A Portrait
II
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Una persona mi aveva inviato un'immagine, parlandomene in relazione a un disegno. Nel vederla, a me era venuta subito in mente un'immagine, che sto realizzando, ma, insieme, nasceva anche il racconto di tutta la situazione attorno al disegno. Eccolo qui. Dedicato a M. T.
Scena 3
maggio 1788
Mio…
Si è ritrovata a carezzargli, lieve, il braccio, i
capelli. Senza pensarci, titubante, prima. Sotto l’ombra di un albero,
nell’esplosione di raggi, foglie, profumi, vento, erba di un maggio di sole. Con
una brezza lieve, che sfiora la pelle, i capelli, ed è bellissimo. Dopo che il
principe si è sentito male, le dita strette alla mano di Oscar e a quella di sua
madre dall’altro lato, e André lo ha sollevato, ancora più sparuto, tra le sue
braccia, e portato nel letto, la regina che faceva strada. Infine, sono arrivati
i dottori, tra loro anche il dottor Lassonne, il primo medico. Che ha guardato
André in modo strano, ha notato Oscar. Erano di troppo, loro due, ma Oscar non
voleva allontanarsi prima di avere notizie. André aveva fretta, invece.
“Vieni fuori”, le ha detto, piano, prima che il dottore
potesse tradirlo. Conducendola nel parco, inondato dei raggi di un sole
finalmente rinato.
Poi, però, con un gesto improvviso, si è schermato la
vista, colpita da quella luce troppo intensa - se ne è accorta -, soffocando un
gemito. Era pallido.
Una stretta al cuore.
Ma allora…
“Vieni”, conducendolo, sollecita, sorpresa di se stessa,
un braccio dietro la vita, la mano stretta alla sua, sotto un albero. “Sediamoci
all’ombra”, premurosa. Ma ha dovuto lasciargli la mano. Con dispiacere.
Sono rimasti lì, in silenzio, impacciati, pensierosi,
sospesi. Le braccia che si toccano, inerti. A guardare lontano.
Senza sapere che dire. Solo, così, vicini. Abbandonati
contro il tronco. In pace.
Poi, dopo un lungo tempo, ha sentito, sorpresa, quel
peso, addosso. I capelli di lui accanto a lei. La spalla.
“…” Si è voltata. Si era lasciato andare contro di lei.
Scoperto. Arreso.
Allora, ha provato una tenerezza timida, poi, più forte,
poi infinita. Lo ha lasciato pesare contro di sé, senza osare muoversi. Giusto
cercare il contatto delle dita.
Poi, osare passargli, con cautela, un braccio dietro la
testa.
Qualche piccola, piccola, infinitesimale carezza.
Sono rimasti così.
“Devo essermi addormentato”, ha pensato, aprendo gli
occhi e richiudendoli precipitosamente, sperando di non essersi tradito, quando
si è reso conto della situazione. È praticamente crollato addosso a lei,
poverina. Starà scomoda, ma lui, in questo momento, si sente beato, completo,
non vuole altro, meno che mai, ufficialmente, svegliarsi. Anzi, quando sente le
carezze leggere di lei, fugaci, colpevoli, lacrime brucianti gli invadono gli
occhi. In quel momento, e in molti altri, non vorrebbe niente di diverso.
Quante sono le volte che, complici, amici, prima, è
accaduta una scena del genere? Finché erano bambini, quando le cose non erano
complicate. Ma dopo? Quando lei sempre più si faceva donna, e lui la guardava,
innamorato perso – c’erano stati dei periodi in cui davvero quell’amore era da
impazzire, poi, negli anni, aveva trovato una continuità quieta e, quando ci
pensava, gli faceva tristezza aver perso quella passione folle, che ora era
invece un amore costante, denso, a lunga tenuta. Stagionato come il vino.
Ammesso che sia un complimento, per un sentimento. Non ne era così sicuro,
considerò. Se gli avessero chiesto “Sei innamorato di lei” e avesse potuto
rispondere “Sì” – perché anche quello, poterlo dire, non era così scontato –,
avrebbe aggiunto “Certamente. Ancora, ancora adesso” –. Erano come una coppia
sposata da quindici, vent’anni, col tepore di un sentimento costante. Solo che
il suo era rimasto lì. E lei? Lei, cosa pensava?
Era profondamente convinto che lei gli volesse bene e non
in senso fraterno. Questo, in un punto del suo cuore, l’aveva sempre sentito e,
con ostinazione, si era lasciato andare all’idea non abbandonandola. Come,
perché, non avrebbe saputo dirlo, ma forse dipendeva dal modo in cui Oscar era
con lui: come con nessun altro. Non pretendeva di sapere tutto, di conoscere
come fosse con Fersen, o Girodel, ma aveva l’incoscienza e la presunzione di
pensare che, con lui, anche dopo la crisi, lei fosse e fosse rimasta diversa. In
fondo, anche lei si considerava sua, anche se non capiva, probabilmente, come
catalogare quella singolare appartenenza emotiva e affettiva. Elettiva, anche.
Loro due si erano come riconosciuti, l’uno nell’altra. E questo era sempre stato
costante.
Rimaneva lì, con gli occhi chiusi, il proprio peso su di
lei, a respirare la sua presenza, a ricordare.
Avevano poco più di vent’anni, nella primavera in fiore
di anni prima. Là, sul prato, inondato dal sole, in cui si erano distesi, dopo i
duelli, dopo aver camminato, tenendole, come sovrappensiero ma premuroso,
attento, con un senso di possesso, il braccio attorno alle spalle, come un
compagno, come un amico caro. Come un innamorato.
Ma quasi non ci facevano caso, allora. Lui, se ci
provava, incassava la quasi indifferenza di lei. Lei, tutto sommato, era felice
di quelle attenzioni che le ricordavano quelle affettuose e cameratesche
dell’infanzia (così le catalogava, come un prosieguo delle effusioni da
bambini). Lui, negli anni più intensi di quell’innamoramento a perdersi, al
culmine di quel sentimento, col cuore pieno d’amore, pure si accomodava in
quella sorta di limbo. Era bella, Oscar, a vent’anni. Più bella, gli pareva, di
qualsiasi altra donna avesse mai visto. E aveva una forza, dentro, che lo aveva
sempre affascinato più di tutto, in lei. – Adesso, rifletteva, era ancora più
bella. –
Così, quando lei gli si era accomodata contro il fianco,
sistemandosi su di lui, quasi noncurante, all’improvviso, confessandogli, in un
sussurro che temeva quasi di non aver capito “Sono stanca…”, tanto era strano
per lei, lui era trasalito. Innamoratissimo, gli era parso che quegli anni
fossero buttati al vento. Un delitto loro due, le loro due vite, che in fondo
non contavano niente, eppure, era assurdo buttarle così, reprimersi, dover
sempre fingere.
La primavera erompeva in odori, luci sfavillanti e loro
due, sprecati. Sentiva il suo respiro. Il peso della sua testa, su di lui. L’oro
dei capelli, sfavillanti nei riflessi del sole. Quasi argentei.
Aveva allungato una mano. Giusto una carezza, timida.
Si era irrigidito, quando lei lo aveva guardato,
rovesciando il viso verso di lui. Idiota,
si era detto.
Invece, lei, con quegli occhi scintillanti, gli aveva
detto piano, quasi triste: “Mi vuoi bene?” Come una bambina. Come da quella
domanda dipendesse ogni cosa.
“Sì. Sempre”, aveva risposto. “Lo sai”, aveva aggiunto.
“Sì. Lo so”, aveva risposto lei, dopo una pausa. Allora,
come appagata, aveva chiuso gli occhi, e aveva riposato.
Fuori dalle scuderie, al riparo dell’ombra, improvviso,
le stringe piano il polso, per trattenerla. Poi, la cinge in un abbraccio, che
la fa sua. Ode ogni rumore, Oscar. Tutto è amplificato e, assieme, attutito. Col
viso sul petto di lui, ne percepisce il battito del cuore. Sente il calore della
sua pelle, sotto la stoffa.
Poi, piano, porta il viso di lei verso il suo, in un
bacio delicato, che la fa inarcare.
Restano così un tempo infinito. In silenzio. Senza
muoversi. Perché muoversi vorrebbe dire separarsi. Sciogliersi. Finire. E finire
non vogliono.
Sono commoventi, in quel restare stretti stretti, da
ragazzini. La tiene ancora a lungo, prima di lasciarla andare, in silenzio, lui
per le scale di servizio, lei per quelle principali. La sua Oscar.
“Dimmelo, allora, André”, lo provoca. Il brandy
pericolosamente a portata di bicchiere.
Ma quanto sei
sbronza, pensa lui, un’occhiata preoccupata al mobile in cui lei conserva la
sua personale riserva. Che lui, ogni tanto, rifornisce, quando nota che le
scorte calano. Tacito accordo.
“Cosa vorresti, davvero?”
No, non sono sbronza, risponde
mentalmente. Sto solo trovando un po’ di coraggio in un dito di alcool. Qualcosa
più di un dito, ad essere onesti. In fondo è arrabbiata con lui. Quando è
entrato in stanza, forse si sarebbe aspettata che cercasse di baciarla di nuovo.
Invece, eccolo lì, impacchettato come un salame.
Allora, alza la testa, lui. E lo sguardo. Quello sguardo
a volte scuro e, insieme, così luminoso. Che le dà forza e, a volte, a lungo, le
è mancato. “Bene, vuoi saperlo?” Scioglie le dita, intrecciate davanti al viso,
e poggia le mani sul tavolo, in un gesto naturalmente elegante. Lui ha un
portamento elegante. Per natura. Si distingue.
“Sì.”
“Amarti.”
Lo scruta, severa. “Quello puoi farlo.”
“No. Non liberamente. Non posso neanche dirlo.”
“Non hai bisogno del permesso di nessuno, se va bene a
me.”
Un tuffo al cuore.
“E a te… va bene?”
Sorride, arrossendo, gli occhi abbassati. “Questo, credo
che tu lo sappia.”
Si alza. Va a prendere un bicchiere. Glielo riempie.
“Vai avanti.” Lo incoraggia, porgendoglielo. “Bevi.”
In vino veritas. In brandy? Forse
anche di più, a giudicare dalla gradazione…
Si prende il suo tempo, André. Beve piano, poco per
volta.
Le fiamme che guizzano nel camino, riflesse nel vetro.
Sul piano del tavolo. Sulle loro pelli.
Ti amo…
Anche io…
“Fare l’amore con te.”
Avvampa.
“Perché, se ci amiamo, vorrei che ci unissimo. Vorrei
unire i nostri corpi.”
“…”
“Non guardarmi così. Succede alle persone che si amano.”
“…”
“Va bene… pensaci…”
“E… poi?”
“Come, poi?” È uno stillicidio.
Vuota il bicchiere. Se ne versa ancora. “C’è… c’è altro?”
Lo incoraggia, ormai avviata alla strada per il patibolo.
“Vorrei sposarti.”
Aggrotta le sopracciglia. ”Così, di punto in bianco?”
“Sì.” Troppo serio. Pericoloso, annota lei.
“Ma… non è un po’ presto?”
“Sono più di vent’anni che sono innamorato di te.” Gioca,
quasi sovrappensiero, col bicchiere, sul piano. “Non rischiamo che passi troppo
tempo? Che l’amore si spenga?”
“Ma intendevo… almeno…” Si spenga?, annota,
improvvisamente preoccupata.
“Fidanzarci? Conoscerci? Chi si conosce meglio di noi?
Abbiamo passato insieme tutta la nostra vita. È molto più di quanto facciano due
coniugi…”
La nostra vita. Quelle parole la colpiscono. Dure.
Tenere. Vere. Tutta la nostra vita… “Va bene.” Ho detto va bene?
Ha detto va bene??? Qualche attimo di panico.
“E dopo?” Temporeggiamo. O, forse, corriamo a precipizio
verso il baratro. Il destino.
“Dopo cosa?”
“Dopo cosa vorresti fare? Che cosa vuoi provare?” Quasi
con aria di sfida, ma una tristezza, una disillusione di fondo. Che gli
stringono il cuore. “Dovrei fare… la donna?” Con disprezzo, allarme. “Fare
figli?” Con paura.
“E perché mai?” Scuote la testa. “Io ti voglio così come
sei. Voglio solo vivere insieme a te.”
“Ci vivi già.” Sollievo. E delusione.
“Come tuo marito.” Puntualizza. Libertà di amare. E di
scopare, autoevidente corollario. Ma non lo dice.
“Già.” Eppure, qualcosa le illumina lo sguardo. Una
sfida, forse? “E figli? Non ne vuoi?”
Alza le spalle, la guarda un po’ troppo seriamente. “No.
Mi basti tu.”
“Come a dire che ti do già abbastanza da fare…” lo prende
in giro.
“Se il tuo obiettivo”, ricambia lui, “è smontare
qualsiasi cosa io dica, sei quasi sulla buona strada; ma, per risponderti più
seriamente, visto che, stasera, i nostri discorsi vertono sul tremendamente
serio, oltreché alcolico, permettimi di annotare, lo scopo principale del
matrimonio, per quanto mi riguarda, non è la procreazione. È stare accanto a te.
Poterti baciare liberamente. Poter fare l’amore con te, perché ti amo. Unirci.”
Porta il suo affondo, André.
Rabbrividisce, a quelle parole. “Unirci… fare l’amore…”
pensa a lui, a quel che sa del suo corpo, negli anni in cui non c’era come una
barriera, tra loro, le immagini, ricordi le affollano gli occhi, risperimenta
profumi, contatti e si sente travolta da quello che, improvvisamente, le sembra
un pensiero bellissimo. Non più neanche nuovo. Come, inaspettatamente, una cosa
che prima componeva un nodo di angoscia, ora si sia sciolta, abbia trovato una
sua soluzione, un suo luogo nel mondo della sua vita. Sia “naturale”.
Vede la mano di lui, tesa verso la sua, all’altro lato
del tavolo.
La raggiunge, incerta, e lui la stringe, sicuro. Dita
fredde racchiuse tra le sue, calde. Sono belle, le loro due mani, così, unite.
Così belle che le trema il cuore. È bello il polso di lui, delicato, che sfuma
nel bianco della camicia. Lo ha sempre guardato, senza mai prestarvi attenzione.
Quello era André. Lo è stato per tutti questi anni.
E, improvvisamente, una tristezza abissale la circonda,
la avvolge. Quanti anni sprecati… quanti,
inutilmente…
Scena 4
maggio 1788
Unirci… fare
l’amore… Continua a ripensarci. In un brivido.
Un imbarazzo silenzioso, palpabile, li accompagna, nella
cavalcata, quel giorno. Lui, ogni tanto, cerca di scrutarla, in tralice, temendo
di aver osato davvero troppo. Lei, ora, sembra pensierosa, come soppesando
qualcosa. Invece di un bacio, ha avuto una proposta di fare sesso e di
matrimonio. Un bel casino.
Il sole brilla, ombre, luci, giocano sui colori della
pelle, dei capelli. Il principe posa accanto a lei, che lo osserva,
sovrappensiero.
“Oscar, oggi non siete qui…” La sorprende.
“Ci sono, invece…” Gli sorride, ma sente le ossa
deformate contro di sé. Cerca di escludere quella percezione tremenda.
“Non dovete pensare al vostro fidanzato, mentre siete col
vostro promesso sposo”, la rimprovera, con logica quasi impeccabile.
“Louis Josef!!! Insomma!!!” Interviene la regina, uno
sguardo imbarazzato al presunto fidanzato, che mantiene un aplomb impeccabile,
mentre benedice l’intraprendenza del biondino. Ha buon gusto, in fondo.
“Oscar, André, scusatelo.”
“Niente affatto, Maman, io sono serio, in amore!”
Insiste, il principe.
“Certo, ma anche madamigella Oscar e André lo sono. Devi
rispettare i loro sentimenti, no?” Mentre i due, al “loro”, leggermente
annaspano, si guardano, arrossiti, imbarazzati.
“No, io sono innamorato di madamigella Oscar e la
sposerò.” Oscar avvampa, poi abbassa lo sguardo. André lo distoglie guardandosi
attorno in cerca di chissà cosa.
“Principe, vi farò un bellissimo ritratto di nozze,
allora”, interviene la pittrice, salvando un po’ tutti.
La seduta si allunga, Madame Le Brun vorrebbe
approfittare del sole, del giorno più caldo, per rubare le tinte. Disegna,
prende schizzi, impasta sulla tavolozza. Ogni tanto, un’occhiata, veloce,
esperta. Ha tanti fogli, pastelli morbidi, sanguigne. Disegna, veloce, poi, in
studio, lavorerà su tela.
André, lo sguardo aggrottato, sembra scrutare lontano,
quasi perso. È silenzioso, oggi. Vede sempre peggio e non sa se riesce a
nasconderlo a sufficienza. E ha voglia di lei. Fisicamente. Si domanda come
faccia lei a controllarsi. Se riesca a trattenere quello che erompe, quello che
i loro corpi domandano.
Oscar, dalla distanza, lo osserva, mille dubbi, per le
parole tra di loro… ma anche per altro.
Ma, dopo quelle lunghe ore, Joseph è stanco,
stanchissimo. Nonostante la gioia di stare con la sua Oscar, il fisico, provato,
non regge oltre certi sforzi che, per un bambino normale, sarebbero niente.
Joseph è una piuma, una piccola piuma leggera, troppo fragile, che il vento sta
spazzando.
Se ne accorge Oscar, quando, improvvisamente, le va in
affanno, e le sviene in braccio, senza apparente ragione e lei, pur consapevole
della situazione, legge pena e strazio negli occhi della madre, della regina.
“Il principe Joseph non è robusto come il fratello.” Le
sfugge, e subito se ne pente, mentre rientrano nelle scuderie e lui prende un
lume dal gancio sulla parete.
“No, decisamente.” Almeno è un argomento di cui parlare,
dopo l’imbarazzo dell’altra sera.
“Lo dice la regina stessa.” Poveretta…
“Già.”
“Si vede.”
“Beh”, si lascia sfuggire, “in fondo Charles ha preso dal
padre.” Chiosa lui, sempre più informato di lei, ancora adesso, sulle questioni
della corte. D’altra parte lei ormai ha lasciato perdere. Derivino dove
vogliono, i reali, i cortigiani, se non vogliono capire, se non comprendono la
realtà. Già, la realtà. Anche lei ci ha messo troppo a capire. O ad accettare?
“Dove prendi tutte queste notizie?” Lo canzona. “Sei
sempre così informato…”
Alza le spalle. “Le persone con me parlano. Mi
raccontano…”
“Grandier magico…” in uno sguardo divertito, nonostante
la tristezza che, sempre, il pensare a quel bambino martoriato, le mette
addosso.
Allunga una mano verso di lei, senza pensarci, in un
gesto affettuoso.
Lei la stringe. Un sorriso le scalda il volto. Sente le
dita serrarla, poi, lui l’avvolge in un abbraccio, curandola nel suo mantello.
“Per stasera, non pensarci…” E lei, in quel momento, racchiusa in lui, sente di
poter piangere, finalmente. Di potersi abbandonare.
Non lascia la sua mano, quando salgono le scale. Le
prende il mantello, nella sua stanza. Lo appoggia con cura. Molto più di quanto
riservi al proprio.
Ravviva il fuoco, che qualcuno, premurosamente, ha già
fatto partire.
Si siede davanti al camino. Allunga una mano verso di
lei. “Vieni qui…” le dice soltanto.
Restano così. Insieme. Soli.
“Non voglio! No, non voglio interrompere il quadro,
Madre!”
Le proteste del principe la riscuotono bruscamente dai
ricordi. Le ciglia. Le labbra. L’emozione. L’abbandono timido, inizialmente. La
mano sul suo seno. Poi, sotto la camicia. Si guarda attorno, imbarazzata.
“Sii paziente, Joseph, giusto qualche mese, finché non ti
sarai ripreso…”
“No, poi arriverà l’autunno… no! Oscar, voi che dite?” La
implora il principe, cercando un’alleata.
“Altezza reale, la vostra salute viene prima di tutto.
Ma, ogni volta che vorrete, sarò qui da voi. Ve lo prometto.”
“André vi sposerà lui, intanto!” Protesta Joseph,
allarmato.
“Altezza, un nobile non può sposarsi, senza il permesso
del sovrano…” gli rammenta Oscar, seria, mentre André sente il cuore piombargli
giù, sprofondando nel rovescio del mondo.
“Oscar, quel permesso lo avete”, taglia corto la regina.
“Sapete bene che potete sposare André” una pausa malefica “o chi vorrete”,
sorride, infine. “Anche questo piccolo impertinente. Anche se sapete quali siano
le mie preferenze in tema”, aggiunge, mentre il cuore del Grandier torna
speranzosamente a svettare nell’Empireo.
“Le… le… vostre…” annaspa Oscar. “Ma… ma…”
“Adesso sono allarmato”, conclude il bambino. “Voi due
preferite lui”, indicando, accusatorio, il povero Grandier ormai senza fiato.
“Altezza, il quadro posso finirlo velocemente anche coi
bozzetti che ho. Lo avrete”, interviene provvidenziale la pittrice, avvezza alle
querelle reali, anche se sembra dispiaciuta di dover mollare i suoi soggetti.
“Certo, sarebbe meglio posare dal vivo, ma non è niente che non possa farsi…” si
interrompe, prontamente asfaltata dall’occhiata torva della sovrana.
“A me piace posare con Oscar!”
“Questione chiusa. Madamigella Oscar, quando potrà, verrà
a vederti, ma non puoi strapazzarti con le sedute. Lo farete, Oscar?”
Abbassa gli occhi, Oscar. “Certamente, Maestà”.
“Ma Oscar verrà col fidanzato”.
“Per forza: è il suo attendente”, obietta la madre.
“Non è che perché sono un bambino che dovete decidere per
me, Madre!”
“Altroché, Joseph. Perché sono tua madre e sono la
Regina. Devi ubbidire doppiamente.”
“Non vale, giocate sporco!”, conclude, strappando
involontariamente un sorriso agli adulti.
“Finisce così, allora…” dice André, la voce bassa.
Finisce anche per noi?, sembra domandare, rattristato,
mente Oscar, sorpresa, è avvolta dal tono di quella voce magica, travolta dalle
immagini, dalle sensazioni di loro due.
E, ora, vorrebbe prendergli la mano. Appoggiarsi a lui,
al suo corpo caldo. Protettivo. Se può fare quello che fa, essere quello che è,
è grazie a lui. Ma è così sola, in quelle tristezze che la avvolgono. Nei propri
blocchi. Nel senso di ingiustizia di fronte a troppe, ormai, cose.
Ti dispiace?, vorrebbe domandargli. Ma non sa parlare.
Non ha ancora imparato.
Quanto, ancora, dovrà attendere? Quanto tempo, vita,
sprecare, di sé, di lui… è tutto così assurdo e lei ha così paura, in certi
momenti. A volte, con lui, invece, volerebbe.
Così, ci prova: “Tu che ne dici, signor fidanzato?”
E lo osserva, trova il coraggio di guardarlo in faccia,
in attesa di una reazione. Lo vede illuminarsi, felice, sollevato, e prova
sollievo anche lei, e vede le sue mani venire verso di lei, forse, vuole
abbracciarla, come davanti al camino, forse… non sa, ma, succede tutto così in
fretta, e, improvvisamente, lui si arresta, nello slancio, lo sguardo sbarrato
in una fitta. “Ah!”, soffoca un gemito. Blocca a mezz’aria la mano che sta
portando verso l’occhio, trattenendosi appena in tempo.
“André, André”, preoccupata. “Che ti succede?” Lo prende
per le braccia, accorata.
Per qualche istante, intercetta lo sguardo vuoto di lui.
Nero, solo nero davanti a sé.
La scansa, bruscamente, inaspettatamente. “Lasciami!”
Corre lontano, cercando il mondo attorno a sé, gli
ostacoli, i nemici, a tentoni, inciampando, sperando di averlo fatto lontano
dalla sua vista.
“Tua nonna è preoccupata per te…” la voce bassa, un lume
in mano, lo osserva nella sua stanza, spoglia. Seduto alla scrivania. Un libro
inutilmente aperto.
E tu, tu no? Vorrebbe domandarle, ma tace.
Gli è dietro. La sente avvicinarsi, irrigidito. Sente che
si è fermata. Ne avverte la presenza. Lei legge da sopra le sue spalle. “La
nuova Eloisa…” sorride.” Anche tu?” e la dolcezza di quella voce, di quelle
piccole, poche parole, scaldano un po’ il cuore ad André.
“Scusami per prima.” Si volta verso di lei, appena
illuminato dal lume sul tavolo e da quello portato da Oscar, poggiato accanto
alla porta.
“Che cosa ti era successo?”
Resta in silenzio, lui.
Gli posa le mani sulle spalle. Abbassa il viso fino al
suo, parlando piano. “Parla…” Gli sussurra, all’orecchio.
Trasale, lui. Le si appoggia contro, senza quasi
rendersene conto. Istinto, abbandonarsi, protezione. I capelli di lei gli
spiovono sul viso. Lei avvampa. Fugge al contatto.
Si siede sul letto di lui. A distanza. Al sicuro.
Eppure, aver smarrito quella vicinanza le spiace.
“Guardami”, gli dice, allora, la mano tesa verso di lui,
in una rincorsa infantile.
Un gesto fatto mille volte, sedersi sul suo letto, che,
stasera, a lui pare infinitamente intimo. La sua Oscar, è lì, davanti a lui, e
sta minacciando di carpire il suo segreto. È felice, ha paura.
“È l’occhio? Che cosa ti sta succedendo?”
Si alza. La raggiunge. Si inginocchia di fronte a lei.
“Niente, Oscar…” è solo amore, vorrebbe aggiungere. “Non
volevo trattarti male… scusami…”
Allora lei, improvvisamente, intenerita, allunga la mano
verso i suoi capelli, intrecciando ad essi le dita.
Sorpreso, André, trattiene quel gesto, quella mano, con
la sua. Per un tempo infinito. I respiri, i battiti sospesi.
Poi, la abbraccia, si stringe forte al suo grembo.
Vorrebbe potersi lasciar andare, poter confessare tutto, amore, paure. Vorrebbe
poter piangere. Gridare aiuto. “Scusami, Oscar… scusami…” Mentre lei, sorpresa,
gli accarezza la testa, i capelli, le spalle, come un bambino. Come per
placarlo.
“Dimmi la verità.” Sente la sua voce chiara. “Devo
saperlo”.
“Io ti amo…” Mentre rivolge lo sguardo a lei.
“Questo lo so”, gli sorride, mentre ascolta, sorpresa, la
propria voce. Non smette di accarezzarlo. Vorrebbe non si sentisse minacciato.
Scoperto. Ma non c’è un modo più delicato per quell’argomento.
“Tu…”
Il cuore le balza in petto, ora. Non può tirarsi
indietro. Verità contro verità. ”Anche io. Anche io ti amo, André”. Gli
confessa, quasi con tristezza. Con dolcezza. “Lo sai…”
Allora, lui la stringe in un abbraccio.
“Ti amo… ti amo…” Finalmente può dirlo.
“Ti amo”, nella tenerezza delle carezze, nel rimpianto,
in mille domande sospese.
“Ti prego, parla…” Lo implora. Dopo un tempo infinito.
Gli trattiene le mani, accanto a lei sul letto. Lo vede
esitare.
“Vieni qui”, la fa sedere su di sé. Se la culla, in
silenzio. Nella penombra ovattata. Che, quasi, li nasconde.
Lei gli carezza i capelli, il viso. “Ho parlato col
dottore…”
“Allora ti ha detto tutto…”
“Sì…”
Abbassa gli occhi, lui, la circonda con le braccia. “Sto
diventando cieco.” Ammette. Una pausa. Lei sbarra gli occhi. Si sente di merda,
per averlo voluto sentire dalla sua voce.
Lo sente serrare la stretta. “Mi vorresti ancora, in
questo caso?”
Si stringe forte a lui, lo tiene contro di sé, come a
proteggerlo. “Oh, André, ma che cosa dici? “Come puoi pensare una cosa simile?”
Mentre continua a serrarlo, carezzarlo. “Certo, certo che ti voglio.” Scuote la
testa, tra le lacrime improvvise. “Come puoi averlo pensato?”
“Scusami… scusami, Oscar…” a voce bassa.
“Come…” azzarda. “Com’è? Come succede?” Vorrebbe capire.
Non sa come chiedere. Vorrebbe aiutarlo. Proteggerlo.
“Non è sempre così…” prova a spiegare, la voce bassa.
Quasi in imbarazzo. “Ha iniziato a succedere…”
“Quando?”
“Quasi subito…” Laconico.
Si porta una mano al viso.
“Non devi preoccuparti…” la rincuora, cercando di
rassicurarla. “Va avanti, un po’ per volta, ma vedo, riesco ancora a leggere, a
fare le cose normalmente. Solo, a tratti, non vedo più.”
“Come prima”.
Annuisce.
“Devi riguardarti. Non puoi continuare a fingere.”
“…”
“Al lavoro… è troppo rischioso… non…”
“Non mandarmi via.” D’impeto. Si scansa da lei.
“…” Lo raggiunge, in piedi. “Aspetta…”
“Voglio continuare a essere il tuo attendente, per
favore…”
“Non puoi…” Mentre lo trattiene per una mano.
“Io verrò con te. Comunque. Non esiste un’altra opzione.”
Le stringe le dita. Quasi le fa male.
“Sei testardo.” Gli sfiora il viso in una carezza. Un
inizio di resa.
“No, solo determinato.” Innamorato. Senza scampo,
semplicemente.
“Non ti basta essere il signor fidanzato, rivale del
principe ereditario?” Lo canzona, gli occhi ancora lucidi.
“No.” Scuote la testa, lui. Deciso. “Vieni qui, ti
prego”, allunga le mani verso di lei. La stringe forte a sé. “In fondo, finora
non te ne eri accorta…” le dice, piano, mentre l’accarezza.
Si domanda quanto abbia voluto ingannarsi, a non volerlo
notare. Si domanda se sia giusto. Sta rischiando troppo.
“Ti prego… voglio solo baciarti…” e le solleva il viso,
cercandola. Sfiorando quella pelle dolce, le labbra. Schiudendole, e lei si
perde.
“Tra l’altro, il signor fidanzato, qui presente, starebbe
pensando di sposarti, visto che Sua Maestà la regina è d’accordo.” Le dice,
riemergendo dai loro abiti, spiegazzati, dal groviglio di lenzuola.
“André!”
“È una proposta formale, sappilo.”
“Sei un impunito…”
“Se vuoi, puoi sbronzarti, prima di darmi la tua risposta
affermativa…”
“Non hai alcol, qui”, lo rimbrotta.
“Vado a prendertelo” e si alza, pronto.
“Fermati, per carità! Sei nudo!!!”
Scena ultima
giugno 1788
La comparsa di una bella dama – una bella dama in abiti
femminili, corre precisare, vista la situazione peculiare del Depôt – in caserma
metterebbe già di suo in subbuglio i commilitoni, figurarsi quando, affrettando
la falcata graziosa, ma decisa, una cartella sotto il braccio, i soldati la
vedono puntate dritta verso il Grandier, tutta perfettamente sorridente, e, per
giunta, salutarlo. Chiamandolo sacrilegamente per nome.
“André, come state? È un piacere…” Eresia, dicono le
facce allibite degli uomini, mentre si assiepano ad osservarli allontanarsi,
confabulando, verso gli edifici del comando.
“Tu conosci quella… signora?”
“André, che storia è?”
“Ti pestiamo di nuovo, se non parli!”
“Se mi pestate, non saprete niente…”
“Oh, prego.” Sorpresa, Oscar, vede la pittrice entrare
nel suo studio. Posa la penna nel calamaio, scosta i fogli di appunti. Si alza.
“Prego, sedetevi”, le fa strada.
“Non ci siamo più viste…” esordisce Elisabeth.
“No, non ce ne è più stata occasione…”
“No… il principe… povero piccolo…”
“No, certo”, taglia Oscar. “A cosa devo…” interrompendo
quel penoso scambio di convenevoli.
“Il ritratto è finito. Mi piacerebbe, e anche a Sua
Maestà, che passaste a vederlo.”
Le sorride. “Certo, non mancherò.”
Poi, le passa dei fogli, la Le Brun, “Ecco, sono per
voi.” Tirandoli fuori dalla cartella.
Oscar li prende, sorpresa. Poi, il suo sguardo si
addolcisce. Le guance si arrossano.
Elisabeth sorride, certa di aver colto nel segno.
Si tratta di bozzetti. Alcuni di quelli per il quadro.
André è ritratto, primo piano, profilo, scorcio… figura intera. Ad Oscar tremano
le mani, mentre li sfoglia. “Io…” Guarda la pittrice. “Grazie, sono bellissimi…”
C’è anche lei, alcuni particolari.
“Li ho fatti mentre posavate… osservavo anche lui”,
confessa. “Ma andate avanti”, la esorta Elisabeth, sulle spine più che per una
consegna a Maria Antonietta.
E, scorrendo i fogli, appare qualcosa che, nella realtà,
non è mai accaduto, almeno non in pubblico. Accanto a lei c’è André. Quasi più
vero di come non lo abbia mai visto, vivo, vivido, che le offre una rosa, i cui
petali sono appena abbozzati di pastello bianco. Trasale, Oscar.
“Ma… io…” Arrossisce.
“Si intitola Il
signor fidanzato”, annota l’artista, sorridendo. Oscar resta senza parole.
“È perfetto. È così somigliante…” incredula. Stupita. Anche dal gesto.
“Confesso che sono stata ispirata dal principe. E,
allora, ho iniziato a osservarvi”, ammette, sorniona. “A capire”, affonda..
Guarda la pittrice, ammutolita dalla sorpresa.
Emozionata. “È bellissimo…” Le tremano le mani. L’altra se ne accorge. Distoglie
lo sguardo, clemente. “Grazie…”
Un gesto noncurante. “Beh, ve lo auguro”, sorride. “Ma
spero sempre che la realtà superi la fantasia.”
Oscar avvampa, senza sapere che dire. “…”
E, poi, di fronte al suo silenzio perdurante: “Siete
diversa da come vi descrivono.”
“Sono proprio belli”, ammette, ammirato André, mentre,
nel letto, sfoglia i disegni. Poi, osa: “Potrei… potrei tenere quelli con te?”
Lo abbraccia, stretto. “Certo, se vuoi.” Poi,
improvvisamente gelosa: “Però ne ha fatti molti più a te! Non va bene!”
“Non sarai mica gelosa?”
“Io non sono gelosa.”
“Sei sicura?”
“Faccio lo sciopero del sesso. Ti avverto.” Incrocia le
braccia, si volta dall’altro lato, piccata.
“Va bene. Non sei gelosa.” Di fronte a una tale minaccia.
“Ora, però”, azzarda, “potrei baciarti di nuovo?”
Lo stringe forte, dolcissima. Il cuore felice e
addolorato assieme. Chiude gli occhi. Sente il suo viso, la sua pelle, il
respiro, su di sé.
FINE
Laura, febbraio-aprile, pubblicazione sul sito Little Corner marzo 2018
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Laura Mail to laura_chan55@hotmail.com