Rain
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Ti vedo distante.
Si è fermata, di colpo, mentre si allenava.
Sente le loro voci, distanti. Si scopre geloso. Infastidito da quelle ingerenze.
Fanculo, Fersen.
Perché vieni qui dopo la scopata, a farti coccolare da lei, come se una regina non ti bastasse, e quelle altre che hai. Mi fai pena. E tu, Oscar, che lo sai, perché non lo cacci? Perché lo accogli e con lui tiri fuori un’indulgenza che neanche a te stessa hai mai concesso?
Io vorrei andare via, ma non voglio lasciarti qui, a lui, a nessuno.
Si è girata. Ansima.
Sorride ad André, che, placido, fa colazione sui gradini. Invidia quel suo carattere così sereno, tranquillo. André sembra avere una visione sua di molte cose, che lo rende in grado di gestirle senza scomporsi troppo. È stato così fin da ragazzino. Un sognatore tranquillo coi piedi per terra. Tendenzialmente sornione.
Lui guarda lontano, sembra preso da qualcosa.
Gli va vicino, lui si riscuote.
Si accovaccia accanto a lui. “Ti alleni un po’?” offre. Un sorriso dolce.
Si domanda perché, dopo tanti anni, il cuore gli balzi in petto come la prima volta, quando Oscar si manifesta. Come ogni prima volta. Non c’è sempre, questa Oscar a cui brillano gli occhi, con la voce calda, speciale. A volte pensa sia solo per lui e nessun altro mai.
Si stiracchia, mentre nota che Fersen osserva inorridito il gesto e allora lui l’accentua, per dargli fastidio e chiarire che lui, di fronte a lei, si stira quanto gli pare e a lei va bene.
E allora, osiamo, stronzo svedese!, “Va bene”, e, nell’alzarsi, quasi a chiedere aiuto, impacciato, si aggrappa alla sua mano, quella in cui tiene la spada. E, peggio, arriva fino alla porta a vetri, sentendo le dita tra le sue, e chiedendosi se sta sognando. Ma non è un sogno e Fersen tra un po’ schiatta.
Ma non abbastanza. E così, dopo averlo preso in giro, letteralmente, sul giro vita, se ne va.
Si volta, Oscar.
“Allora, cosa dicono le tue fonti?”
Un passo avanti.
“Quali, quelle di corte o quelle delle bettole?” sa che non le piace sentir nominare le frequentazioni altre, ma pure questo è sapersi informare.
Alza le spalle, lei. Come a dire vedi tu.
Le passa un braccio attorno alle spalle. “Camminiamo, che ti aggiorno, mio capitano…”
La regina passa dal pallido e tirato al colorito animato delle ragazze innamorate. Oscar incassa e finge di non notare. Discreta, si tiene a distanza. Compare solo quando viene chiamata. E quando la regina chiama lei, è spesso per un’unica ragione.
Anche stamattina è venuto a riscuotere la sua dose di te, della tua luce, dei tuoi gesti, della tua compagnia. Lo prenderei volentieri a cazzotti, magari basterebbe chiuderlo fuori. Dal nostro mondo. Non capisco cosa ci faccia, lui, qui. Cosa cerchi. Perché venga a romperti le scatole, a rovinare la tua serenità, quella specie di pace armata che hai costruito attorno a te stessa. Per lui sei un diversivo, lui per te è un abisso.
Se ne è andato, e ti allontani.
Ti vedo, lontana, sugli argini, ancora umidi di pioggia.
Vuole stare un po’ da sola. È stufa.
Quanto le dispiace sapere delle frequentazioni di Hans? Della regina, e di quelle altre. Non è normale, per gli uomini? Non lo è maggiormente tra gente di mondo come loro? Si sente vagamente schifata. Si sente ridicolmente puritana. Si sente tradita. Anche dalla regina. Non solo da Fersen, da cui non ha diritto di aspettarsi niente.
Soffoca il fastidio di quel termine. Tradita. Finge di non averlo composto nella mente.
Silenzia la voce ed è allora che risente quella di André, mentre glielo racconta.
E anche lui, di solito disincantato, le è parso dispiaciuto, forse per lei.
Lui, lui… lui… se anche André si comportasse in quel modo, cosa penserebbe di lui? Arrossisce, e, più imbarazzata di prima, silenzia anche quel pensiero. Faccia quel che vuole. Ma la realtà è che non vuole neanche pensare ad un’eventualità del genere.
Lui è un mondo a parte e, per quanto immagini stoicamente che abbia la sua vita e tutto, anche se è lì a chiedersi quando, visto che stanno sempre insieme, lui non si tocca. Non si pensa. Non si elabora. Lui è. Ontologicamente. E basta.
Si è fermata. Si ferma anche lui, a distanza.
Le nuvole, cariche, si addensano sull’orizzonte. Sono bellissime e si perde dietro quella visione. Perfetta, se ci fosse lei, lì, accanto, la mano nella sua, e sarebbero felici e ogni problema saprebbero risolverlo.
Sono capovolte, nella visione, come dipinte, nell’acqua, insieme all’erba degli argini.
Capovolta dovrebbe essere anche questa vita, che non gli appartiene più, e, ogni volta, ogni volta che quello torna, la perde, più lontana, e non torna quella che era.
Non torna più quella che era.
Ogni volta, ne perde un po’.
Va bene, nella vita si cambia, ma avrei voluto diventassi qualcosa con me. Non così, non distante. Lontana. Con lui. Inseguendolo.
Dove vorresti andare, Oscar…
Non ti dico di restare, solo… andiamo insieme. Vieni con me…
Vieni con me…
Una goccia. Poi altre. All’improvviso, il rumore della pioggia diventa assordante e riempie le loro voci. Corre verso di lei, scivolano le mani bagnate, la tira dietro di sé mentre tutto si fa plumbeo.
Corrono, corrono fino al riparo dell’ingresso. Ansimando, infreddoliti, grondanti. Vicini per proteggersi. Per farsi caldo.
Restano così. Come sospesi.
Eccolo di nuovo, l’idiota, il cretino, quello che risparmia evidentemente sull’istruttore di scherma, e pure sulle spade, se viene qui ad allenarsi. E a mangiare.
Mangia, salvo prendere in giro lui per le mele. Chissà quanto si crede divertente, e Oscar non dice niente. Ma neanche ride.
“E a te, André, non piacciono?” di nuovo alla carica.
“Cosa, le mele?” fingendo di essersi distratto.
“Le bionde.”
“Ah…” una fugace occhiata rassicurante al mare di biondo poco distante da lui. E un tuffo al cuore, veloce, ma, ancora, dopo tanti anni, bello tosto, al ricordo di quel fuoco, dopo la pioggia, in cui, avvolti nelle coperte, si sono asciugati, col brandy a scaldarli. Senza quasi parlare. Una storia di alcool e di silenzi, ride di sé.
“Certo”, serissimo. Pure troppo. Ricaccia indietro le immagini, il calore, la scena fin troppo presente.
“E a chi non piacciono”, cassa lei, “piene di merletti e fiocchi…”
“Veramente a me piacciono più sobrie.” Annota.
“Senza merletti?” Lei, perplessa.
“Magari nude”, incalza lo stronzo.
“No, più guerriere”. Assesta il colpo.
“Ah, beh, la fa difficile qui, il nostro André”, se la ride l’idiota.
“Neanche poi tanto…” mentre lei lo fulmina con lo sguardo.
“Vi prego… dovete fargli sapere…”
Cammina tirando dritto, ma sente addosso un peso immane di tristezza e sconforto e spaesamento. Cosa significa mandare proprio lei a fare da messaggera? L’ha scambiata per un Cupido o cosa? Sarebbe quella la protezione personale della regina? Forse, in un certo senso… ma, sotto il cielo che minaccia pioggia, stringendosi nella giacca troppo leggera, sente che sta navigando contro se stessa e contro tutto e più di tante volte la sensazione le porta dolore. Disagio. Fastidio. Noia, una noia profonda per quella situazione assurda, evitabile, forse inevitabile… si sono innamorati, non l’hanno fatto apposta, sono cose che capitano.
“Avrebbe dovuto soffocare l’amore”, ha detto André una mattina. E poi lei ha finto di non sentire il resto, la mazzata calata con la sua voce dolce e malinconica e ha tagliato corto.
La rincorre. “Dove vai?”
La ferma per un braccio, quando lei fa per sfuggirgli. “Non vedi che sta per diluviare?”
Alza le spalle. “Devo andare…”
“Aspetta… aspetta qui con me, andremo insieme, dopo…”
“No…” ma sembra quasi che le costi, quella risposta.
Che succede, Oscar?
A volte torni quella che conoscevo.
A volte no…
Sei cambiata…
A volte mi pare di raggiungerti…
Invece ti vedo distante. Non vorrei, ma credo di sapere perché.
La segue con lo sguardo, allontanarsi.
Serra tra le dita la stoffa pesante del mantello. E vorrebbe andare là e coprirla, e proteggerla da quel cielo che si fa plumbeo, e pesa, su di loro.
Che vuoi dire a due che si amano…
Se lo domanda, mentre le viene da piangere, per se stessa, per lui, un po’ per tutta la situazione che la schiaccia, e vorrebbe fuggire, non esserci, dimenticare tutto.
La guarda, da lontano. Ma non osa avvicinarsi.
Oscar, io ti amo… Fa un passo.
Si asciuga le lacrime, perché non hanno senso. Non ha senso piangere. Neanche ci riesce quasi. Neanche sa se ne è capace. Da bambina era forte. Dura. Non piangeva. Figuriamoci piangere ora.
Esce da casa di Fersen. Sotto un diluvio battente. Si costringe ad allontanarsi. Cammina, ma le gambe le sembrano paralizzate. Come una statua. Arriva agli argini. Con uno sforzo immane.
Poi. Improvvisamente non ha più voglia di muovere un altro passo. Non ne ha più la forza. Si chiede come faccia, André, a tirare avanti, esserci sempre – e anche con una certa pazienza e buonumore –. Lei non ci riesce. Lo fa, ma è profondamente stanca di reggere gli equilibri. Di fingere.
Lui è lì.
Le si avvicina. Lei si gira leggermente, giusto uno sguardo. Non parla. Lui noterebbe la voce incrinata. “Che bello…” un accenno col mento al nastro maestoso del fiume. Agli argini. Un po’ a tutto. Le sfugge un sorriso. “Posso restare?” Annuisce, più volte, come temendo lui possa non capire.
Le sfiora, noncurante, i capelli bagnati. “Li stavi quasi mangiando”, sdrammatizza in un sorriso. |
Da ragazzino lo faceva spesso, ma allora le distanze erano diverse.
Infatti lei s’irrigidisce.
Abbassa gli occhi, lui. Forse triste.
“Vieni, ti porto a bere”. Le tende la mano e lei si lascia avvolgere nel suo mantello.
Lo segue, stasera, mentre la conduce nelle stradine buie fino a un locale, la cui luce pallida traspare dai vetri.
Lo segue negli sguardi brucianti che le riserva nel tepore del locale, del vino. Lo segue nelle luci quasi fioche, che stasera la abbagliano. Non scosta la mano che lui sfiora, poi stringe. Non distoglie gli occhi quando lui glieli punta addosso. Senza mollarlo. Qualcosa si sta sciogliendo. Lì tra loro. Forse.
Ha gli occhi lucidi.
Le passa una mano sulla fronte.
“No, non hai febbre…” un sorriso dolce.
“Pensa che tragedia, se il messaggero si ammalasse…” ironizza lei.
“Scusami, ma sono una gran massa di cretini…”
Alza le sopracciglia.
“Non capisco perché ti mettano in mezzo ad una cosa del genere.”
Lei alza le spalle.
“Mi dà fastidio…”
“Anche a me…”
“E tu sei cambiata…”
Alza lo sguardo su di lui. “Già sbronzo?”
Scuote la testa. Un sorriso triste.
Va al banco, torna con una bottiglia nuova.
“Pessime intenzioni…”
Si riempie il bicchiere.
“Sì, almeno io te lo dico che sono innamorato di te, che vorrei portarti a letto, sposarti, passare la vita con te…”
Lo guarda stranita, la testa leggermente inclinata di lato. Più interrogativa che altro.
“Se tu fossi d’accordo…”
“Non corriamo un po’ troppo?”
“Non è un po’ troppo che fingiamo che le cose non siano così?”
Lo guarda, poi distoglie lo sguardo trovando improvvisamente interessante qualcosa sul bancone.
“E tu pensi che lo siano…” non è una domanda.
“Lo pensi anche tu.”
“…” un gesto di ammissione.
“Bevi.”
Beve.
Respira.
Lo guarda, poi gira il viso.
“Se tutto fosse giusto, verrei da te. Ti siederei vicino. Ti metterei un braccio sulle spalle e ti proteggerei. Ma tu sei distante, e metti ancora più distanza tra noi.”
Lo guarda incredula. Implorante. Ti prego, non parlare…
“Ci starei anche, a onorare così questo scomodo compromesso, lo farei tutta la vita… ma, ogni volta che torna, lui ti porta via. E, così, non credo di riuscire a starci ancora per molto. Così. Sopportarlo.”
Le prende la mano. Gliela stringe sul tavolo.
“Ho lasciato volentieri alimentare la leggenda che io sia riservato sulle mille e più storie che dovrei avere. Ma la realtà la conosci. È che non ci sono storie.”
Lo guarda con gli occhi sbarrati. Poi, distoglie lo sguardo.
“Non ci sono. Per scelta e disinteresse.” Sembra quasi triste, ora.
Le serra la mano. “Guardami.”
“Io sono innamorato di te.”
“…”
“Da anni.” Fissa gli occhi nei suoi. “Tu questo lo sai.”
Annuisce. Se almeno le lasciasse la mano.
“E vuoi continuare a far finta di niente?”
“Ma cosa dovrei fare?”
“Pensi che sia giusto?” La incalza. “Per te, per me… quanti anni vuoi sprecare, ancora… quanto vuoi aspettare?”
“Va bene, vuoi farmi sbronzare, vuoi scoparmi. Potresti almeno porti il dubbio di cosa ne penso e delle mie condizioni?”
Sbalordito. “Condizioni? Io… io non voglio solo portarti a letto!”
“Certo che no, ma prima o poi succederà, quindi meglio che sia tutto chiaro, visto che affronti l’argomento…”
“Tu… a te andrebbe bene…”
“L’hai appena detto… hai appena descritto con una certa ragionevolezza la situazione. Così ti spiego cosa voglio io.”
“Ti ascolto.”
“Niente altre donne. Devi essermi fedele. Non voglio sentire voci o storie.”
“Lo sono sempre stato.”
“Solo tu ed io. Noi due e basta.” Sguardo che non ammette obiezioni.
“Giusto.”
“Restami vicino. Sostienimi. Stammi vicino.” Ho bisogno di te… Ma non lo dice.
Annuisce.
“E ora, se per te va bene, potremmo uscire da qui e potresti darmi un bacio…”
Improvvido svedese, a far colazione di nuovo con loro. Manco a rue de Matignon non avesse personale nelle cucine e fondi per mantenersi… ma, tutto sommato, stamattina si sente in pace col mondo e può sopportare perfino l’intruso. Che trasecola, nel notarlo mentre passa una mano a sfiorare la vita di Oscar, e, peggio, quando si accorge di essere stato beccato in flagrante, le dà anche un bacio leggero sui capelli.
Siamo qui, sotto quest’albero. E la tengo stretta a me. L’ho baciata. Mi ha baciato. Le ho detto che le voglio bene. Da un sacco di tempo. E lei non mi ha neanche dato un cazzotto. Mi ha detto che crede di volermi bene anche lei. E vorrei sapere da quando, e farle mille domande. Voglio saperlo! Ma più di tutto, ora, voglio restare abbracciato a lei. Così. Per sempre.
Ormai non vede quasi più, ma, ogni volta che passa accanto a quell’albero, ricorda quella notte, e le promesse, e le condizioni di Oscar, tutte mantenute. Sorride. La ama talmente che ogni attimo con lei, ogni singolo momento, anche quando tutto sembra trascinato via dagli eventi, sembra immenso e gli fa dimenticare tutto. Sorride, mentre raggiunge gli altri della Compagnia B e, in un attimo fugace, trova il coraggio di sfiorarle la mano. E lei la stringe.
Nella notte, seduto accanto a lei, le cinge le spalle con un braccio. È buio, sotto gli argini del Canal St. Martin.
Poche ore prima, quando sono giunti in caserma, dopo che, nel bosco, lei aveva ammesso di sentirsi protetta, con lui accanto, nonostante il rischio di portarlo con sé; dopo aver parlato coi soldati e averli congedati, gli ha detto “No, tu resta”. Nessuno sguardo di disapprovazione. Li capivano tutti.
In quella notte, serrandola, nella battaglia, le ha sussurrato “Noi sopravviveremo”.
Fine
Laura, gennaio 2012, marzo 2012, primavera 2013, estate 2013, revisione ottobre 2013 pubblicazione sul sito Little Corner novembre 2013
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