Rape
(Racconto
d'Inverno)
Parte VII
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Nota: un
ringraziamento a Fiammetta per il tempo dedicato ad analizzare questa parte e
per i preziosi suggerimenti.
Le
songe
Il
ritorno alla vita usuale non fu facile. Apparentemente, niente era cambiato. E,
all'inizio, neppure Oscar se ne accorse. Ma, a poco a poco, piccoli segnali
iniziarono a manifestare il suo disagio, la sua paura, il terrore accumulato
durante quella esperienza.
Oscar
tornò al suo incarico a Versailles. E trovò Girodel ancora tra i suoi uomini.
Girodel che la guardava con superiorità, quasi l'avesse domata, con aria di
sfida, insistentemente, mentre gli altri soldati osservavano ogni sua reazione,
pronti a cogliere il minimo segnale, il più piccolo indizio di cedimento.
Girodel che non faceva niente per evitarla. Anzi, pareva godere nel seguirla. O,
perlomeno, nel darle quell'impressione. Se l'era ritrovato a pochi passi,
dietro, in diverse occasioni, senza che si fosse resa conto di essere seguita.
Era sbucato da dietro una colonna, in un corridoio ampio e deserto, in un caso.
Dall'ombra delle scuderie, in un altro. Sempre in luoghi deserti. Bui. Oscar
aveva cercato di essere razionale, ma non era riuscita ad impedirsi una reazione
di paura, non era riuscita ad impedirsi di tremare…
Non
diede peso al senso di vertigine che l'assalì la prima volta, alla vista dei
cortigiani accalcati e rumorosi - una massa disumana; e, in seguito, dei
corridoi deserti, degli spazi vuoti, degli alberi dei boschetti, luoghi
virtualmente infiniti che potevano nascondere chissà quali insidie immaginarie.
Non diede peso neppure al senso di sbandamento che, sempre più, l'abbatteva,
tra quei corridoi, costringendola sovente a fermarsi, a cercare appoggio, ad
asciugare il sudore, a portarsi una mano al petto, come a controllare il cuore
impazzito, ed una alla gola, come a sincerarsi che il respiro passasse. Sul
principio, non ci fece caso. Pensava di essere stanca, provata fisicamente.
Però…
però quei segni si fecero sempre più insistenti. E sempre più quando si
trovava da sola. Isolata. A rischio.
E
Oscar iniziò a rendersi conto con terrore che ormai era divenuta preda come di
attacchi, di crisi, che la coglievano in momenti inaspettati, che la colpivano
senza alcuna logica; che lei non riusciva a dominare razionalmente quelle paure.
Sul principio, aveva sentito il respiro farsi pesante, affannato, un peso sul
petto, il cuore fermo e poi schizzare a mille. Aveva avuto paura. Una paura
folle. Paura di non riuscire a respirare, paura di morire, perché l'aria è
vita e quella sensazione di assenza di essa, ora, le incuteva un terrore
infinito. Le mani gelate, che le tremavano, la vista che si annebbiava, un
ronzio sempre più forte nelle orecchie. Era accaduto una sera, la prima volta.
Era con sua madre, Nanny e André. Si era spaventata a morte e nessuno, tra di
loro, sapeva cosa fare. Solo sua madre, tempestivamente, era corsa a prendere
del cognac e glielo aveva fatto bere, mentre André la trascinava di peso verso
una finestra aperta. Il liquore in circolo l'aveva calmata. La sensazione
dell'aria addosso l'aveva tranquillizzata. Ma ora Oscar aveva paura. Una paura
irrazionale, impalpabile. La notte cominciò a non dormire più. Ad attendere
nel buio con il terrore di non riuscire più a respirare, gli occhi sbarrati,
una mano sulla gola, sul petto. Quando, poi, riusciva ad addormentarsi, il più
delle volte si svegliava urlando, in preda agli incubi. Quelle volte, André le
restava accanto finché non si riaddormentava… Ma la soluzione non era certo
quella ed Oscar stessa avvertiva tutto il disagio di quelle paure che si
nutrivano l'una dell'altra. Il disagio di cominciare ad aver paura, sempre più,
di trovarsi da sola.
La
sua vita, che, una volta, le era sembrata inevitabilmente tracciata; che, da
tempo, non la convinceva, ora non funzionava. Quello che le stava accadendo le
stava togliendo anche tutti quei piccoli vantaggi che la sua autonomia, la sua
posizione fino ad allora le avevano consentito.
Si
sentiva male. Si sentiva inutile.
Si
chiedeva, con tristezza, fino a quando André avrebbe accettato tutto questo.
Per quanto ancora avrebbe accettato la sua anormalità. Quanto ancora André
avrebbe sopportato quella vita, una compagna come lei. Non sarebbe stata meglio,
per lui, una donna normale? Senza tutti i suoi problemi? Oscar era profondamente
convinta dell'affetto di André, ma sapeva anche che niente è per sempre. Che i
sentimenti vanno fatti vivere e non si cristallizzano in attimi eterni. Che
l'amore invecchia e, dunque, bisogna saperlo tener vivo. Cos'era, invece, lei?
Cosa poteva rappresentare per André?
Non
voleva perderlo. Non voleva. Ma, a volte, stava talmente male che non riusciva a
nasconderglielo. Mentre avrebbe tanto voluto non dirgli nulla. Mostrarsi forte e
limpida come sempre. Aveva paura che lui la rifiutasse. Che non la capisse. Che,
ora che era debole e non era più come prima, lui potesse allontanarsi. Paura.
Sempre paura. Sfiducia. Stanchezza.
Si
svegliava, al mattino, che era già stanca, con la testa pesante per il troppo
bere della notte. Si svegliava che già non vedeva un termine a quella vita. E,
forse, terminarla davvero le faceva troppa paura.
Si
sentiva sola. Sola da impazzire. Anche se André era lì. Non poteva farci
niente. Lui non le bastava. Stava male. Malissimo. E non sapeva spiegarsi perché.
E,
poi, quegli attacchi. Che la condizionavano.
Successe
una volta, lungo il corridoio degli specchi. Improvvisamente, mentre stava
camminando, Oscar cominciò a pensare che era sola. Che qualcuno avrebbe potuto
avvicinarla, aggredirla. Quello, che era iniziato come un semplice ragionamento,
prese a mano a mano la consistenza di un incubo, poi di una minacciosa presenza.
Oscar non osava neppure guardare dietro di sé, per verificare se,
effettivamente, ci fosse qualcuno. Era paralizzata, non fisicamente, ma
mentalmente. Sentiva qualcosa, alle proprie spalle. Avrebbe voluto fuggire.
Invece, come in un sogno, le gambe erano pesanti, non si muovevano. Avrebbe
voluto urlare. Invece, la voce le moriva in gola. Pallidissima, le mani gelate,
tremava. Avrebbe voluto appoggiarsi ad una delle pareti, cosa che, in qualche
modo, l'avrebbe confortata. Invece, non riusciva a muovere un passo. Di nuovo il
respiro tagliato. Di nuovo quella paura folle.
"Oscar."
La
voce di Maria Antonietta.
"Oscar,
come state?"
E
quella presenza rassicurò Oscar, che percepì calore nel modo in cui la sovrana
le si rivolgeva. Rise di se stessa. Dovresti proteggerla, si disse, e, invece,
sei quasi sollevata dal sapere che è qui con te e non sei sola… Oscar la
guardò. Chissà come doveva sembrarle, si chiese…
"Siete
pallidissima… state bene?"
Già,
si disse, non devo fare una buona impressione… Certo che, a pensarci, è
folle… Cercò di respirare con calma.
"Sì…
maestà… ho soltanto… credo di non sentirmi troppo bene, oggi…"
La
regina la prese per un braccio e, quasi di peso, la condusse all'aria aperta. Ad
Oscar quel percorso parve come una risalita dall'inferno. Tornare a sentire il
cuore più regolare, il sangue nelle vene. Gli altri cortigiani si volsero,
curiosi, verso la coppia di donne.
"Non
c'è André con voi?" Si informò Maria Antonietta, mentre la aiutava a
sedersi su una panca e faceva cenno ad un servitore di approssimarsi.
"E'
con gli altri soldati…"
"Bene,
lo mando a chiamare", disse, mentre dava disposizioni al servitore.
"Credo che sia meglio che riposiate un po'". Si sedette accanto a lei.
Le strinse il braccio.
Oscar
si sentiva impotente, incapace, frustrata. Eppure il calore di quel gesto le
fece bene. "Scusatemi, maestà, se vi sto dando tante
preoccupazioni…"
"Ma
cosa dite, Oscar? Per una volta che posso fare qualcosa per voi…"
André
la portò via con sé, issandola sul proprio cavallo. Sapeva che qualcosa non
andava, ma la comprensione degli scherzi che la mente stava facendo ad Oscar non
era del tutto ovvia… Le malattie si curano, anche empiricamente. Ma la mente
umana è assolutamente fuori da ogni schema. Sapeva che Oscar non stava
impazzendo. Sentiva che quello che stava accadendo era una reazione a posteriori
di paura, da parte sua. Sentiva di poterle stare accanto col proprio affetto.
Ma, in volte come quella, perdeva la speranza. Perché non c'era niente che
potesse governare quei fenomeni. Perché era ovvio che essi esplodevano di
fronte a qualche, minimo, segnale di disturbo, di contraddizione. Qualcosa che,
in Oscar, faceva scattare una insicurezza ormai latente, una paura irrazionale,
un'ansia ingovernabile. Una frase. Un luogo… Il meccanismo gli risultava
chiaro. Ma non sapeva come aiutare Oscar, se non col sollievo momentaneo della
sua presenza, della presenza di qualcuno di cui lei si fidasse. E anche ora,
che cercava di farle sentire il suo calore con un gesto affettuoso, stringendola
a sé, la sentiva, invece, irrigidirsi come per il fastidio di quel tentativo.
Era come se Oscar chiedesse di vivere quel dolore, parte di quel dolore, da
sola. Per pudore di mostrare quel suo lato oscuro. Così rimase in silenzio,
Oscar che gli dava, ostinatamente, le spalle, immobile e scostante. Chiuse gli
occhi. Respirò a fondo. Anche lui si sentiva triste. Profondamente triste. E
lontano. Non tanto perché non riuscisse a comprenderla, a sentire quanto stesse
soffrendo, ma soprattutto perché tenuto a distanza dalla riservatezza, a volte
-stavolta- impenetrabile, di Oscar. E Oscar, in quel momento, sentì tutta la
pena di quel rifiuto, di aver respinto i suoi approcci affettuosi per l'ennesima
volta. Si sentì in colpa. Sentì l'ingiustizia profonda di come stava trattando
André. Ma stava troppo male, si disse, per non essere tanto egoista. Stava
troppo male per non sperare che lui avrebbe, per una volta ancora, compreso.
Eppure ferirlo la faceva stare peggio. Peggio. Lacrime di rabbia e tensione le
scesero, silenziose, lungo le guance.
"Scusami…
mi dispiace…" Fu tutto quello che riuscì a dire. Avrebbe desiderato
aprirsi con lui, parlargli, sfogarsi. Ma non ci riusciva. Non ancora. Avrebbe
desiderato che lui la abbracciasse. Forte. Ma sapeva come avrebbe reagito. Che
rifiuto gli avrebbe opposto.
Quello
che Oscar stava passando e il non parlarne stesso, che aggravava la situazione,
non erano qualcosa di volontario. Semplicemente, Oscar non era in alcun modo in
grado di comunicare quello che le stava accadendo. Neppure con André le
riusciva. Si sentiva come sciocca, come inutile… non sapeva spiegarsi… o,
meglio, lo avrebbe anche saputo. Impegnata in continui ed estenuanti soliloqui
con se stessa che non approdavano a niente, non riusciva a dire un decimo di
quelle stesse cose a chi le stava intorno, compreso André. Anche se proprio a
lui, idealmente, si rivolgevano i suoi solitari discorsi silenziosi. Con la voce
della mente sapeva spiegare chiaramente cosa le stava accadendo ma, quando si
trattava di passare al concreto, era bloccata, temeva che lui non l'avrebbe
capita.
Formalmente,
comunque, il loro rapporto andava bene. Per quello che era possibile. Oscar
aveva posto una sorta di censura mentale a tutti i dubbi che aveva, anche su
André. Si era imposta di non considerarli, perché temeva che, per la maggior
parte, si trattasse dei fantasmi della propria mente. Così, quando lo avrebbe
profondamente detestato, perché le pareva che lui non le desse abbastanza
ascolto, la sua ragionevolezza aveva sempre il sopravvento su quegli impeti
d'ira, dicendole che non era André a dare poco, ma lei ad aver bisogno di
troppo. Oscar si era come posta dei veti mentali. Alcune cose non andavano
discusse. André era una di queste. Perché, in fondo, Oscar sentiva che, se si
fosse fatta trascinare fino all'estremo limite delle proprie paure e sensazioni,
sarebbe stata terribilmente distruttiva. Anche nei confronti di André e del
loro rapporto. E questo Oscar non lo voleva. Né razionalmente, né
istintivamente. Aveva bisogno di lui. Lui era l'ultimo scampolo di normalità e
tranquillità in una vita che non andava.
Avrebbe
fatto meglio a lasciarlo libero, rifletteva, spesso. Poi si ritrovava a pensarsi
da sola e, come ogni volta, scartava l'ipotesi. No, non voleva stare sola ed,
egoisticamente, non voleva che André si allontanasse da lei. Era l'unica cosa
bella in tutta la sua vita.
Anche
se, a volte, provava una rabbia sorda, anche se stava male, le bastava udire la sua voce per sentirsi meglio. Non voleva rinunciare a lui. Non se la sentiva.
Quando lui le parlava, le si scaldava il cuore. Anche nei momenti in cui era di
umore più nero e lo trattava male, lo allontanava, la sua presenza, la
consapevolezza di lui finivano per farla pentire di essere stata tanto egoista,
di averlo voluto tenerlo a distanza. E quella, la volontà profonda di non
fargli del male, era la chiave di molte cose ed era quello che frenava
l'autolesionismo e la distruttività di Oscar. Prendere decisioni dure quando si
è soli è, in fondo, più facile che prenderle quando si risponde -oltretutto
affettivamente- anche ad altri. Lo chiamassero come volevano: ricatto emotivo o
che altro! Oscar sapeva - il suo istinto di conservazione non si ingannava - che
André era l'unico legame serio con la possibilità di andare avanti e non
osava neppure immaginare una vita senza di lui. La sola idea le faceva tanto
orrore che non voleva neppure affrontarla.
I
momenti di disperazione potevano essere terribili. Oscar, allora, sentiva di non
avere scampo, che quella sua vita non aveva più senso. Era sola, si sentiva
sola. Se ne avesse avuto il coraggio, se non ne avesse avuto paura, avrebbe
desiderato morire. In quei momenti si era ritrovata a guardare il vuoto dalla
finestra, a valutare che, in fondo, sarebbe stato solo un attimo. Ma, poi, aveva
avuto paura. Di cosa non avrebbe saputo dire. Forse l'ignoto. Forse il dolore.
Poi, tremando, impaurita, si allontanava dal vuoto, sorprendendosi a pensare che
nessuno mai avrebbe saputo di quello che era stata per fare… Anche caricare
una pistola era un gesto a cui la sua mente applicava automaticamente una
censura, un gesto che la sua mente le impediva di fare, ma che, una volta, aveva
fatto. Aveva preparato tutto. Tremando, con un misto di paura e di intima
soddisfazione. Di cosa non avrebbe saputo dire. Forse di sorprendere qualcuno.
Di lasciare dietro di sé interrogativi su cosa la faceva star male. Poi, però,
si era trovata a valutare che, probabilmente, nessuno avrebbe compreso quello
che le passava per la mente; nessuno si sarebbe soffermato a pensare che lei
stava male, profondamente male… Inutile, si era detta. Sarebbe stato un gesto
inutile, se il suo scopo era far capire a qualcuno che aveva bisogno d'aiuto.
L'unica cosa, invece, era che uccidersi sarebbe almeno servito a porre termine a
quel tormento. Le sembrava di impazzire e pazza, talvolta, si considerava. Ma,
in fondo, era solo una persona che avrebbe voluto essere allegra, felice, forse
solo tranquilla. E, invece, si ritrovava in una situazione che la rendeva
profondamente triste… Così, la pistola dimenticata in una mano, era uscita
sul balcone, all'aria aperta, e si era guardata intorno. Come se avesse, da quel
momento, potuto vedere la realtà con altri occhi. Come se, in fondo, le cose
potessero, in qualche modo, cambiare.
Succede,
a volte. Le era successo, rare volte.
La
pistola ancora stretta in pugno, era rimasta lì, in piedi, anche quando una
pioggia prima sottile, poi, via via, più intensa, l'aveva sorpresa. Non si era
spostata. Non si era voluta coprire. E così l'aveva trovata André quando, dopo
vani richiami, si era deciso ad entrare nella sua stanza per un inspiegabile
timore.
Aveva
notato subito, sul letto, la cassetta dell'arma, gli strumenti. Aveva provato un
brivido. Temeva di aver capito. E l'immagine stessa di Oscar abbandonata sotto
la pioggia, i capelli bagnati, i vestiti fradici, una immagine triste, di
immensa solitudine, di abbandono, lo aveva colpito.
Forse,
era quello che Oscar aveva sperato.
"Oscar",
l'aveva chiamata, piano.
Lei
non gli aveva risposto. Forse non l'aveva neppure sentito.
"Oscar."
Le si era avvicinato.
E
aveva visto quel suo sguardo tristissimo, quasi perso nel grigio di quel
temporale. L'aveva abbracciata da dietro, allora, cercando di trasmetterle tutto
il suo amore, tutto il suo calore; cercando di proteggerla da quel dolore, anche
da se stessa. E quando aveva sentito che Oscar restava immobile, assente, si era
lasciato scivolare a terra, lentamente, vinto, continuando a cingerla, ed aveva
pianto, in silenzio per non farsene accorgere.[1]
E
solo allora quel legame, che richiamava Oscar dal suo mondo oscuro, l'aveva
riportata da lui. L'aver percepito il suo dolore l'aveva riscossa. Era come se,
solo in quel momento, fosse uscita dal suo egoismo e avesse prestato attenzione
alla realtà attorno a sé; come se, di nuovo, si fosse sentita profondamente
ingiusta nei confronti di lui, che le dava tanto affetto. Così, Oscar si era
inginocchiata e lo aveva abbracciato forte, come se, con quella stretta, avesse
potuto comunicargli tutto l'affetto che aveva per lui, come se, con
quell'abbraccio, avesse potuto consolare la sua pena, avesse potuto proteggerlo.
Anche da lei.
E,
a quel gesto, André si era alzato e, un braccio attorno alle sue spalle,
attraendola a sé, senza che Oscar opponesse più resistenza, l'aveva condotta
dentro, l'aveva fatta sedere sul letto, aveva preso ad asciugarla. Teneramente.
E,
mentre fuori continuava a diluviare e si faceva sera, avevano fatto l'amore.
Perché, forse, solo in quei momenti erano realmente vicini, ormai. Perché in
quegli istanti non c'erano fantasmi, barriere. Soltanto loro. Loro due.
Dopo,
Oscar, lo sguardo lontano, accoccolata tra le braccia di André, la stanza
avvolta nell'oscurità, aveva iniziato a parlare. Piano. A tratti. Le riusciva
difficile. Ma non voleva più escluderlo, farlo sentire fuori dalla sua vita. E
non voleva più farsi del male. Voleva uscirne. Voleva vivere. E, in qualche
modo, lui avrebbe saputo aiutarla.
Continua...
Mail to laura_chan55@hotmail.com
[1] La scena della pioggia nasce dalle suggestioni di “Errore” 8, di Fiammetta, riletto più e più volte. Così come anche la scena dell’abbraccio (che, però, vuole richiamarsi anche ad “Opening by my way – Embrace” del Calendario). L’intimità che si crea nella stanza di Place Vendôme, dove tutto l’esterno è come attutito dalla pioggia scrosciante, dove la stanza funziona, per tutto l’episodio (come anche per quelli precedenti) come un guscio protettivo, nel quale i personaggi si rifugiano dal loro quotidiano, mi ha colpito. Forse anche perché conosco il luogo e, quindi, mi sono sentita particolarmente presa (cosa che mi accade anche quando leggo Simenon). Continuavo a rivedere la scena, ad immaginare il grigiore, l’oscurità, dati dalla pioggia, il riquadro di luce della finestra, il contrasto di luce/esterno/realtà ed oscurità/interno/rifugio, ma anche l’atmosfera come irreale che il temporale doveva aver creato o, meglio, ricreato.
La scena nasce anche da una memorabile bagnata che mi sono presa il 25 maggio, tornando a casa, senza ombrello, sotto il diluvio. Camminavo e non potevo non pensare al racconto di Fiammetta. La sera ho scritto quella scena.