire. Eppure non riesce a parlare. Spiegare.

Si fa strada in lei.

Ora, mentre lo sente in sé, mentre ne sente il respiro, e il ritmo farsi più intenso, e lui, ferocemente, guarda lontano, solo ora Oscar riesce ad ammettere che, nel dramma di quei giorni, nel groviglio di pensieri, l’idea di scappare lontano, di non vederlo, di lasciargli tempo e prendersi tempo per capire come continuare, come andare avanti, il senso di colpa per lui, il senso di impotenza e frustrazione per non averlo difeso, anzi, per averlo mandato al macello, la stessa vita inadeguata che sente di fare… tutto, tutto questo chiama un chiarimento. Un cambiamento. Il bisogno di riflettere. Sola. Ma, soprattutto, senza vedersi sotto gli occhi la prova costante di tutti i propri errori. Quel taglio. Quella ferita.

Su di lui.

La sua sofferenza.

Eppure, non trova le parole per spiegarglielo. Vorrebbe stringerlo a sé, e cullare il suo dolore, la sua rabbia. La solitudine che lui sta vivendo. Eppure non riesce.

Tra i capelli, tra le lacrime, si sente immensamente infelice.

Non lo ha mai sentito così distante. Mentre la cerca. Implacabile. Fino a fondersi in lei.

Mai come ora che, così vicino, quasi con rabbia, le ripete “Tu sei mia…” “Sei mia…” come un’ossessione.

Si sente infinitamente sola.

Il compagno tenero che conosce, quello che scalda il suo corpo con passione e attenzione, ha ceduto il passo a qualcuno che, ferocemente, la reclama. Che la desidera in un modo ancestrale. Disperato. Che la cerca, impetuoso, con un’urgenza bruciante.

E lei resta lì, immobile. Tra le lacrime, lui le pare quasi un estraneo che l’ha ferita.

 

Eppure, non è questo. Non è così. In quel flusso di sensazioni. Pensieri. Tristezza. Passione.

 

Gli tiene la testa tra le mani. Un timido gesto, quando ha sentito le lacrime su di sé.

Gli ha accarezzato i capelli.

Allora, l’ha baciata. Cercando i suoi occhi.

“Ti prego, perdonami Oscar…”

Scuote la testa.

“Perdonami…”

 

Dopo, quando di nuovo, infine, l’abbandona, lo guarda tra i capelli e le lacrime. Si allontana, triste, vinto, e sembra che un velo scuro stia scendendo ad avvolgere quelle che erano state le loro vite. Loro due.

 

Si è sentito ferito. Escluso dalla sua vita.

È capace, lui, di ferirla. Lo vuole? O è solo immensamente stanco? Compresso.

 

È sera. Di nuovo. L’ha cercata. Il crepuscolo rompe la tregua del giorno.

Ora le parla. A tratti la vista si oscura. Ha paura. Il mondo che conoscevano è avvolto in questo buio nuovo, che loro due si portano dentro. Incapaci di un passo. Infelici. Stupidi. Distanti. A coltivare la sofferenza. Come non fosse bastata quella di prima.

Ha una paura fottuta.

“Perché”, gli ha domandato, accorata, allarmata, nelle sue stanze, mentre la voce le mancava e lui la guardava, distante, dalla porta. “Di che cosa parli?” Incredula.

Scuote la testa. È triste doverlo spiegare. È stanco di spiegare. “Mi hai detto che partirai… parto per te. Perché tu vuoi partire…” È stanco di difendersi. Di lottare.

Lei non capiva. “No...”

“Vado via io…” al tuo posto.

“No… e dove?”

Ma lui non ha più risposte.

Era corsa di là.

“Perché?” si era domandata, tuffandosi sul letto, come se potesse nasconderla. “Perché?” Ma erano troppe domande, assieme, nella stessa parola.

“Non andare via… non andare...” si sentiva perduta, all’idea. “Resterò qui… io… io rinuncio…”

E ora è lui ad andarsene. Perché di fronte alla prospettiva di lei assente, si è sentito perso.

 

È andato.

Lontani. Distanti. Feriti.

Ognuno perso nel proprio silenzio.

Poco importa che si siano abbracciati, stretti. Ci sono cose, nella vita, che rappresentano strappi.

Ferite.

Si possono riparare. Ma fanno male. A volte, soprattutto, restano. Importune. Dannose.

 

Chi può dire quando l’amore inizi?

Quando cominci ad accendersi, poi, ad ardere.

Un giorno, ci si sorprende… ed è lì.

Era stato così, con disarmante semplicità, che, una volta, le aveva spiegato come si era accorto di amarla.

E ora…

È entrata nella stanza di lui. Le fa male, vederla vuota.

Ma cerca una traccia di lui.

 

*** Grazie, davvero, a Sydreana

 

Continua

 

Laura, da autunno 2013 ad agosto 2014 pubblicazione sul sito Little Corner settembre 2014

Vietati la pubblicazione e l'uso senza il consenso dell'autore

 

 

Mail to laura_chan55@hotmail.com

 

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